5 per mille

25 anni dedicati ai nuovi linguaggi della scena

Auguri, Primavera dei Teatri! (Angela Albanese)

Un quarto di secolo non è solo una ricorrenza da segnare sul calendario: è la testimonianza viva di un percorso fatto di visioni artistiche, scelte coraggiose e sfide affrontate con lucidità e passione. Venticinque edizioni del festival Primavera dei Teatri a Castrovillari – cittadina dell’entroterra cosentino lontana dagli snodi ferroviari e dal turismo costiero – raccontano la forza di un progetto che ha saputo restare vitale, pur attraversando crisi economiche, trasformazioni sociali e culturali.

Il festival dedicato ai nuovi linguaggi della scena contemporanea in questi anni non ha semplicemente “resistito” alle asperità di un territorio scomodo da raggiungere, alle lungaggini burocratiche, ai ritardi istituzionali che per due volte lo hanno fatto scivolare in autunno, ma è diventato nel tempo pianta robusta, sollecitando il tessuto territoriale e sociale a immaginarsi diverso, trasformandosi da esperienza locale in punto di riferimento nazionale, offrendo un fecondo spazio di dialogo fra compagnie emergenti e maestri consolidati. La longevità di un festival non si misura soltanto in numero di edizioni, ma nella capacità dei suoi fondatori, Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, di rinnovare il proprio lessico senza perdere coerenza. E fra i meriti principali della rassegna c’è appunto quello di essere stato un festival particolarmente attento alle novità di giovani artisti e artiste e quello di non aver tradito l’originario progetto di un ostinato radicamento nel territorio, pur avendo nel corso del tempo saputo mutare pelle: nelle poetiche, nell’apertura alle altre arti, nelle reti di collaborazioni nazionali e internazionali, nelle strutture ricettive, nei luoghi della cittadina calabrese che hanno ospitato gli spettacoli, talvolta reimmaginati, con duttilità e caparbietà, in funzione di un’inedita destinazione teatrale.

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Una scena di Incontro, Collettivo lunAzione, ph. Angelo Maggio.

Anche l’edizione numero 25 di Primavera dei teatri, dedicata al critico Claudio Facchinelli – firma storica del festival che ci ha da poco lasciati – ha proposto un fitto calendario di spettacoli giornalieri di teatro e di danza. La programmazione è stata poi arricchita da eventi musicali, dalla mostra dedicata al teatro La ferocia in pochi attimi dell’artista, scenografo, critico e studioso di teatro Renzo Francabandera, da residenze artistiche e laboratori, da proiezioni, come il docufilm Italianesi di Saverio La Ruina (vincitore della ventiduesima edizione del Tirana Film Festival nella categoria "Panorama Reflecting Albania") che restituisce, attraverso le dirette testimonianze dei protagonisti, un pezzo di storia italiana già raccontato in forma lirica nell’omonimo e fortunato monologo teatrale. Ricca anche la sezione dedicata alla presentazione di libri nel bellissimo cortile del Protoconvento francescano: Autoritratto sentimentale per inviluppo (Gaspari Editore 2025), ultima raccolta di racconti autobiografici di Claudio Facchinelli; Altrimenti il carcere resta carcere, a cura di Ornella Rosato e Alessandro Toppi (Bulzoni 2024); Tetralogia del dissenno II del drammaturgo Rino Marino (Editoria & Spettacolo 2024); La non-scuola di Marco Martinelli. Tracce e voci intorno ad Aristofane a Pompei di Francesca Saturnino (Sossella 2024).

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Una scena di Molly di Cubo Teatro, ph. Angelo Maggio.

Ma torniamo al teatro, provando a intercettare qualche filo che lega gli spettacoli visti negli ultimi giorni del festival. Il disagio dell’identità – un disagio psichico, sociale, culturale, generazionale – e una profonda solitudine sembrano essere le cifre dominanti all’interno di esperienze eterogenee e di percorsi artistici molto differenziati. L’incontro che dà il titolo al lavoro del giovane Collettivo napoletano lunAzione, formatosi nel 2013, è quello fra due vite a disagio, diversissime ma egualmente sole, la matura Giuliana (Federica Carruba Toscano), a cui in un agguato hanno ucciso il fratello per errore, e il diciassettenne Mattia (Lorenzo Izzo), il cui fratello maggiore è morto anche lui in un agguato, ma forse non proprio senza colpa. All’inizio del racconto di Giuliana, Mattia dalla platea, diventata una classe scolastica, disturba la scena, è fuori controllo, parla a voce alta al telefono, in dialetto, interrompe, esce, rientra. I due si incontrano sul terreno comune del lutto e si scontrano, anche con violenza, rimanendo distanti. Lei cerca il confronto, lui si chiude nella rabbia, nel cinismo, nel desiderio di vendetta e di una felicità che coincide con i soldi. Il tentativo del collettivo lunAzione, attivo nel sociale e nelle scuole, punta qui a un realismo crudo e didattico, e forse proprio questa adesione così stretta al reale, con contrasti troppo esasperati e prevedibili, non restituisce del tutto la complessità del conflitto, finendo per togliere un po’ di forza allo spettacolo.

La linea della realtà contrassegna anche Molly di Cubo Teatro, collettivo di teatro, musica, visual arts, arte contemporanea. La giovane protagonista (Letizia Russo) vive rinchiusa nella sua cameretta e nell’universo digitale fatto di algoritmi, challenge social e mondi virtuali, sperando inutilmente che qualcuno dalla rete risponda alle sue sollecitazioni da influencer. La storia è vera ed è quella della quattordicenne londinese Molly Russell suicidatasi nel 2017, ma è restituita in scena nella forma di pura replica della quotidianità rimandata dai media, senza alcuna trasfigurazione. Vengono allora in mente, con un po’ di nostalgia, le parole di Claudio Meldolesi quando scrive che l’attore teatrale «non è fino in fondo un uomo dell’attualità […] egli avvicina il pubblico con sapienza lontana. L’attore ci offre una dimensione primitiva del presente» (Pensare l’attore, a cura di L. Mariani, M. Schino, F. Taviani, Bulzoni, 2013, p. 67).

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Una scena di Io sono Verticale, Francesca Astrei, ph. Angelo Maggio.

“Io sono verticale / ma preferirei essere orizzontale […]. E sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre: / Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me”. Probabilmente da questi versi di Sylvia Plath, morta suicida poco più che trentenne, e dall’altra sua poesia Lady Lazarus è arrivata la prima suggestione per questa drammaturgia alla brava Francesca Astrei, autrice e interprete del monologo Io sono verticale. Bastano all’attrice solo un esile microfono appeso a una corda calata in verticale e una sedia perché immediatamente, attraverso la sua voce e il suo corpo quasi sempre in posizione seduta, la scena si popoli di altre presenze: figure bibliche quelle che impersona, a partire da Lazzaro, protagonista depresso, risorto controvoglia, senza forza né coraggio di mettersi in verticale, e davanti a lui, fuori dal sepolcro/stanza, tutti gli altri, impazienti di festeggiarlo: le sorelle Marta e Maria, gli apostoli, il bimbo Beniamino, Gesù il dottore, che ripete come un mantra “Alzati e cammina!” (“per andare dove?”, si tormenta Lazzaro), e persino una pecora risentita, che rivendica pari trattamento con gli umani accusando il dottore di far miracoli sempre a scapito degli animali. Mescolando registri drammatico e comico-grottesco, e intrecciando riferimenti biblici, citazioni poetiche (da Sylvia Plath a Shakespeare) e richiami alla contemporaneità, Astrei riesce a raccontare con efficacia il disagio esistenziale proprio attraverso l’allontanamento dal presente, creando una distanza che amplifica l’impatto della sua drammaturgia.

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Una scena di Cari spettatori di Danio Manfredini, ph. Angelo Maggio.

“Sono libero di andare quando voglio? Ma di andare dove? Di andare a fare il barbone alla stazione centrale?”. È questa una delle battute più dolorose del bellissimo Cari spettatori di Danio Manfredini, e a pronunciarla è Arturo (Vincenzo Del Prete), in convivenza forzata con Gino (Giuseppe Semeraro). Isolati tra quattro mura di un appartamento della Caritas dopo l’uscita da una comunità psichiatrica, Gino e Arturo, anch’essi novelli Lazzari incapaci di uscire (“vuoi andare fuori dalla gabbia? Poi ti schianti!”), trascorrono fragili e soli le giornate in un tempo sospeso, tra sigarette, spesa e la visione di vecchi video della comunità, che riaccendono ricordi e frammenti di vite. Gino, spinto da un’energia visionaria, tenta di scrivere un copione teatrale e straparla di fede, tecnologia, apocalisse, cercando nella finzione teatrale una via di fuga dal dolore, mentre ad Arturo basterebbe una casa popolare, una relazione stabile. Muovendosi su una scena scarna – due letti in ferro, un paio di comodini con medicinali, uno specchio, un mezzo litro di latte e altri oggetti perfettamente funzionali al dramma, senza sbavature né orpelli – Gino e Arturo si confrontano, si scontrano, si comprendono a fatica, piangono insieme. Esistenze ai margini quelle di Manfredini, vite congelate in un'attesa indefinita.

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Una scena di Emma B. vedova Giocasta di A. Savinio, con Marco Sgrosso, ph. Angelo Maggio.

Anche Emma, la protagonista dell’ultimo spettacolo visto, vive congelata nell’attesa e nella solitudine. A interpretarla magnificamente en travesti è Carlo Sgrosso, nel monologo Emma B. Vedova Giocasta di Alberto Savinio che Sgrosso, qui anche regista, scenografo e costumista, rielabora innestando nella drammaturgia di Savinio alcune parti da lui scritte e altre ricavate dall’allestimento di cui era stata interprete nel 1981 Valeria Moriconi, a cui lo spettacolo è dedicato. Emma attende nervosa il ritorno del figlio, preannunciato improvvisamente da una lettera dopo un silenzio durato quindici anni. Attende Emma, e quando inizia a parlare le sue parole intrecciano un passato pieno di amore incestuoso per questo figlio, che ben presto si è sostituito anche negli abiti a un padre sparito presto, e un presente che brucia ancora di quell’amore. È una magnifica prova d’attore quella di Marco Sgrosso, che ha incantato il pubblico con le sue modulazioni vocali, con la sapienza dello sguardo e dei gesti. E fra le note di un tango e quelle di Testarda io (La mia solitudine), la nostra edizione si chiude con lunghi e meritati applausi per questo superlativo lavoro. Ed è già nostalgia per la prossima Primavera.

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Una scena di Ivan e i cani di Hattie Naylor, di e con Federica Rosellini, ph. Giovanni William Palmisano.

Sguardo, rigore, metamorfosi, dolore (Massimo Marino)

È una magia come questo festival sia riuscito a vivere e diventare ogni anno più bello, contando su incerti e mai sufficienti finanziamenti. Forse il segreto è stato la voglia di osservare, di sperimentare, di fare sintesi di tendenze per raccontare cosa succede nelle isole della scena teatrale, per provocare conoscenza ed esperienza.

Dal resoconto di Angela Albanese traspare la ricchezza di una rassegna che ha avuto anche una sezione di danza e che ha offerto testimonianze sulla nuova drammaturgia siciliana, con opere di Rino Marino e Rosario Palazzolo, affondi linguistici e tematici tra arcaicità e presente mediatico.

Ma il tema che in questa breve nota vorrei estrarre dalle magnifiche giornate di fine maggio passate tra orizzonti mozzafiato ai piedi del massiccio del Pollino e paesini arroccati, tra ginestre e centri urbani, è quello dello sguardo alle diversità.

L’attore è differenza, metamorfosi, trasformazione, altro che ci invade per metterci alla prova, per farci scoprire, dentro di noi, ostacoli, pregiudizi, possibilità. È, per lo spettatore, un esercizio di dislocazione nell’altro, di sondaggio di profondità celate. I due personaggi emarginati di Danio Manfredini, con quei discorsi apparentemente scollegati, sconnessi, con il loro trascinarsi per riempiere vuoti nei quali sono stati e si sono precipitati, la recita en travesti di Marco Sgrosso, in cerca di un figlio, di un destino, di una sublimazione borghese dell’Edipo, sono tracce, segni di questa possibilità di incursioni in territori poco conosciuti, inabituali e a volte inabitabili. Ma è soprattutto Ivan e i cani di Federica Rosellini, performer, regista e sound designer, a portarci in un viaggio notturno, labirintico, nelle trasformazioni.

Il testo della britannica Hattie Naylor del 2009 – tradotto da Monica Capuani e pubblicato in Italia da Federica Iacobelli nella collana “i gabbiani” delle edizioni Primavera – racconta una favola nera nella Russia povera e disastrata degli anni di Boris Eltsin. È la storia di un bambino cacciato di casa per la miseria e disperso nella foresta di una città piena di rottami, di barboni, di bande di ragazzi che sniffano colla, di animali randagi, di tanti esseri allo stato brado, che cercano di strappare il minimo per la sopravvivenza. La scena di Paola Villani (costumi di Simona D’Amico, luci di Simona Gallo) è un banco musicale circondata da una striscia di neon, con vari banchi di strumenti digitali, due bacchette di batteria, un kazoo e una stupenda vocalist, capace di scorticare l’ascoltatore. Rosellini dietro questa installazione si trasforma in orchestra, in voce che rompe il silenzio della notte paurosa, in visione di metamorfosi, dialogando a tratti con la voce registrata della madre, Laura Pasut, che narra, sommessa e incantatoria, parti della storia in russo.

Subito prima di questo debutto l’attrice si è tagliata i capelli quasi a zero, li ha imbionditi; indossa un paio di calzoncini corti. Si è trasformata in bambino, bambino maschio, ideale protagonista di questa odissea russa nella paura e nel mutamento, di genere, di specie, di sensibilità. Ivan incontra una muta di cani randagi che dopo un’iniziale diffidenza – distanza e ringhi – la integrano nel loro branco, la trasformano in un cane. Per sopravvivere al terrore, sembra dirci, bisogna rovesciarsi, aprirsi, accogliere, sentire chi con noi ha com-passione. Straordinario è come questa favola oscura si svolge, fino alla cattura dei cani e alle reclusioni di Ivan in orfanatrofio: la voce diventa canto, melopea dolce, rabbia, stridore che smarrisce, dolcezza che consola, che fa evadere nel sogno di ritrovare i cani nella neve che cade e tutto copre. È un viaggio palpitante nell’infanzia, nelle sue misteriose differenze: nel suo lato più doloroso, oscuro, aperto a qualche speranza.

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