Biocapitalismo

29 Agosto 2014

Il capitalismo contemporaneo si caratterizza soprattutto perché tende a non accontentarsi di utilizzare i corpi degli esseri umani come semplici strumenti di lavoro. Cerca invece di estrarre valore economico da tutte le componenti biologiche e da tutte le dimensioni mentali, relazionali e affettive degli individui.

 

Ne deriva che si trasforma in quello che è stato chiamato da Vanni Codeluppi «biocapitalismo» nel libro omonimo. Si può sostenere infatti, che nel sistema capitalistico è recentemente comparso il «biocapitale», una nuova forma di capitale che si basa a sua volta su una nuova forma di valore economico – il «biovalore» – il quale può essere estratto dalle proprietà vitali delle creature viventi.

 

Il passaggio del capitalismo alla sua fase «bio» sta avvenendo anche perché le imprese non possono più accontentarsi di ricevere prestazioni funzionali dai corpi dei loro dipendenti, ma devono sfruttare in misura crescente le idee creative e i pensieri di questi. Devono sfruttare cioè il cervello, che però è strettamente legato alle identità delle persone e dunque continua a lavorare anche al di fuori del lavoro. Rappresenta perciò l’elemento di continuità tra il tempo di lavoro e il tempo libero, quello che rende oggi il secondo sempre più simile al primo.

 

Secondo gli economisti classici, nel capitalismo delle prime fabbriche l’operaio lavorava per un certo numero di ore per produrre valore economico per sé e per il suo datore di lavoro e poi aveva delle ore libere in cui poteva recuperare le forze. Il biocapitalismo invece non si accontenta di sfruttare le ore di lavoro, ma tenta di produrre valore anche mediante le ore del tempo libero. Poiché tali ore servono agli individui soprattutto per definire le loro identità sociali, esse sono inevitabilmente intrecciate con le componenti più intime della personalità umana, le quali sono dunque esposte al lavoro di sfruttamento che viene svolto dalle imprese.

 

Queste infatti, grazie alla crescente diffusione sociale dell’informatica e dell’uso del Web, spingono il consumatore ad effettuare una parte del lavoro che in precedenza svolgevano per lui. E spesso il consumatore è anche soddisfatto di ciò, perché viene gratificato dalla possibilità di esprimersi. È soddisfatto, ad esempio, quando può essere il cameriere di se stesso nei sempre più numerosi locali di ristorazione che applicano il modello del self service. E lo è anche quando impiega il bancomat per effettuare ciò che in precedenza faceva il cassiere della banca o quando attraverso la rete Internet fa il lavoro del consulente finanziario. O, infine, quando, sempre su Internet, si prenota il biglietto dell’aereo o controlla dov’è finito il pacco che ha spedito con un corriere.

 

Si tratta insomma del crescente diffondersi di quello che può essere chiamato «modello Ikea», probabilmente una delle imprese più avanzate da questo punto di vista. In un negozio Ikea, infatti, il cliente deve scrivere da solo il codice dell’articolo che desidera, cercarlo, scaricarlo dagli scaffali in forma di pesante pacco, caricarlo sulla sua automobile, portarlo a casa, montarlo pezzo per pezzo e, infine, eliminare gli ingombranti imballaggi.

 

Inoltre, grazie al Web che rende possibile la nascita di comunità di appassionati di prodotti e marche, crescono le imprese che sviluppano relazioni in grado di raccogliere idee dai consumatori, spesso addirittura prima ancora che i prodotti arrivino sul mercato. Cioè quando vengono progettati o testati. Oppure nella fase di ideazione delle nuove forme di comunicazione o in quella della promozione dei prodotti.

 

Ma sono anche molte altre le attività che il consumatore svolge e che lo costringono a mettere al lavoro le diverse componenti del suo corpo. Ad esempio, nei punti vendita delle grandi marche che frequenta, dove i suoi sensi sono sempre più coinvolti da luci, suoni, immagini e materiali. Oppure nei rapporti con i messaggi pubblicitari delle grandi marche, i quali parlano alla sua ragione, ma parlano sempre più frequentemente ai sensi e alle emozioni, trasformati così anch’essi in strumenti di produzione.

 

Appare evidente pertanto che il biocapitalismo ha un assoluto bisogno di nutrirsi della vita degli esseri umani per produrre valore economico, ma tende nello stesso tempo anche a soffocare tale vita. Possiamo dunque dire che mangia se stesso. C’è da chiedersi se ciò possa diventare in futuro per esso una contraddizione insanabile.

 

Se cioè rimanga ancora valida la visione che Marx a suo tempo ha ricavato da Hegel e cioè l’idea che la merce trasferisca all’intero sistema economico la sua particolare natura basata su un’unione inscindibile di valore d’uso e valore di scambio, qualità e quantità, materialità e astrazione. Tale idea prevede che il valore d’uso costituisca un limite contro il quale si scontra continuamente la tendenza del valore di scambio all’autoaccrescimento illimitato, ma allo stadio attuale di evoluzione del biocapitalismo sembra lecito dubitarne.

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