Un pranzo di Natale lungo una vita

15 Dicembre 2025

Lo so, si avvicinano tempi complessi. C’è chi ha già predisposto tutto con settimane di anticipo e chi pensa «lo faccio domani»; c’è chi corre da una parte all’altra per gli ultimi acquisti, chi freme per l’arrivo della spedizione online che continua a postporre la data di consegna e chi se la prende comoda, perché ha bisogno di andare al suo ritmo. C’è chi non vede l’ora che arrivi; chi vorrebbe non finisse mai e chi volentieri si addormenterebbe la Vigilia per svegliarsi a Santo Stefano. Insomma, in prossimità del Natale il tempo scorre in modo diverso dal solito: si dilata per chi si strugge nell’attesa, si contrae per chi ha mille cose da fare. Tempo “pieno” per chi crede nel suo valore rituale, indipendentemente dalla connotazione religiosa; tempo che si svuota di ogni significato per chi ne soffre la brutale secolarizzazione; tempo perso per chi vorrebbe vivere quel giorno come ogni altro, e deve invece misurarsi con la sua eccezionalità. Perché al di là di quello liturgico, il calendario astronomico parla chiaro: il solstizio d’inverno (che a dire il vero si colloca sempre tra il 21 e il 23 del mese) segna l’avvio di un nuovo ciclo e quindi una nuova nascita. Da domani non ci sarà più una notte così lunga, e il sole poco a poco si riprenderà il suo spazio, e il suo tempo. E qual miglior modo di festeggiare una rinascita, che una bella mangiata?

Che sia la sera del 24 o a mezzodì del 25, in coppia o con i parenti, tra amici, amiche o sconosciuti a un evento mondano oppure caritatevole, mangiare insieme è fondamentale, a Natale. Perché il pranzo è prima di tutto condivisione, e spartirsi amichevolmente il cibo è una delle pratiche che meglio contribuisce a mantenere coesa una famiglia, o una società. Il fatto poi che sia un atto comunitario, in cui diverse persone partecipano di una stessa esperienza extra-ordinaria, in uno spazio e tempo specifici, evidenzia immediatamente il parallelismo con l’origine rituale del teatro. Ma c’è un altro aspetto interessante che accomuna convivialità e teatralità: proprio come uno spettacolo, il pranzo è qualcosa di effimero, destinato a scomparire nel giro di poco tempo; e questo in barba al fatto che, per la sua organizzazione, di tempo ce ne sia voluto parecchio. Sappiamo bene che dietro a un buon banchetto ci sono ore e ore, o addirittura giorni e giorni di pianificazione; proprio come per allestire un buon spettacolo ci vogliono mesi e mesi, e a volte anni (o una vita). Questa evidente sproporzione tra energie impiegate nel processo di creazione e la volatilità dell’evento finale è significativa, perché svincola il tempo da quel dogma della performatività cui è costretto nel quotidiano. Se la preparazione di un pranzo, come quella di uno spettacolo, è orientata a realizzare non un prodotto da conservare, ma un’esperienza da esaurire, allora anche il tempo impiegato per raggiungere quel risultato si carica di un senso del tutto particolare. È come se il processo produttivo arrivasse a compimento solo con la distruzione di ciò che ha prodotto; eppure questo “tempo in perdita” non è mai un “tempo perso”; è anzi un tempo che si riempie di valore proprio nella sua anomala impossibilità di essere capitalizzato: un tempo che non è denaro, ma regalo. Perché far da mangiare per qualcuno non è forse uno dei più magnifici atti d’amore in cui possiamo prodigarci?! Ed è in fondo proprio questo che fa del tempo del pranzo, come del tempo del teatro, un tempo sacro.

Ora possiamo capire meglio perché un secolo fa Thornton Wilder abbia indagato il mistero del tempo scegliendo come tema proprio un Lungo pranzo di Natale. Forse né il titolo dell’opera, né il nome dell’autore, vi diranno molto: Wilder è da noi molto meno frequentato che non i coevi Arthur Miller o Eugene O’Neill. Ma rispetto agli illustri colleghi, messi in scena abbondantemente anche da questo lato dell’Atlantico, Wilder è in verità molto più audace; e la sua vena drammaturgica, molto più sperimentale. Il suo cavallo di battaglia è quella Piccola città (Our Town, il titolo originale) di cui qualche cinefilo ricorderà la trasposizione cinematografica di Sam Wood del 1940, con un giovanissimo William Holden agli esordi; e poi spesso citata nelle serie tv della nostra adolescenza – perché quella piccola città era, a conti fatti, ogni piccola città statunitense. Scritta nel 1938, l’opera era il risultato di una convergenza evolutiva con il teatro epico di Brecht (Terrore e miseria del Terzo Reich è dello stesso anno), con cui mostra tratti in comune nel presentare scene di vita quotidiana giocando con l’artificio del teatro a vista: la everyday life della cittadina in questione è introdotta e illustrata da un personaggio-regista, che esercita le funzioni del narratore. L’opera valse a Thornton Wilder il suo secondo Premio Pulitzer; ma il successo della pièce fece in parte dimenticare che il suo vero colpo di genio era stato proprio quel Lungo pranzo di Natale messo in scena sette anni prima, nel 1931; solo quattro anni dopo la pubblicazione della Recherche di Proust, e in anticipo di una ventina d’anni su quella sanguinosa operazione di dissezionamento del chronos, che porterà avanti Samuel Beckett con il suo teatro.

L’opera è un atto unico; non ci sono, cioè, cambi scena. Il che significa: niente cesure, ellissi, salti temporali visibili; eppure, condensati in poco più di mezz’ora, scorrono davanti agli occhi del pubblico ben novant’anni di vita familiare. È il giorno di Natale, e siamo nel grande soggiorno della grande casa dei Bayard, in cui vive ancora l’anziana madre, con il giovane figlio Roderick, appena sposato con Lucia. Poco dopo – ma, in realtà, scopriamo subito, è già trascorso un lustro – si presenterà invitato a pranzo il cugino Brandon; mamma Bayard uscirà di scena prima che entrino i due nipotini, Charles e Geneviève. Quando questi sono ancora adolescenti, sarà loro padre Roderick a scomparire; e poi Brandon; e Lucia; e intanto Charles si è sposato con Leonor, ma dei loro quattro figli, uno morirà poco dopo il parto e uno in guerra; mentre la giovane Lucia e il giovane Roderick, che hanno ereditato il nome dai nonni, se ne andranno all’estero a cercare fortuna, lasciando a custode della casa la cugina Ermengarde, che festeggerà da sola l’ultimo Natale, ormai anziana come la mamma Bayard dell’inizio. Perdonate il frenetico spoiler, ma era necessario perché aveste un’idea di come il ricambio di quattro generazioni si dia in scena in un time-lapse che dura un battito di ciglia. I personaggi crescono e invecchiano a vista d’occhio: i nuovi nati entrano da uno strano ingresso decorato con frutta e fiori; quelli che muoiono, escono da un lugubre portale da cui pendono drappeggi di velluto nero. E tutto questo, senza soluzione di continuità, come se si trattasse sempre di uno stesso pranzo, ritratto in un unico piano-sequenza, per intenderci. Da cosa ci accorgiamo che gli anni passano e che quel Natale non è mai, veramente lo stesso Natale? Da quel che dicono i personaggi, dai loro commenti, le loro considerazioni, i loro continui riferimenti al tempo. Basta che Lucia, davanti alla neonata nella culla, pensi ad alta voce: «Ma ve l’immaginate? Tra un po’ di tempo, eccola già cresciuta e che dice “Buon giorno, mamma. Buon giorno, papà”»; e nel giro di una decina di battute Geneviève ragazzina entra a dare il buongiorno a mamma e papà. Perché, come fa notare Charles, ricordando la madre scomparsa da pochi minuti (cioè da qualche anno), «il tempo passa presto, in un grande paese nuovo come questo».

j

In tal modo, una saga familiare tutto sommato banale si erge a emblema della tragicità dell’esistenza umana: il tema principale del dramma «è la visione degli anni che vanno in polvere in questa casa», e il senso dell’opera sta proprio nella sperimentazione formale del trattamento del tempo scenico. Il tempo espresso dalla storia (novant’anni), pur essendo di gran lunga più ampio del tempo espresso dallo spettacolo (una quarantina di minuti), aderisce completamente a quest’ultimo. Così, quelli che per i personaggi sul palco sono decenni, per noi in sala sono solo pochi attimi. È chiaro: il tempo scorre rapido, troppo rapido; ma questa rapidità non basta raccontarla, occorre che il pubblico ne faccia un’esperienza. E dunque spettatori e spettatrici vivono in mezz’ora lo strazio di una vita che si consuma; che è la loro, la nostra, vita. Perché tutti e tutte noi, così abituati a scandire il tempo in cicli annuali, durante il pranzo di Natale non possiamo fare a meno di pensare ai Natali passati, a quanto siamo cresciuti, o invecchiati, alle persone che ci hanno lasciato, a quelle appena arrivate. E questo proprio in virtù del fatto che il rito del pranzo è un po’ sempre uguale a se stesso; tende a conservarsi, immutabile nel tempo: ricette tradizionali che ci si tramanda di generazione in generazione; le medesime poesie e preghiere recitate dai bambini prima, durante o dopo i pasti; il solito posto a tavola, davanti alla finestra, dietro il termosifone o vicino alla cucina... Ed è proprio questo tentativo (fallimentare) di resistenza al tempo a far risaltare tragicamente come il tempo invece inevitabilmente ci travolga. Da qui intuiamo anche perché l’autore scelga di mostrare tutto questo attraverso un atto unico, forma drammatica che risulta stranamente più breve di quella cui siamo avvezzi, e la cui durata ci sembra, alla fine, insufficiente; come, appunto, la vita.

Triste, eh? Vi ha rovinato il Natale, vero? Forse è per questo che l’opera di Wilder non fa parte del tradizionale palinsesto di fine dicembre, come il Canto di Natale di Topolino, Il flauto a sei puffi o Mamma, ho perso l’aereo – la cui visione collettiva e sonnolenta entra a tutto diritto nei moderni protocolli della celebrazione. Ve la immaginate una Vigilia senza Una poltrona per due? No, ovvio: sarebbe uno shock, un improvviso collasso delle certezze, una traumatica perdita di fiducia nel mondo. La ricorsività del rituale, nella sua ciclicità, nel suo tornare sempre allo stesso punto conosciuto, cementifica il nostro senso di sicurezza, ci conforta, ci rassicura. E affinché questo avvenga, la stabilità del luogo deputato è fondamentale. Da questo punto di vista, la casa è probabilmente l’elemento che meglio incarna questa garanzia di protezione – e, a pensarci bene, la grande casa dei Bayard è l’unica, vera, inamovibile protagonista dell’opera di Wilder. Ora: non so per voi, ma la mia immagine del Natale resta legata alla mia infanzia a casa dei nonni. È lì che mi sentivo veramente protetto e al sicuro; e infatti per me il Natale ha smesso di essere quello che era, quando abbiamo smesso di riunirci lì. Oggi, rileggendo il testo di Wilder, mi rendevo conto che attribuivo a mamma Bayard il volto di mia nonna Luigia. Così – anche per concludere con una piccola immagine gioiosa in questa profusione di solstiziale melancolia – ragionavo sul fatto che la nonna, in fin dei conti, è un po’ la vera regista del pranzo di Natale; e la tavola è lo spazio scenico in cui ha luogo la sua creazione.

La nonna prepara, predispone, indica a ciascuno dove sedersi, come muoversi, decreta cosa si può dire e cosa non si deve dire, e come dirlo. La nonna determina inizio e fine dello show, detta le pause dei cambi scena (tempi brevi, brevissimi, quasi nulli tra una portata e l’altra), stabilendo inesorabilmente la durata delle differenti parti: antipasto come prologo, primo (pi)atto, secondo (pi)atto, terzo (pi)atto con conseguente climax tragico – non mi ci sta più niente, ma continuo comunque a rimpinzarmi di cibo – risoluzione dei conflitti (quindici persone, un bagno solo), finale dolce, o amaro, caffè e ammazzacaffè come epilogo. Finché, finalmente, proprio come a teatro, uno non si abbiocca sulla poltrona. La nonna tiene costantemente sott’occhio i suoi attori e attrici, prende appunti mentali su come si comportano a tavola e, prima di lasciarci andare, passa le note di regia: «quella cosa non la puoi dire così», «questo argomento va toccato con più tatto», «quando parli con lei devi mantenere un certo atteggiamento», «quando parli con lui devi alzare la voce, se no non ti sente». E poi la nonna è dentro e fuori allo stesso tempo: non resta mai tranquilla a tavola più di cinque minuti di seguito, si siede e si alza, osserva il suo spettacolo da fuori, con distacco e amore. Mentre noi godiamo del cibo, lei gode del vederci mangiare. Perché la nonna, come ogni buona regista, sa che un buon pranzo, come un buon spettacolo, riunisce in sé l’esperienza estetica dell’occhio e l’esperienza estatica della pancia.

Buon appetito, dunque; e buon Natale!

Per saperne di più

Una bella edizione di Il lungo pranzo di Natale è quella a cura di Guido Davico Bonino e traduzione di Enrico Fulchignoni per Il Melangolo. Per chi volesse investigare le fonti della celebrazione, un grande classico dal piglio teologico è L’origine della festa del Natale, di Oscar Cullmann, pubblicato da Queriniana. Per chi invece ancora stesse pensando a cosa mettere in tavola nel fatidico giorno, di libri di ricette natalizie ve n’è a iosa; ma visto che abbiamo parlato a lungo di nonne, io non posso esimermi dal raccomandare il mitico Manuale di Nonna Papera, edito da Giunti – che dovrebbe avere lo stesso diritto di cittadinanza di un Pellegrino Artusi o di una Ada Boni sugli scaffali delle nostre cucine.

Leggi anche:
Davide Carnevali, Pasolini: un teatro scomodo
Davide Carnevali | Creonte e la tragedia della politica
Davide Carnevali | Il primo Sosia
Davide Carnevali | Il Ricco Trump e il Povero Zelensky
Davide Carnevali | Amleto: lo schermo e lo specchio
Davide Carnevali | Il dottor Faust al 1° maggio
Davide Carnevali | Orlando decentrato e Angelica furiosa
Davide Carnevali | Alla guerra in nome di Godot
Davide Carnevali | Medea: un caso di cronaca nera
Davide Carnevali | Goldoni dalla villeggiatura alla fashion week
Davide Carnevali | Ibsen: amici e nemici del popolo
Davide Carnevali | Pier Paolo Pilade: la resistenza della minoranza

In copertina, opera © Christiane Spangsberg.

Da quest’anno tutte le donazioni a favore di doppiozero sono deducibili o detraibili. SOSTIENI DOPPIOZERO (e clicca qui per saperne di più).
TAGGED: Thornton Wilder