Alberto Arbasino / Identità italiana

22 Febbraio 2011

Volendo campionare le voci 'Italia', 'italiani' nella produzione degli scrittori del Novecento, di Alberto Arbasino andrebbe setacciata l’intera opera. È come se l'autore di Fratelli d'Italia avesse saputo mimetizzarsi e confondersi nel cuore della nazione, abitandone l’identità profonda, il carattere ineffabile, per poi trasmettere da lì romanzi, relazioni letterarie, pamphlet, corsivi, saggi, che attestano, mentre li descrivono sardonicamente, la sua irriducibilità ai vezzi, ai tic, ai malcostumi civili e culturali del Belpaese. Impressione che si avverte già semplicemente familiarizzando con la lingua che usa, così lontana dal sound (come direbbe lui) della prosa che ci assedia (ovvero a essa parodisticamente prossima).
Del suo Un paese senza viene evocata abitualmente la celebre elencazione incipitaria («Un paese senza memoria? Un Paese senza storia? Un Paese senza passato?...»). Qui, invece, a modo suo, Arbasino elenca i credits contratti con i classici per allestire la sua personale 'italianologia'.

Matteo Di Gesù

 

Sarà un elenco certo incompleto, forse parrà ingeneroso o iniquo, però è ricavato dai migliori autori della nostra letteratura nazionale, quelli che letti a scuola nei due decenni “anomali” nella vita e nella storia del nostro Paese (i '50 e i '60) potevano sembrare letterati “avulsi” dalla nostra realtà e dai nostri caratteri – e invece ritornano (da Dante in poi) come antropologi tutt'altro che astratti, anzi profondi e tenebrosi, di zuffe cannibalesche in comuni e villaggi anche minuscoli, fra ceffi ridiventati medievali e (con precisione iconografica) patibolari in orizzonti teorici sempre più astrali e stellari...
...tanto che nella tradizione migliore della letteratura italiana sull'Italia le più celebri canzoni del Paese dei più rinomati vati non ripetevano certo – a parecchi secoli di distanza – come siamo belli e bravi, furbi, operosi, “dritti”, celebrativi, in preda alla tenuta e alla maturità e alla crescita. Semmai, in termini piuttosto simili, né gratificanti né mistificanti, il contrario: «scabbia» che rima con «gabbia», vampe di «chi la ridusse a tale?». E notazioni precise, da editorialista politico: «fiere selvagge e mansuete gregge», «popol senza legge», «poco vedete, e parvi veder molto», fastidire il vicino», «ch'alzando il dito co' la morte scherza», «ma 'l vostro sangue piove», «non far idolo un nome vano, senza soggetto», «ma la gloria non vedo», «che lividor, che sangue», «come cadesti o quanto, da tanta altezza in così basso loco?».
Forse Francesco P. mentiva, forse Giacomo L. esagerava? Ci vediamo in condizioni tali da sostenere che Niccolò M. e Francesco G. e Alessandro M., tanto per attenerci ai più trafficati, sarebbero antropologi culturali inattendibili, viziati addirittura dal malumore? E risultano più sinistri gli schizzi di «innati pessimisti» quali Giacomo L. e Antonio G., o i ritrattini lusinghieri di etnologi trionfalistici come Vincenzo M. e Gabriele D'A.?

 

(Alberto Arbasino, Un paese senza, Garzanti, Milano 1990)

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