Milano ha un futuro?

1 Aprile 2015

Una città come questa

non è per viverci, in fondo: piuttosto

si cammina vicino a certi muri,

si passa in certi vicoli (non lontani

dal luogo del supplizio) e parlando

con la voce nel naso

avidi, frettolosi si domanda: non è qui

che buttavano loro cartocci gli untori?

 

da Giovanni Raboni, Tutte le Poesie (1949-2004), Einaudi, 2014

 

 

 

Che posto strano, chi ci arriva da fuori e non ci è abituato si sorprende che sia una città «volutamente» trasandata. Come se la cifra più forte del suo attestarsi sulla bassa non sia il magnifico Duomo, ma l’assenza di dettagli, il voler comunicare «qui non abbiamo tempo» per la bellezza. Una città ricca – ovviamente anche povera – ma in cui i ricchi hanno sempre preferito l’interno all’esterno e in cui il lusso si dovrebbe manifestare negli immensi cartelloni pubblicitari per la moda. Ma ovviamente la cosa non tiene. All’angolo della prima crisi i cartelloni dimostrano quello che sono: solo bidimensionalità. Per chi la scopre a piedi nei suoi angoli e nelle sue opportunità rimangono un mistero i marciapiedi di asfalto e bitume, l’incuria del decoro urbano, il non investimento sul rendere la città piacevole da passeggiare e da sostarvi. Fino a poco tempo fa questa cifra di «noncuranza» sembrava dovesse essere compensata dalla prodigalità e dai frutti del lavoro creativo. Ma la città della moda e del design è diventata anche la città della corruzione e del malcostume italiano e moda e design, a parte la settimana dedicata a loro, non «esondano» dai propri confini, non regalano alla città la cura di cui avrebbe bisogno. È una situazione schizofrenica che «tiene» perché comunque c’è chi lavora ancora tanto, ma perché nonostante questo o magari proprio per questo prevale l’astrattezza sulla concretezza fisica del posto?

 

I grandi lavori attuati per metà o per un quarto, il recupero di una parte dei Navigli, la piazza «Unicredit», il rinnovo parziale delle stazioni sono opere straordinarie, ma cosa ne è dell’ordinario, del miglioramento del decoro – tristissimo dall’origine – delle metropolitane, del senso urbano di viali e di quartieri residenziali? Questi si somigliano fin troppo e sono ancora dentro all’ideologia del quartiere dormitorio perché qui «non c’è tempo per i dettagli». Perché la città più attiva d’Italia rimane anche la meno interessante, la meno investita da un progetto generale di riqualificazione? L’Expo è l’ennesima fiera con l’ennesima auspicata ricaduta in termini di attrazione di visitatori. E la città intorno? Se l’ispirazione dovrebbe essere l’idea che ne aveva Leonardo, di un posto d’acque e di gente, siamo lontano dal percepire come nella minuzia della vita quotidiana possa migliorare lo spazio pubblico. In questa strana situazione sembra che i veri innamorati della città siano quelli che organizzano le occupazioni, perché almeno rimarcano il valore pubblico della forma urbana. È interessante capire come Milano viva nei suoi micro-spazi «nonostante» la mancanza di un’idea generale. Vive in viale Padova con i latinoamericani, vive in viale Sarpi con la comunità cinese e nel tessuto popolare intorno a viale Tibaldi, o i luoghi misti di eritrei e latini intorno al Lazzaretto. È una città di microvillaggi che non hanno, a parte Chinatown, un grande passato, ma un’ambizione presente di identità. Sono spazi considerati dai milanesi «marginali», ma quelli che sarebbero gli spazi centrali oggi sono «devitalizzati» come un dente passato attraverso le mani di un odontoiatra. E se lo shopping dovesse essere la cifra della centralità, ebbene essa è scaduta da un po’ e non se ne può inventare una nuova presto. Milano sembra una città che ha nostalgia di se stessa e che promette a tutti che tornerà come prima, ma poi fa una fatica boia a raccontarsi al presente. Chi la abita cerca in essa un rifugio e una qualità che è tutta legata ancora alle relazioni e al potenziale lavoro, ma molto poco al gradimento della città in sé. È un posto dell’understatement in cui gli abitanti si erano abituati a essere «invidiati» da visitatori in cerca di «Prada outlet» e improvvisamente si son trovati tutti in un immenso outlet.

 

Una città in cui l’immigrazione meridionale ha dato per cinquant’anni vigore e colore alle brume e ai salotti dove avvenivano le vere decisioni. Ma ormai tutto ciò è parte di una nostalgia e di un ricordo. Se era l’America degli italiani, rischia di diventarne la Detroit. Ed è il luogo per eccellenza dove la «classe creativa» si è giocata le sue carte e oggi è la classe più umiliata da una ricchezza parassita e incapace di inventare un futuro.

 

 

 

Anticipazione da F. La Cecla, Contro l’urbanistica. La cultura delle città, Einaudi, 2015.

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