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The Missing of Lebanon

7 Aprile 2015

Un numero stimato di 17mila persone scomparve durante il conflitto civile libanese, durato ufficialmente dal 1975 al 1990, e costato la vita a 150mila vittime. 17mila persone, sequestrate o uccise da differenti milizie attive in Libano durante la guerra civile, la cui sorte è a tutt’oggi sconosciuta. Uomini, donne, ragazzi, studenti, civili di cui i familiari non hanno più avuto alcuna notizia. Dalia Khamissy, fotografa libanese, dal 2005 porta avanti The Missing of Lebanon, un progetto fotografico di documentazione giornalistica sulle famiglie degli scomparsi e sulla loro storia.

The Missing of Lebanon

Dalia Khamissy


Ne abbiamo parlato insieme in questa intervista.

 

 

 

Come hai concepito inizialmente questo lavoro?

 

Quando ho finito i miei studi in fotografia sapevo già che avrei voluto dedicarmi alla fotografia documentaria, raccontare le storie delle persone con le quali venivo in contatto. Avendo vissuto la guerra civile libanese volevo tenermi lontana da argomenti che riguardassero il Libano. Non volevo avere a che fare con il passato che avevo vissuto. Così ho iniziato a lavorare sui postumi dei conflitti in altri paesi, l’embargo in Iraq nel 2002, i rifugiati bloccati al confine giordano iracheno nel 2004 dopo essere stati costretti a fuggire in seguito all’invasione americana dell’Iraq nel 2003, etc. Nel 2005 ho accettato un lavoro come photo-editor alla sede di Beirut dell’Associated Press, per guadagnare e poi potere viaggiare per i miei progetti. Proprio in quel periodo mi sono trovata bloccata in ciò che stava accadendo in Libano, guerre e violenza ancora una volta. Nel 2005 ci furono una serie di attentati e di omicidi di figure molto prominenti. E poi l’invasione israeliana in Libano nell’estate del 2006. Coprire questi eventi fu molto intenso e quando lasciai il mio incarico alla fine del 2006, dopo l’invasione israeliana e il suo diretto aftermath, volevo smettere di fare fotografie. Questo fino all’estate del 2007, quando iniziai un lavoro sulle abitazioni che erano state distrutte dall’invasione israeliana e poi abbandonate, un progetto che coincise con l’inizio del mio interesse per le guerre in Libano, nel tentativo di capire la violenza attraverso la quale il Paese era passato da quando ero bambina. Nel 2005, mentre lavoravo per AP, avevo documentato un sit-in dei parenti degli dispersi del conflitto civile libanese, che si teneva proprio davanti agli uffici dell’Associated Press. Fu in quel momento che incontrai molte madri e mogli, ognuna di loro aveva con sé fotografie dei loro cari scomparsi, figli, mariti, figlie e fratelli. Molte delle madri erano sui settanta, qualcuna mostrava tre o quattro fotografie. Avevano combattuto per conoscere il destino dei loro cari per venti, trent’anni senza fortuna. È stato in quel momento che ho realizzato che c’erano così tante persone ancora ferme al tempo della guerra civile, che lottavano ogni giorno senza possibilità di fare un passo avanti. Persone alle quali non veniva data alcuna risposta su ciò che era successo ai loro cari. Quello dei dispersi è uno dei temi più complicati tra quelli che il Libano si sta portando dietro dal conflitto del 1975-1990, un aspetto che è ancora aperto.

 

Uno dei pochi ricordi che ancora ho della guerra civile fu quando mio padre non tornò a casa per tre giorni. Fu trattenuto da una piccola milizia a Beirut Ovest. Ricordo che i vicini mi chiedevano se avessi sue notizie, all’epoca avevo solo 8 anni e non mi rendevo conto di quanto fosse seria la cosa. Dopo tre giorni fu rilasciato in uno scambio di prigionieri e poté tornare a casa. Solo molto anni dopo mi sono resa conto che lui fu uno dei fortunati e che c’erano 17mila persone ancora disperse. Persone che erano state rapite dalle differenti milizie attive negli anni della guerra civile.

 

Decisi di lavorare a questo progetto quando capii che fino a quando il discorso dei dispersi non sarà risolto, non saremo in grado di lasciarci la guerra civile alle spalle. Molte persone non saranno in grado di guardare avanti fino a quando il destino dei loro cari non sarà rivelato.

 

Come si è sviluppato il tuo approccio al progetto con il passare degli anni? Com’è stato andare sempre più in profondità in un tema così delicato, sia da un punto di vista personale che professionale?

 

Quando lavoro a The Missing of Lebanon, incontro le famiglie senza opinioni preconcette. Le persone rapite erano diverse per genere, affiliazione politica e religione, così come i rapitori appartenevano ad affiliazioni politiche e a milizie diverse. Tutti i partiti attivi durante il conflitto civile libanese presero parte a questo genere di cose. Sono le famiglie a raccontarmi le loro storie e io documento ciò che loro mi raccontano. È un argomento talmente delicato che mi sento privilegiata per la fiducia che ripongono in me. Mi raccontano le storie dei rapimenti, il giorno in cui i loro cari furono rapiti, cosa indossavano quel giorno, come se quel momento fosse ancora presente nelle loro menti. Mi dicono orari, colori, dettagli che sono ancora così vividi. Raccontano ciò che hanno sentito, alcuni centri di detenzione dove pensano che i loro cari possano essere stati trattenuti. Raccontano dei sentimenti e delle emozioni che hanno vissuto quel giorno e che continuano a vivere ancora oggi. Conservano ogni minimo dettaglio e alcune famiglie sono così attaccate ai ricordi e alla memoria dei loro cari che hanno conservato ciò che gli era appartenuto in modo che, nel caso loro tornino a casa, tutto sia come se nulla fosse cambiato. Considerato che è un progetto personale, ci ho lavorato con alcuni intervalli per gli ultimi cinque anni. Tra un assegnato e l’altro penso a nuovi modi per continuare questo progetto. Recentemente ho iniziato a documentare come le famiglie trascorrono i loro giorni senza le persone amate. È un progetto al quale continuerò a lavorare fino al giorno in cui ciò che è successo ai dispersi verrà rivelato, con la speranza che accada quando saremo in vita e, cosa più importante, quando i familiari saranno ancora in vita. Fino a quel giorno, cercherò di documentare tutti gli aspetti di questa storia.

 

Che cosa significa documentare una memoria collettiva così tragica quando si ha a che fare con un Paese che è stato devastato da quindici anni di guerra civile? La ricerca storica e documentaria deve essere particolarmente complessa e dolorosa. L’idea stessa di “verità” e di “Storia” è soggetta a molteplici forme di sfruttamento e distorsione. È questo il caso? Qual è la tua esperienza in merito?

 

È estremamente complesso e doloroso, in primo luogo per le famiglie. Non riesco nemmeno a pensare a come sarebbe stata la mia vita se mio padre non fosse tornato a casa. Di tanto in tanto prendo una pausa dal progetto, un po’ di riposo, succede soprattutto quando sono esausta e troppo provata emotivamente dall’impatto di queste storie. Il problema è che mentre io posso prendermi una piccola pausa, le famiglie non possono farlo. Vivono questa cosa ogni giorno, per questo sento il bisogno di continuare a lavorare al progetto, a raccontare le loro storie, la loro lotta quotidiana. In qualche modo sento di avere questa responsabilità e a volte ne avverto il peso in tutta la sua portata. Non sto cercando di risolvere qualcosa, non penso che le mie fotografie risolvano il problema e riportino a casa i dispersi. Sento solo che raccontare le loro storie è qualcosa che devo a queste persone, a me stessa e alla società. Mostrare i loro volti, mostrare che gli scomparsi non sono solo numeri. Ogni storia è così diversa dalle altre, nelle storie tutto riguarda i dettagli. Sono certa che non sarò in grado di raccontarle tutte perché sono così tante. Sono in contatto con diverse Ong e mi confronto sempre con loro, dal momento che sono soprattutto loro a darmi i contatti. Confronto e controllo i dettagli su dove e chi era dietro ai rapimenti ma poi nel mio lavoro e nelle storie che racconto non indico l’identità dei sequestratori, perché la responsabilità non si limita solo a loro. Mi concentro di più sull’aspetto umano della storia e sulla battaglia delle famiglie.

 

Dalia Khamissy, Imm Aziz

 

Ci puoi raccontare la storia di Imm Aziz e quella di Aida Geadah? Quando si sono incrociate le vostre strade?

 

Ho incontrato Imm Aziz nel 2005, sotto l’ufficio di AP quando stavo fotografando un sit in dei familiari dei dispersi. La donna mostrava le fotografie dei suoi quattro figli. Ricordo di averla fotografata e di avere fotografato anche altre donne, le più anziane del gruppo, ma Imm Aziz che aveva con sé le immagini dei quattro figli rapiti è stata davvero toccante. Nel 2010, quando il producer della BBC decise di lavorare con me sul tema dei Missing, volevo andare a intervistare due famiglie. Imm Aziz fu una delle famiglie che mi venne indicata dal capo della Ong. Quando andammo a trovarla era distesa sul divano sotto alle immagini dei suoi quattro figli presi con forza nel 1982 mentre stavano facendo colazione insieme nell’appartamento in cui vivevano a Beirut. Imm Aziz è palestinese e quel giorno dei miliziani cristiani entrarono nella sua casa e prelevarono i suoi quattro figli, il massacro di Sabra e Chatila stava avendo luogo a nemmeno un kilometro di distanza. Il soggiorno della sua casa nel campo palestinese di Burj el Barajneh, dove andammo per l’intervista, sembrava un santuario; alle pareti erano appese le quattro fotografie dei figli, ognuna in una cornice, e tra una cornice e l’altra c’erano dei rosari. Il figlio maggiore, Aziz aveva trentun anni, Mansour e Ibrahim erano ventenni e Ahmad, il più giovane che fu rapito insieme ai fratelli aveva tredici anni. I miliziani bussarono alla porta chiedendo nazionalità e confessione religiosa dei ragazzi e poi li portarono tutti via, facendoli salire su un camion insieme ad altri uomini. Imm Aziz racconta che il figlio maggiore in quel momento indossava una canottiera così lei corse fuori con la sua maglietta rosa per dargliela. Lui la guardò mentre stava per raggiungerlo ma un miliziano salì sul camion e lo picchiò davanti a lei. La donna vide il camion partire e quella fu l’ultima volta che vide i figli. Dice che se avesse saputo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui vedeva i suoi figli si sarebbe buttata sotto le ruote del camion per togliersi la vita, la sua vita non ha significato senza i figli. Ha più di ottant’anni oggi. Le è rimasto solo un figlio, che non era in casa il giorno in cui gli altri furono rapiti. Ha anche delle figlie. Imm Aziz vuole sapere cosa ne è stato di loro. Se sono ancora vivi vuole che possano tornare da lei., se sono morti vuole avere i loro resti.

 

Ho incontrato Aida Geadah nel luogo del sit-in delle madri a downtown Beirut, una postazione con una tenda creata esattamente dieci anni fa dai parenti dei dispersi – poche settimane prima del ritiro delle truppe siriane dopo trent’anni di presenza sul suolo libanese. Un monito che ricorda che se per molti la guerra civile libanese è finita, per molti altri ancora non lo è. I miei genitori conoscono Aida e conoscevano suo marito. Avevo sentito parlare di lei molto spesso dai miei, ha anche legami di parentela con alcuni cari amici, che mi accompagnarono a casa sua quando andai a incontrarla per ritrarla. Suo marito Kamal stava rientrando a casa in automobile insieme a suo nipote Semaan il 19 agosto del 1985, quando furono bloccati a un check-point. Semaan era un volontario della Croce Rossa e aveva appena finito di prestare soccorso ad alcune vittime di un’esplosione che aveva avuto luogo a Beirut. I miliziani al check-point li fermarono, li presero con loro e sequestrarono anche l’auto sulla quale viaggiavano. Nessuno li rivide più e ciò che gli accadde è ancora senza risposta. Il padre di Semaan, il fratello di Kamal, è morto qualche anno fa senza avere mai ricevuto notizie sul destino del figlio e del fratello. La sua famiglia mi ha detto che è morto con il cuore spezzato. Quando ho incontrato la sorella di Semaan, mi ha mostrato delle agende in cui il padre aveva scritto, anno dopo anno, l’attività quotidiana della loro famiglia così, nel caso in cui il figlio fosse tornato, non avrebbe perso nulla di ciò che era successo loro durante la sua assenza.

Assaad Chaftari, che hai intervistato per il tuo progetto - all’epoca capo dell’intelligence di una milizia cristiana coinvolta in diversi rapimenti – ha affermato la presenza in Libano di fosse comuni. La voce delle migliaia di scomparsi rende impossibile raggiungere un presente pacificato fino a quando una forma di giustizia non sarà ottenuta. Una guerra civile latente che arriva fino ai nostri giorni. Può una narrativa, un racconto per immagini – diventare il primo passo, uno spazio di condivisione, per costruire una forma di giustizia all’interno di una memoria oltraggiata dalla spoliazione?

 

Come ho detto prima, non sono certa che le mie fotografie porteranno mai a casa i dispersi, desidererei tanto fosse così, se così fosse lascerei il resto e mi ci dedicherei fino a quel giorno. Ma questo è più competenza delle Ong, dipende dalla volontà dei politici che erano dietro ai rapimenti e che sono a conoscenza delle fosse comuni, dalle azioni legali degli attivisti e dai politici che potrebbero fare in modo che questa cosa si realizzi. Penso che il mio lavoro, così come quello di altri visual story-teller sia raccontare la storia delle famiglie, sensibilizzare le coscienze forse, dare ai familiari una voce e una piattaforma dove raccontare le proprie storie. Sento che ognuno di noi si sarebbe potuto trovare in una situazione del genere ed è questo che cerco di mostrare. Le persone dovrebbero entrare in relazione con le famiglie che sto incontrando e documentando, sentire che ognuno di noi avrebbe potuto trovarsi nei loro panni, ed è da qui che dovrebbe iniziare la responsabilità di una società. Il mio progetto sui dispersi, così come documentari, film, spot Tv sullo stesso argomento, possono sicuramente essere usati come documentazione, così come vengono usati ora dalle Ong, dagli attivisti, etc…

 

In termini di giustizia legale, le famiglie dei dispersi del conflitto civile libanese, che tipo di risposta stanno avendo o hanno avuto dal Governo libanese? Ci sono istituzioni che li stanno aiutando nella loro battaglia per ottenere giustizia?  
 

Ci sono Ong locali e internazionali che lavorano per cercare di rendere giustizia alle famiglie degli scomparsi e delle vittime di enforced disappearance. ICRC (Comitato Internazionale della Croce Rossa), ICTJ (International Center for Transitional Justice), SOLIDE (Support Lebanese in detention and exile), Committee of the Families of the Kidnapped and Missing in Lebanon, Act for the Disappeared, e poi diversi avvocati e attivisti. Nel settembre del 2014, alcune Ong hanno iniziato una serie di sit-in davanti al palazzo del Governo, sostenendo il loro diritto a ricevere il file con l’inchiesta del 2000 fatta dal governo sugli scomparsi. Il Governo ha distribuito direttamente il file e questa è stata una piccola apertura nei confronti delle famiglie dei dispersi e di quelle delle vittime di enforced disappearance. Anche se le informazioni non erano importanti, è stato un piccolo passo in avanti.

 

Investigare la memoria di un Paese significa sempre anche raccontarne il presente. In questo senso, chi sono gli intellettuali, i giornalisti, gli attivisti, le donne e gli uomini che hanno guidato la tua ispirazione?
 

Le persone dalle quali sono più ispirata sono i parenti dei dispersi, la loro continua lotta e la loro pazienza. Non sono certa di ciò che avrei fatto se fossi stata nei loro panni e se qualcuno all’interno della mia famiglia fosse disperso. È di grande ispirazione senza dubbio leggere articoli che abbiano sensibilità, vedere le Ngo battersi per conoscere la verità e vedere opere d’arte, tutto ciò aiuta a continuare il lavoro e a non cedere. Ma la mia più grande ispirazione sono le famiglie e le loro storie.

 

 

Nata a Beirut, Dalia Khamissy si diploma in fotografia nel 1999 all'Università SaintEsprit Kaslik. Il suo lavoro affronta storie di carattere sociale e politico in Medio Oriente. Nel 2005 lavora come photo-editor per l'Associated Press a Beirut e lascia il lavoro nel 2006 dopo l'invasione israeliana in Libano. Da quel momento torna a documentare i postumi delle guerre in Libano e il loro diretto aftermath. Le sue fotografie sono state pubblicate, tra gli altri, da BBC, The Times UK, Monocle, Financial Times, Le Monde, WSJ, Timeʼs Lightbox. Le sue fotografie sono state esposte in Europa, Sud America, US e in Medio Oriente.

 

Dalia Khamissy è anche l’autrice dell’immagine di copertina di Reportage n. 17 (gennaio-marzo 2014) e delle immagini dell’articolo “Beirut, una città trappola per 1,5 milioni di profughi” comparso nello stesso numero della rivista a firma di Maria Camilla Brunetti.

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