Veronica: l’erba di sante e madonne

26 Marzo 2023

Non pare azione lodevole strappare gli “occhi della Madonna”. Ma questi fiorellini di Veronica persica, azzurri come il cielo nuovo di primavera, e catalogati da Linneo con il nome già in uso di una santa milanese (Veronica da Binasco 1445-1497), hanno di celestiale giusto il colore. Deliziosi sono quando, alla luce del sole, inondano ridarelli prode e prati, vestono a festa cigli stradali o affollano a frotte aree incolte. Dio ce ne scampi, invece, se te li trovi strisciare nelle aiuole e soffocare le piante coltivate.

Da qui la mia battaglia contro quest’infestante dalle filiformi eppur tenaci radici fascicolate: arrendevole è la vasta ragna dei gambi prostrati e grassocci, ma l’esile barba resiste alla mano e rimane ficcata nel suolo, vittoriosa, pronta a ricacciare nuove propaggini. Erbacea annuale, afferente alla famiglia delle Plantaginaceae – o Scrophulariaceae a seconda del sistema classificatorio di riferimento – è pianta nitrofila, perciò invade giardini, pascoli, messi e colture arboree alle quali sottrae azoto.

Ma consideriamola al suo meglio quando, in anticipo su viole e primule, riveste di cerulea allegria tristi rotatorie o negletti ritagli di verde urbano. È un’erba pelosetta dalle foglie ovali a margine dentato, che si innestano opposte alla base e alterne lungo il càule. I fiori peduncolati sono laterali alle ascelle fogliari, con corolla di quattro petali cilestri striati in una più scura nuance, gola bianca come il pistillo sporgente e i due stami dalle antere blu. Protrae l’antèsi pressoché l’intero anno, benché gli occhietti si chiudano al primo velo di nuvolo. I frutti sono capsule reticolate a due loculi contenenti semi ellittici e concavi. 

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Come suggerisce l’aggettivo persica, proviene dall’Asia centrale e si è diffusa in gran parte del globo. Il genere annovera circa duecento specie. Delle molte spontanee in Italia (una trentina) merita un cenno la Veronica hederifolia, che si distingue dalla V. persica per le lamine fogliari a tre o cinque lobi, il centrale ampio il doppio rispetto ai laterali e che, in minore, ricorda per la foggia quelle dell’ellera. A connotarla sono anche i fiorellini di una tinta più dilavata e le capsule quadrilobate dei semi. È L’ederella di Pascoli immortalata in una saffica apparsa in rivista nel 1905, e accolta l’anno successivo nella silloge Odi e inni

Prima che pur la primula, che i crochi,
che le viole mammole, fiorisci
tu, qua e là, veronica, coi pochi
                    petali lisci.

Su le covette, sotto l’olmo e il pioppo,
vai serpeggiando, e sfoggi la tua veste
povera sì, sbiadita sì, ma, troppo,
                    vedi, celeste.

Per ogni luogo prodighi, per ogni
tempo, te stessa, e chiami a te leggiera
ogni passante per la via, che sogni
                    la primavera.

Ti guarda e passa. Tu non sei viola!
Di sempre sei! Non hai virtù che piaccia!
La gente passa, e tutti una parola
                    gettano: Erbaccia!

Tu non odori, o misera, e non frutti;
né buona mai ti si credé, né bella
mai ti si disse, pur tra i piedi a tutti,
                    sempre, ederella!

Per il solo fatto di averla resa oggetto di poesia, di offrirne un’ecfrasi sapiente, di identificarla e portarla all’attenzione, Pascoli riscatta l’umile erba e mi insinua un vago senso di colpa. Tra le spontanee, da me più apprezzata è la perenne Veronica teucrium (o angustifolia), esile ed elegante sui lunghi steli che sortiscono in spighe di piccole corolle blu-viola, e la Veronica spicata, anch’essa fiorente in fitti racemi color ametista. Entrambe han dato origine a ibridi coloratissimi dai pennacchi bianchi, o rosa più o meno accesi, o azzurri leggeri ovvero profondi. Di facile coltivazione, hanno poche pretese e fioritura persistente di gran resa nei mixerd border.

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Last but not least, la boschiva Veronica officinalis, dalle foglie opposte e pubescenti a margine finemente dentato, racemi eretti con piccole corolle a quattro petali lilla o violacee. Erba amara, medicamentosa, diuretica e tonica, usata fin dal medioevo per lenire ferite, bruciature, infiammazioni: in Francia era nota come Herbe aux ladres (Erba dei lebbrosi) e thé d’Europe (o anche tè svizzero) perché nel Settecento, l’infuso era succedaneo dell’assai costoso tè cinese.

Dev’essere questa la specie di Veronica evocata da Cesare Pavese nel quinto capitolo della Casa in collina, quando il protagonista Corrado porta con sé a erborizzare nei boschi Dino, il ragazzino che sospetterà essere suo figlio, frutto di una sua relazione giovanile con Cate:

Dino aveva i capelli negli occhi e una maglietta rattoppata. Con me si vantò molto della scuola e dei suoi quaderni colorati. Gli dissi che non studiavo come lui tante materie, ma che anch’io ai miei tempi avevo fatto i disegnini. Gli raccontai come avevo copiato pietruzze, nocciole, erbe rare. Gliene feci qualcuna.

Quel giorno stesso mi seguì sulla collina, a raccogliere i muschi. Scoprendo i fiori della Veronica, fu felice. Gli promisi che l’indomani avrei portato la lente e lui voleva saper subito quanto ingrandisce.

– Questi granelli color viola, – gli spiegai, – diventano come rose e garofani.

Dino mi trottò dietro verso casa, e voleva venire alla villa per provare la lente. Parlava senza inciampi, sicuro di sé, come si fa tra coetanei. Mi dava del voi.

Fior di Veronica: la citazione botanica è una spia, tra le altre, che avalla una lettura del romanzo pavesiano anche in chiave cristologica, ma e contrario (Antonio Sichera). Una passio rovesciata quella di Corrado che non sceglie, evita di farsi carico del destino altrui, delle vite di Cate e Dino, e dei loro amici, li abbandona alla loro sorte, nelle mani dei nazisti.

Pare poco credibile che il nome della pianta provenga dalla leggenda della “santa Veronica”, il sudario che una donna pietosa stese sul volto di Cristo nell’ascesa al Calvario e che conservò le sue sembianze. Ma è la forza della leggenda, il culto popolare della reliquia conservata in San Pietro attestato anche da Dante («Qual è colui che forse di Croazia/ viene a veder la Veronica nostra», Par., XXXI), e la falsa etimologia del nome (Veronica da vera icona) a fare aggio. 

Aprile è prossimo e, con esso, la Pasqua con i suoi riti e simboli. Secondo un proverbio popolare delle mie parti (“En Apríl taca pò el manech del badíl”), è il mese in cui germoglia anche il manico del badile. È il momento propizio per piantare in vaso o in giardino ibridi di veronica, una nuova icona da aggiungere al ramo d’ulivo e alle palme. E poi: agnelli e capretti solo di marzapane.

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