Guerra alla guerra / Wu Ming, L'invisibile ovunque

24 Marzo 2016

Al centro della nuova esplorazione narrativa del collettivo bolognese è la Grande guerra, l'evento che trasforma il mondo nel mondo moderno e che inaugura il Novecento, sulla cui importanza per l'oggi non si scriverà mai abbastanza.Qualche tempo fa il reportage di Wu Ming 1, Cent’anni a Nordest: viaggio fra i fantasmi della guera granda, prima su «Internazionale» e poi pubblicato in forma estesa, ha aperto il fuoco sul tema dell'uso pubblico della storia della guerra, attraverso un'indagine sulla memoria del conflitto, della difficile vittoria e dell'irredentismo, in relazione al nazionalismo sul “confine orientale” e, in tempi recenti, al venetismo filo-putiniano e alle nostalgie asburgiche che si agitano nel Nordest. In quelle pagine, a contrasto, proprio nei luoghi della guerra emergevano gli echi della diserzione, del rifiuto della guerra e delle identità multiple e irriducibili alla matrice nazional-fascista che continuano a prendere corpo, sempre da quel terminus a quo. A dispetto della mappatura storiografica che ci ha restituito i diversi volti e vissuti della guerra, dei soggetti promotori o che ne furono travolti, il dispositivo culturale mainstream che il centenario del 1915-18 ha sollecitato e indotto continua a girare intorno ai luoghi comuni nel segno della retorica nazionale, monumentale e celebrativa: una guerra risorgimentale, nazionale e patriottica, in cui ci sono eroi e martiri, vittime del nemico. Ancora oggi, “noi” contro “loro”. Contro tutto questo L'invisibile ovunque racconta quattro storie di quella guerra: quattro movimenti di pensiero e di macchina, diversi per tema e registro. Non un romanzo ma un four-track E.P. in progressione e a complessità crescente; un po' meno collettivo di quanto avvenuto finora, nella misura in cui ogni membro del quartetto ha scritto singolarmente il proprio contributo al progetto comune. Diversamente da quanto avvenuto finora perché, se è recente l'uscita dal collettivo di Wu Ming 5, d'altro canto si moltiplicano i progetti collegati al sito di Giap, cantieri che coinvolgono lettori “attivi” in progetti correlati ai libri di Wu Ming su diversi fronti espressivi, dall'inchiesta giornalistica all'alpinismo, tali da configurare la Wu Ming Foundation come “collettivo di collettivi” o “piccola costellazione”.

 

Come ha recentemente scritto Alberto Prunetti, i libri di Wu Ming «legano fili e dipanano matasse che arrivano fino a oggi» attorno ai nodi della «guerra, fascismo, colonialismo e razzismo. E poi ancora guerra e quindi neocolonialismo e nuovo razzismo e nuovi fascismi». E i fili qui partono dalla guerra dei Trent'anni del Novecento, da quel terreno di fratture sociali e di culture della nazione da cui deriva «il mare di guai» (come ebbe a scrivere Arno Mayer), da cui non siamo ancora usciti. L’invisibile ovunque mette in scena, in quattro quadri, quattro differenti strategie di guerra alla guerra. Primo è la storia di un ardito, raccontata in modo “classico”, storicamente verosimile con personaggi fittizi: Adelmo è un loser, pieno di rancore, schiacciato da una minorità fisica e dall’odio per la sua famiglia e il mondo contadino, che trova la rivincita nel diventare uno specialista della violenza. L'ardito è il fascista del futuro. Tra gli elementi che lo portano lì ci sono la persistenza della morte, la caccia e le armi, la guerra come vita, l'amicizia virile, il legame cameratesco. Un malinteso senso di riscatto, il vittimismo aggressivo e un bisogno di risarcimento privato che incontra la guerra: un pezzo significativo del reducismo di piazza San Sepolcro e del ventennio che sta per arrivare. Secondo affronta la questione degli “scemi di guerra”, i malati di nervi che la guerra produce industrialmente, e introduce nel racconto elementi di documentalità, cioè testi veri su personaggi finzionali. Il protagonista Giovanni, per sfuggire al fronte, simula la follia ma ci resta intrappolato: come la guerra, anche se diversamente, anche il manicomio produce follia. Trincea e internamento psichiatrico sono due volti di una società volta a normalizzare e a disciplinare la massa nazionalizzata. Tra scoperta dello Shell Shock e quello che oggi si chiama Post Traumatic Stress Disorder la modernità della guerra si mostra anche nella psichiatria come braccio disciplinare della medicina, una scienza che si istituzionalizza per ridare alle nazioni soldati pronti e obbedire, combattere, morire. Il matto, leggiamo nel racconto, «è come un disperso, un soldato smarrito sul fronte più interno di tutti». C'è chi diserta con la mente, ma è impressionante pensare a quello che significa la nevrosi e la presenza continua del trauma. La guerra ha cambiato il mondo mentale di milioni di persone e preparato la “brutalizzazione della politica” dei decenni successivi. 

 

Se i primi due capitoli parlano di effetti della guerra, il fascismo e la follia, i successivi due sviluppano il tema delle reazioni di rifiuto alla guerra. Terzo aumenta il livello di complessità narrativa di almeno un paio di tacche sulla manopola del surrealistic distortion: il racconto ha al centro Jacques Vaché, figura di culto per il dadaismo e il surrealismo, ed è meta-narrativo. È André Breton che ricostruisce la storia di Vaché, scrittore e illustratore, sulle cui tracce si muove la giovane sorella, la quale giunge a Parigi per incontrare Breton: l’andamento si fa anacronico, piacevolmente allucinato e deragliante, accompagnato da illustrazioni dal tratto infantile. L'attenzione si sposta sullo humor più antimilitarista e dissacrante, sulla dimensione estetica e sulla politicizzazione dell'estetica, sulla sovversione delle regole della scrittura e della comunicazione. Questo Breton parla come Lenin e Trotsky della “guerra proletaria contro quella borghese”, configura il ruolo del “rivoluzionario nella guerra reazionaria” che intende rovesciare quella guerra in guerra civile, «guerra tra i popoli e i loro rispettivi governi» e quella che viene indicata è «la nostra strada. Rifiutare ogni compromesso col mondo che aveva scatenato quella guerra». Quarto chiude il libro e apre alla storia, al tempo stesso. È più che surrealista, è proprio [spoiler] una storia falsa. Una storia che si fa passare per saggio volto a riscoprire la vicenda del pittore Francesco Bonamore e che riporta a galla, a partire da documenti e mostre poco note in Italia, una storia dimenticata. Di pittori e artisti surrealisti, malgrado loro arruolati al fronte, che inventano il camouflage, il mimetismo: prima con i teloni di protezione per proteggere armi, munizioni e depositi e poi per le tute mimetiche dei soldati. Contro la guerra alpinistica e verticale e la mistica dell’attacco frontale, care agli alti comandi, si fanno avanti tecnici e artisti, intelligenze che studiano come farsi camaleonti, «diventare terra» per risparmiare le vite contro la guerra-tritacarne voluta dai generali. Il sogno geek è quello di «una vittoria paradossale senza morti. Una vittoria che nessuno (…) avrebbe mai riconosciuto, perché ingloriosa, storta, con la vita come unico premio». Qui la storia è storia scritta «con l'inchiostro simpatico di invisibili artisti guerrieri».  Ci stavo cascando anche io, che per età curriculum e ruolo dovrei essere avvertito, tanto è bella la storia di Bonamore che dipinge quadri dai titoli come Soldati nella neve, splendidamente descritti e commentati; ma basta la prima ricerca di riscontri in rete per vedere che cosa è Quattro: un falso saggio storico che, con la voce “oggettiva” dello storico, cita falsi personaggi, falsi quadri, false mostre, falsi documenti e false testimonianze. Una voce talmente sicura da stridere sulla lavagna su cui il professore Wu Ming ci stava incantando. Qui due sono le (piacevoli) sberle che riceviamo: una è l’avvertimento lanciato al lettore, di dubitare sempre di quello che legge, soprattutto se ben raccontato e a prescindere dall'autorità attribuita alla fonte. La seconda è che leggere qualcosa di bello e struggente ci pone di fronte alla particolare verità della letteratura. E che talvolta, quella falsità possa produrre un registro di verità più significativo della verità vera.

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