Sinner, Barthes e il Sudtirolo
Qual è oggi il sudtirolese più famoso? Risposta facile: Yannik Sinner. Sportivo molto ammirato e amato ma non per questo esente da polemiche e attacchi. Di recente è stato oggetto di un vero e proprio fuoco incrociato: c'è infatti chi gli rimprovera di non essere abbastanza italiano e chi invece di esserlo perfino troppo.
Siamo ancora a questo punto?
(Pare che sia stato Padre Pio a esprimersi la prima volta così. Il religioso stava facendo una passeggiata nei dintorni di San Giovanni Rotondo in compagnia di un noto letterato dell'epoca, Guido Piovene. Questi, contemplando certi cipressi crepuscolari in lontananza, avrebbe esclamato: guardi, Padre, come sono foscoliani quei cipressi! Foscoliani? avrebbe replicato il frate, siamo ancora a questo punto?).
Evidentemente sì, siamo ancora a questo punto con la provincia di Bolzano.
Allora è davvero il caso di leggere un libro che, nella pletora di pubblicazioni analoghe sull'argomento, risulta utile e per nulla scontato. Si tratta dell'appena uscito Lingue matrigne. La menzogna del bilinguismo nell'Alto Adige/Südtirol. Edizioni Alphabeta Verlag. L'autore è Gabriele Di Luca, noto blogger ed editorialista del “Corriere dell'Alto Adige” fra l'altro.
Il libro ha un modello dichiarato, Miti d'oggi (Einaudi, 1974) di Roland Barthes, e ne mantiene anche la struttura bipartita. Se Barthes a una prima serie di brevi testi di “decostruzione mitologica” affiancava successivamente una trattazione teorica sul “mito, oggi”, Di Luca passa da una serie tripartita di “tesi” a una loro verifica “in situazione”, distinta in sette scene, scene di realtà locale della provincia di Bolzano. È comunque chiara la divisione tra il momento teorico e la sua attualizzazione nel corpo vile della realtà effettuale. Divisione che però implica anche una chiara dialettica tra le due parti che si rimandano e implicano di continuo.
Per Barthes il mito è un linguaggio secondo, edificato sulla base di una catena semiologica preesistente. Un metalinguaggio, parassitario e pressoché inesauribile, ma che, a differenza del segno di De Saussure, non è mai arbitrario bensì, almeno in parte, motivato. Dal punto di vista sociologico inoltre il mito, per Barthes, è ciò di cui la borghesia si serve per rendere naturale ciò che naturale non è. Per trasformare in natura la cultura, ossia per conferire un'aura di eternità a formazioni storiche, a fatti e eventi storicamente motivati. In poche parole il mito è una menzogna che, come tale, va smascherata, reintroducendo, nella cosiddetta natura, la cultura, o la storia. La semiologia, dunque, deve presentarsi a rigore come “semioclastia”.
Di Luca pratica qui degli esercizi di semioclastia nei confronti di consolidati miti sudtirolesi o altoatesini che dir si voglia.
Non è a caso che scriviamo così. Già quando si tratta di nominarla, la controversa provincia, non si sa come farlo esattamente (p.85). Contrariamente a quel che si crede la denominazione Alto Adige non è fascista, ma di epoca napoleonica (1810). E la denominazione Südtirol, almeno fino al 1919, indicava non l'attuale Alto Adige ma quello che oggi si chiama Trentino (teste Klaus Gatterer nel suo Bel posto, brutta gente, ed Praxis 3, 2005). E allora come la chiamiamo noi adesso? Tirolo meridionale? Tirolo del Sud? Oppure, si chiede Di Luca, la chiamiamo Aldo, Giovanni e Giacomo? Aldous, Johann und Jakob?
A me al proposito viene in mente, irresistibilmente, il pittore De Chirico che, a una signora che gli chiedeva con insistenza: ma come La devo chiamare, Maestro? Pictor Optimus? Giorgio? rispondeva serafico, con il suo bel vocione pastoso, mi chiami Peroni! (secondo lo slogan di una vecchissima pubblicità di una nota birra).
E in questa provincia dove tutto ha due nomi, e anche tre, considerando le valli ladine, si parla realmente in due lingue (o tre)? No, per nulla.
È una questione che ha a che fare con i cosiddetti “repertori asimmetrici”. Secondo alcuni testi di un valente linguista dell'università di Padova, Alberto Mioni (p.64), le difficoltà comunicative tra i gruppi linguistici altoatesini nascono, semplificando molto, dal fatto che i parlanti tedesco hanno un repertorio diglossico, i parlanti italiano no. Ossia: i parlanti tedesco hanno come madrelingua il dialetto tirolese, declinato nelle sue varie forme a seconda dei vari luoghi, i parlanti italiano non hanno dialetto, o non lo hanno più. Quindi i “tedeschi” piuttosto che parlare il tedesco standard (“Hochdeutsch”) che sentono distante, più lingua matrigna che madrelingua, non potendo servirsi del loro dialetto natio, preferiscono parlare l'italiano con gli “italiani”. Gli “italiani”, dal canto loro, non possono servirsi del tedesco standard che imparano a scuola o in Germania, Austria ecc. e, anche se magari col tempo capiscono il dialetto (competenza passiva), si servono anche loro naturalmente dell'italiano, per parlare con i “tedeschi”.
Morale della favola: il bilinguismo diffuso non esiste.
O meglio esiste, ma si tratta di un bilinguismo inteso in modo particolare. Alberto Mioni ricordava al proposito due categorie interpretative di uno psicolinguista canadese, Wallace Lambert. Incidentalmente si può notare come i due mondi linguistici, francese e inglese, fossero già inscritti nei dati anagrafici di questo psicolinguista. La situazione del Sudtirolo/Alto Adige è infatti molto più comune di quel che si pensi; non solo Canada, ma anche, che so, Transilvania o Alsazia e Lorena e tante, tante altre realtà analoghe, tutti territori dove le lingue presenti sono diverse. Alla base c'è un semplice fatto matematico: le lingue sono nell'ordine delle migliaia, gli stati in quello delle centinaia. Comunque Lambert sosteneva che ci fossero due concezioni del bilinguismo: una additiva, l'altra sottrattiva. Nel senso che per certuni conoscere due lingue aggiunge, è qualcosa in più. Per altri, al contrario sottrae. La seconda lingua è vista come una minaccia rispetto alla prima e non già come un arricchimento.

In Alto Adige (o Sudtirolo) ha prevalso sicuramente la seconda concezione. Vent'anni di dissennata politica linguistica fascista hanno senz'altro contribuito. Ma forse non c'è solo il peso di quella terribile eredità storica.
Per questo la lingua dell'altro, soprattutto da parte tedesca, è stata vista come un pericolo per la propria. Un assessore alla scuola di parecchi anni fa, Anton Zelger, che Di Luca ricorda in due punti dell'opera (p.26 e 144), amava ripetere: più ci dividiamo, meglio ci conosciamo (“Je mehr wir uns trennen, desto besser verstehen wir uns”).
A questa frase Alexander Langer ne opponeva un'altra: più abbiamo a che fare tra noi, meglio ci conosciamo (“je mehr wir miteinander zu tun haben, desto besser verstehen wir uns”). Ma Langer è l'eroe morto della provincia di Bolzano. È il Pasolini del Sudtirolo. Sbeffeggiato da vivo, esaltato da morto, forse proprio in quanto morto.
Comunque Langer ha perso, e Zelger ha vinto. Questo ci pare dire Di Luca.
Non c'è mai stato qui un reale “miteinander”, bensì solo un “nebeneinander”. Che adesso è addirittura diventato un “ohneeinander” (p.279). Cioè non c'è stata mai reale convivenza, bensì solo coesistenza e ora una reciproca indifferenza, non più conflittuale, come in passato, ma basata su una sorta di presupposizione di non esistenza. L'altro è come se non esistesse. Esattamente come in certi condominii, in cui i condomini, che pur vivono sotto lo stesso tetto, si ignorano bellamente.
E com'è che, se non c'è reale bilinguismo, purtuttavia esiste qui, e come esiste!, il famoso, anzi famigerato “esame di bilinguismo”, che permette di conseguire l'agognato “patentino di bilinguismo”?
Di Luca mette in evidenza tutte le lacune e le storture di questa procedura di accertamento della conoscenza delle due lingue. Che, oltretutto, ha un tasso di bocciati altissimo. Gente che questo mitico patentino lo tenta e ritenta per cinque, sei sette volte. Alcuni anche dieci.
In certi ambiti, quello sanitario ad esempio, si è addirittura giunti alla compravendita di falsi patentini. Dato che il documento è essenziale per svolgere un qualsivoglia lavoro in una struttura pubblica.
Di Luca non è solo pronto a sottolineare le storture del sistema. Propone, forte delle teorie del “multilingual turn” un diverso approccio all'apprendimento linguistico. Non più due lingue, monoliticamente intese, ben distinte, imparate in successione, una dopo l'altra, ma fusione e condivisione di risorse linguistiche in situazioni comunicative effettive, magari anche prendendo in considerazione che di lingue, anche in provincia di Bolzano, non se ne parlano ormai più da tempo solo due o tre, ma trenta o quaranta o più.
Quindi non è più solo il modello delle scuole separate qui vigente che andrebbe superato, ma è proprio una diversa visione del rapporto tra le lingue, che non sono, ripeto, solo due, o tre.
L'autore del libro si appella a concezioni filosofiche illustri, ed altre più recenti e non per questo meno affascinanti.
Da un lato si richiama all'epochè di husserliana memoria. In provincia di Bolzano bisognerebbe procedere alla distruzione di ogni configurazione di senso precedente, per poter così accedere a una visione alternativa delle cose (p.229). D'altronde questa epoché sembra consuonare con un concetto caro al filosofo e sinologo francese François Jullien, quello di “de-coincidenza” (p.136 e 152). Un processo di apertura che, disfacendo ogni ordine precedentemente fissato, libera risorse precedentemente inimmaginabili.
È sicuramente apprezzabile che alla nostra provincia anchilosata, governata da quasi ottant'anni dallo stesso partito politico, tutta presa da una gestione burocraticamente da sempre identica a se stessa, vengano applicate, a mo' di reagenti, teorie così affascinanti.
Di Luca invoca, forte dei suoi studi filosofici, il mondo della vita (“Lebenswelt”) di contro al sistema (“System”).
Anche solo per questo suo afflato utopistico pensiamo che il suo libro possa diventare un punto di riferimento per la vera minoranza del Sudtirolo/Alto Adige, quella delle persone aperte che non vedono nell'Altro un nemico, qualunque lingua, idioma o dialetto esse parlino.