Giappone: l'umanità cellofanata

8 Ottobre 2013

Dagli anni Ottanta sono spuntati in ogni angolo del Giappone, davvero come funghi, dei negozi di una nuova tipologia, chiamati “convenience store”, sia in città che in campagna. Assomigliano a dei supermercati tradizionali, ma sono profondamente differenti nella loro essenza.

 

Si tratta di alcune catene di supermercati molto piccoli, aperti 24 ore su 24, che vendono le cose strettamente necessarie per vivere (o meglio sopravvivere) per un po’ di ore. A cominciare dal cibo. Molti sono prodotti precotti da riscaldare in forno a microonde, bevande (alcolici e non), ma vi trovate anche biancheria intima, dentifrici, shampoo, rossetti, calze, articoli di cartoleria, giornali e perfino sacchetti di plastica dai colori diversi per la raccolta differenziata.

 

 

La qualità di ogni prodotto è abbastanza discutibile, nessuno si aspetta di comprare pesci, carne o verdure fresche di qualità ai “convenience store”, eppure i “convenience store” hanno avuto un grande successo per la loro comodità, come dice il loro nome, come se in vendita non fossero più le merci ma la loro stessa comodità e praticità. Per molti businessmen giapponesi, che spesso non hanno nemmeno il tempo di tornare a casa per cambiarsi d’abito, avere un negozio sotto l’ufficio dove poter trovare a buon prezzo una camicia e un paio di mutande con uno spazzolino da denti alle tre di notte, è preziosissimo.

 

Abbiamo detto che vendono la comodità. Infatti, all’interno dei “convenience store” si trova anche il bancomat e alla cassa si possono pagare le bollette per il telefono, il gas, l’elettricità. Hanno perfino un servizio di corriere express per spedire pacchi anche molto grossi che in poche ore arrivano a destinazione in ogni angolo del paese.

 

 

Sebbene le operazioni offerte siano molteplici, questi “convenience store” sono molto semplici perché tutto viene gestito dal codice a barre. Le commesse non fanno altro che compiere il semplice gesto di far passare il codice a barre di ogni merce o di ogni operazione richiesta.

 

In tutto questo l’efficienza è impeccabile. Siamo in Giappone. Non ti fanno mai aspettare, nemmeno pochi secondi, il personale è sempre disponibile e gentile, veloce nelle operazioni. E alla fine, quando ti danno il resto, compiono il capolavoro del manuale nipponico del perfetto commesso: con la mano destra ti danno in mano il resto e contemporaneamente la loro mano sinistra si allunga fin sotto la tua mano come per voler parare le eventuali cadute di monetine. Attenzioni superlative?

 

In tutto questo non c’è però nessuno scambio di sguardo, di sorriso, nessun tipo di comunicazione umana. Nemmeno due chiacchiere sul tempo. La gentilezza viene consumata unicamente nel comportamento servizievole e nelle parole cortesi, che però sono parole imparate dal manuale: benvenuto, scusi per l’attesa (te lo dicono sempre, anche se non hai aspettato nemmeno due secondi), grazie di essere venuto, arrivederci, ecc. Quest’ultima frase la senti sempre sulla tua schiena mentre stai già uscendo dal negozio.

 

Viene proferita non per comunicare davvero la loro gratitudine, la dicono perché quella è la prassi da seguire. In una normale relazione umana è difficile rivolgere quella frase a qualcuno che non sembra nemmeno ascoltarti e che si trova già lontano di qualche metro, perfino di schiena. Molto probabilmente la commessa pronuncia quella frase senza nemmeno guardare la persona che esce. Sono momenti surreali.

 

I “convenience store” sono semplicemente i terminali di un sistema di vendita computerizzato e le commesse semplici operatrici che fanno funzionare questi terminali. Per ora sono persone ad occupare questo ruolo, ma non c’è proprio bisogno che sia un essere umano a farlo. Rispetto alla mansione che offre, sarebbe più giusto impiegare non un essere umano ma un robot. Nella realtà invece vi trovi ancora degli esseri umani che lavorano da robot. Di conseguenza, anche la considerazione sulle condizioni dell’ambiente di lavoro ha qualcosa di disumanamente bizzarro. Ho notato negli ultimi anni che d’estate all’interno dei “convenience store” la temperatura è bassissima.

 

 

All’inizio non capivo il perché di quell’eccessivo consumo energetico, finché non ho realizzato che non era perché avessero a cuore il conforto delle persone che stanno lì (commesse e clienti), ma per tenere freschi i loro prodotti alimentari. Cioè l’intero spazio interno viene considerato come un grosso frigorifero. Con dentro anche esseri umani, però. I “convenience store” sono spazi dove le persone vanno e vengono, e ci sono persone che vi lavorano anche a lungo, ma vista la temperatura degli ambienti dobbiamo dire che la salute delle persone non è un fattore così importante da tenere in considerazione.

 

Tuttavia, quello che più mi ha colpito di questi “convenience store” sono i prodotti alimentari che vi si trovano in vendita. Sono quasi tutti prodotti semi-preparati o precotti, pronti da essere riscaldati nel forno a microonde. La maggior parte è pensata per i single, sempre più numerosi nella società giapponese; che mangiano da soli. Il koshoku (mangiare da soli) è infatti un fenomeno sociale e mentale molto preoccupante nella società giapponese, ma i “convenience store” sfruttano cinicamente questa condizione sociale per vendere “prodotti per koshoku”, anziché inventare prodotti che favoriscano la convivialità. Immagino sia perché sono appunto “convenience store”, negozi che offrono servizi comodi. Ma comodi per chi? Progettare prodotti che favoriscano la convivialità è un lavoro troppo faticoso e poco remunerativo e non rientra proprio nella loro mentalità di “convenience”.

 

Osserviamo un po’ più attentamente questi prodotti. Tutti i prodotti alimentari sono cellofanati o confezionati in una scatola di plastica trasparente. Tutto sembra volerci dissuadere dal toccare con mano il cibo o odorarlo. Anche se volessimo, non potremmo farlo. Chi è troppo abituato a questo scenario non si pone nemmeno queste domande e va a leggere direttamente la scadenza. In quest’universo di “convenience store” i nostri sensi non sono necessari, non sono richiesti. E’ un “impero senza sensi”. Se non cerchiamo più di tastare la consistenza del cibo, di odorarlo o assaggiarne un pezzo, come possiamo davvero fidarci di semplici numeri? Si prospetta un mondo così poco fisico, così poco sensoriale? Tutto si svolge solo secondo i dati numerici? La cosa diventa ancora più paradossale quando ci ricordiamo che siamo in Giappone, dove norme di legge molto severe o molto dissennate fissano la data di scadenza più o meno a un terzo della durata effettiva del cibo. Vale a dire, se una torta può durare dodici giorni, la data di scadenza sarà a quattro giorni dalla produzione. Eppure, con tutti gli additivi che si trovano in questi cibi di “convenience store”, c’è da domandarsi chissà quanti giorni durerebbero effettivamente prima che iniziassero a marcire.

 

Non finisce qui. Guardiamo ancora meglio la scadenza. Leggo sull’etichetta di un tramezzino perfettamente cellofanato: “2013 – 09 – 18 – 3 AM”. “3 AM”, alle 3 del mattino? Che senso ha questa precisione? Non riuscivo a capire. Se la durata effettiva è così lunga, che senso ha dichiarare in modo così preciso il momento di scadenza? Tanto non è una vera scadenza… Qualche tempo fa un ragazzo, un giovane attore che si guadagna da vivere in uno dei tanti “convenience store” di Osaka, mi ha finalmente spiegato il perché. Quell’indicazione di “3 AM” non era per i clienti che mangeranno il tramezzino, era invece un’indicazione rivolta alle commesse per far sapere entro quando vanno rimossi dagli scaffali questi cibi.

 

 

Ho scoperto inoltre che già due ore prima di quell’indicazione (3 AM) il tramezzino comincia a non passare più il lettore del codice a barre. Il commesso che dovesse riceverlo alla cassa lo tiene da parte e poi lo getta via. Il sistema di consegna e riconsegna delle merci è molto preciso e non deve essere complicato da gestire. Deve anzi essere semplicissimo da eseguire per le commesse. Allora quell’indicazione di scadenza, che originariamente riguardava la salute del consumatore, nel contesto del “convenience store” diviene uno strumento per far circolare più intensamente le loro merci nuove e “scadute”.

 

Ancora una volta l’essere umano, la sua salute non è un fattore da contemplare. Abbiamo avuto l’illusione di essere oggetto di attenzioni super meticolose, e invece sono attenzioni rivolte a qualcos’altro. Come dice Carlo Petrini, in questo mondo globalizzato e dominato dalla logica delle multinazionali ormai il cibo non è più fatto per essere mangiato, ma spesso solo per essere venduto. Ancora nei supermercati “normali” si può coltivare l’illusione di trovarsi in un posto dove probabilmente si vendono cose buone. Ma nei “convenience store” non ci è permesso nemmeno avere quest’illusione.

 

L’ultima illusione sembra sostituita completamente dal sottilissimo cellofan trasparente che avvolge qualsiasi cosa, dal cibo all’uomo, dal sapore ai sentimenti. Sarebbe questa la società che ci attende? E’ questa l’opera di quella civiltà così efficiente? Quella certa dose di “non efficienza” che caratterizza la società italiana, che di solito tanto odiamo dal di dentro, può essere un forte antidoto per impedire che il nostro luogo di vita si trasformi in un esteso, disumano “convenience store”.

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