Abitare senza appartenere / Margherita Moscardini. Abitare senza appartenere

29 Maggio 2019

Il Parco Cervi di Reggio Emilia è affollato da un capannello di persone riunite attorno a un’“isola” di marmo, disposta in maniera obliqua rispetto al terreno. Una targa informa i visitatori che la fontana sarà attiva in una precisa fascia temporale durante la settimana.

Tra i visitatori giunti appositamente per assistere all’inaugurazione del nuovo progetto dell’artista Margherita Moscardini, patrocinato dalla Collezione Maramotti, si mescolano curiosi, addetti ai lavori e cittadini. Tra questi, una signora con un volpino ben pettinato si tiene in disparte rispetto al capannello dei presenti e osserva l’opera, per poi sbottare in un’espressione salace che condensa tutto il suo disappunto. Prima che io possa aprire bocca, la signora si volta stizzita e se ne va, trascinandosi dietro il volpino. Rimango interdetta di fronte al giudizio apodittico, figlio di uno sguardo distratto, sputato per respingere un oggetto che ai suoi occhi ha la colpa di essere uno “spreco di soldi”. L’idea che un’opera d’arte possa ancora creare disagio in uno spettatore mi appare, un attimo dopo, un merito, soprattutto nella misura in cui il lavoro di Margherita Moscardini non presenta alcun carattere formale ascrivibile a una dichiarata volontà provocatoria. Mi chiedo se qualcosa in questo dispositivo, decisamente radicale nella proposta, non sia riuscito a scalfire l’indifferenza della donna, e se nell’incomprensione interpretativa non sia intervenuto qualcosa di diverso, qualcosa in grado di dare vita a un glitch. L’inserimento di un dispositivo “problematico” in un contesto controllato come quello di un giardino pubblico ne altera la natura rassicurante e ne modifica la fruizione, e sebbene la spettatrice non abbia fatto una riflessione strutturata di fronte all’oggetto, qualcosa si è infiltrato generando un disturbo, una problematica potenzialmente fertile.

 

Margherita Moscardini Inventory. The Fountains of Za’atari 2018 still da video, formato 4k, 31 min. / video still, 4k format, 31 min. Il video-documento è stato girato in Giordania tra il settembre 2017 e il marzo 2018 / The video-documentary was filmed in Jordan between September 2017 and March 2018 Winner Italian Council 2017 MiBAC- DGAAP Courtesy Fondazione Pastificio Cerere, Roma © the artist.


Il progetto che Margherita Moscardini ha dedicato a uno dei più grandi campi profughi del mondo, il complesso di Za’atari, in Giordania, si intitola The Fountains of Za’atari: sviluppato a partire dal 2015, è un lavoro ambizioso che nasce dall’osservazione dei campi profughi quali insediamenti abitativi temporanei che acquistano un carattere di permanenza. Con i suoi 80.000 residenti (ma nel 2014 aveva toccato quota 150.000), Za’atari è il secondo campo più grande al mondo dopo Dadaab, in Kenya, aperto nel 1998 (che si stima ospiti circa 500.000 persone), e rappresenta la quarta città della Giordania per numero di abitanti. Situato al confine nord del paese, ospita i profughi del conflitto che dilania la Siria sin dal 2011. 

Nel 2017 sono stati stimati oltre 65 milioni di rifugiati in tutto il mondo, un numero che supera il totale dei rifugiati delle due Guerre Mondiali del secolo scorso. Secondo il report annuale dell’UNHCR, “l’85% dei rifugiati risiede nei paesi in via di sviluppo, molti dei quali versano in condizioni di estrema povertà e non ricevono un sostegno adeguato ad assistere tali popolazioni. Quattro rifugiati su cinque rimangono in paesi limitrofi ai loro”. Sempre l’UNHCR attesta che la durata media di un campo è di diciassette anni, un tempo che mette in crisi il concetto di temporaneità dell’insediamento. Moscardini, la cui ricerca ruota attorno alla dimensione politica degli spazi, alla relazione tra architettura e contesto e ai processi di trasformazione che coinvolgono il tessuto delle città, ha osservato da vicino il modello di Za'atari e l'ha messo al centro di un progetto articolato e complesso, che prosegue con coerenza la linea di ricerca tracciata dai suoi precedenti progetti.

 

Ph Bruno Cattani.


Moscardini è un’artista difficilmente classificabile: in lei la formazione pittorica si fonde con l’interesse per l’architettura e l’analisi sociologica e politica. Già assistente di Massimo Bartolini, approfondisce i suoi interessi relativi alla dimensione ambientale dell’arte sotto la guida di Yona Friedman, per poi trasferirsi a Parigi e studiare l’opera di Etienne Louis Boullée. La riflessione sul contesto urbano, sulla gentrificazione e sui processi di stratificazione che segnano la storia delle città, così come il rapporto tra gli individui e la configurazione degli spazi urbani, sono al centro del progetto dedicato alla città di Istanbul intitolato Instanbul City Hills – On the Natural History of Dispersion and States of Aggregation (2013), nato da una residenza d’artista e frutto di un’intensa riflessione legata ai moti di piazza Taksim. Nel 2016, alla ricerca di “solidi abitabili la cui natura permanente ne esprime l’appartenenza al contesto”, realizza un focus sui bunker dell’Atlantic Wall, insieme delle fortificazioni sorte durante la II Seconda Guerra Mondiale che costellano la costa nord della Francia e da cui scaturisce 1XUnknown, opera nel quale convergono temi geopolitici, analisi storica, utopia e arte processuale.

Tra il 2017 e il 2018 l'artista si reca presso Za’atari e insieme alla giornalista Marta Bellingreri e all’ingegnere Abu Tammam Al Khedeiwi Al Nabilsi, conduce un lavoro di mappatura. Durante il periodo di residenza nel campo prende contatto con abitanti, i quali accolgono con favore la sua presenza e l’idea di utilizzare l’arte come strumento di emancipazione e di divulgazione della vicenda di Za'atary. Moscardini procede passo passo, seguendo il lavoro di Kilian Kleinshmidt, sindaco della città nel 2013-14 e funzionario UNHCR, instaurando una relazione con gli abitanti e censendo i cortili dell’insediamento che possiedono una fontana. Secondo la prassi, al loro arrivo gli ospiti ricevono una tenda; successivamente sono destinatari di un container abitativo; i container vengono raggruppati in modo da offrire degli spazi che fungono da cortili, nei quali sovente viene costruita una fontana, un elemento che caratterizza la vita quotidiana pre-guerra. Si tratta di un tentativo da parte dei rifugiati di ricostituire uno spazio familiare, che ricalchi la struttura tradizionale della casa araba e che nella realtà del campo assume un chiaro valore simbolico.

 

Moscardini parte dai modelli dei cortili con fontana per realizzare delle sculture destinate ad acquisire una giurisdizione speciale con elementi di extraterritorialità. La visione dell’artista è semplice e dirompente allo stesso tempo: la domanda da cui muove l’operazione è se sia possibile tradurre in termini plastici l’apolidismo, la condizione di chi è senza stato, e se sì che cosa significhi in termini estetici e nella propria effettività assegnare tale statuto speciale a un oggetto, dotandolo di una condizione extra-ordinaria. 

Successivamente, le opere verranno vendute alle municipalità europee o a privati e i proventi saranno versati direttamente alle famiglie a cui appartiene il cortile che funge da modello per l’opera. La fontana permanente ospitata a Reggio Emilia è il primo soggetto su cui è stato avviato l’iter giuridico per l’assegnazione di extraterritorialità, un iter complesso e il cui esito, tutt’altro che scontato, solleva delle contraddizioni di difficile soluzione. Presentato nella sua prima fase al Pastificio Cerere di Roma in qualità di vincitore del bando Italian Council organizzato dal MiBAC, The Fountains of Za’atari, approda a Reggio Emilia grazie al sostegno della Collezione Maramotti. Il progetto espositivo comprende l’opera pubblica installata presso il Parco Cervi e una mostra aperta nella Pattern Room della Collezione, dove sono raccolti disegni, materiali documentali e un video. Il progetto verrà completato con la pubblicazione di un libro suddiviso in due volumi: la mappa non autorizzata della città con il catalogo dei cortili riproducibili in scala 1:1, strumento che nelle intenzioni dell’artista sarà anche funzionale alla vendita delle opere, e la raccolta dei contributi teorici e critici, tra cui la ricostruzione del complesso iter legale intrapreso per l’attribuzione di uno statuto speciale alle opere. 

 

La fontana collocata a Reggio Emilia è una scultura ma è anche uno spazio, un luogo (o meglio, un non-luogo) e una condizione. Tocca numerosi punti nevralgici e innesca un necessario ripensamento dell’oggetto scultoreo in quanto tale, un oggetto che contiene in sé più stati dell’essere, un paradosso alle cui spalle si allunga l’ombra di tradizione concettuale che riguarda la vendita di beni immateriali, di azioni, idee, energie, fiato d’artista; nel tentativo dichiarato di superare l’impasse di un’arte autoreferenziale, che da tempo soffre una condizione di marginalizzazione, percependosi come impotente, Moscardini individua nel rapporto con le urgenze del reale una possibile via di riqualificazione delle arti. Interrogarsi sui temi della territorialità, della rivendicazione della sovranità che agita gli stati nazionali, sul paradosso di una democrazia che si auto-nega e sul fenomeno delle migrazioni attraverso una proposta estetica significa forzare i limiti di un recinto diventato ormai troppo angusto, individuando nell’urgenza della condizione storica una strada percorribile per tornare a significare. Un indirizzo che non a caso informa la stessa Biennale d’Arte di Venezia, inaugurata a pochi giorni di distanza, che individua nelle turbolenze del tempo attuale (quegli interesting time che danno il titolo alla mostra) il macro tema che alimenta la produzione più rilevante nel panorama delle arti visive.

 

Margherita Moscardini Inventory. The Fountains of Za’atari 2018 still da video, formato 4k, 31 min. / video still, 4k format, 31 min. Il video-documento è stato girato in Giordania tra il settembre 2017 e il marzo 2018 / The video-documentary was filmed in Jordan between September 2017 and March 2018 Winner Italian Council 2017 MiBAC- DGAAP Courtesy Fondazione Pastificio Cerere, Roma © the artist.


Secondo il World Organization Prospect del 2018, ogni anno 76 milioni di persone si spostano a vivere dalle zone rurali alle città, una percentuale in costante crescita e che nel 2018 rappresenta il 55% della popolazione mondiale (pari a 4,2 miliardi di persone su un totale di oltre 7 miliardi). Le città e le megalopoli sono organismi sempre più complessi che possono essere inscritti nella categoria degli iperoggetti, laboratori di cittadinanza dove i conflitti sono esacerbati e dove i bisogni delle persone emergono con sempre maggiore urgenza: per questo rappresentano un osservatorio privilegiato per capire come processi virtuosi di partecipazione e integrazione possano influire su un più ampio scenario di innovazione sociale e impattare sulle politiche nazionali. ll ruolo sempre più centrale delle città rispetto ai bisogni abitativi ed organizzativi della società contemporanea, la dicotomia tra centro e periferia ma anche tra i bisogni delle persone e la capacità degli stati o delle città di assolverli deflagra nella questione abitativa dei campi profughi. Riallacciandosi a una riflessione dedicata all’Appennino di Matteo Meschiari, nella proposta di Moscardini è possibile rinvenire un’idea del disabitare che ci suggerisce pratiche ancora inesplorate. Disabitare inteso come rinuncia a un’idea precostituita dell’abitare, a favore di forme alternative, leggere ma non di meno portatrici di senso. Se la perdita di radici è un trauma, come si può radicare in una condizione di temporaneità forzata come quella rappresentata da un campo profughi? Una traccia si può rinvenire nella costruzione di un teatro della città, un luogo che metta in scena i paesaggi familiari, il luogo degli affetti, e ne mutui i simboli – la fontana, ad esempio, o la struttura del cortile, che è spazio di relazione e di riposo, di conoscenza e di ozio.

 

Mettere in scena e fare “come se”, anche se le case sono container prefabbricati e la moneta è frutto di una economia parallela, se l’orizzonte è quello di una terra straniera e i vicini parlano altri dialetti o altre lingue. Cosa sarebbe accaduto agli “okie” di Furore, che Steinbeck scrisse nel 1939, se avessero potuto organizzare i loro accampamenti liberamente, senza lo spauracchio delle ronde della polizia e l’ostilità di uno stato che li condannò a morire di stenti? Se il campo gestito dall’autorità federale, dove i Joad stabiliscono legami di solidarietà e vivono dignitosamente per un breve periodo, senza subire le violenze della polizia locale, fosse cresciuto e prosperato, non sarebbe diventato un insediamento e poi una città, con la sua economia interna, le famiglie che stringono alleanze e legami affettivi, il lavoro come collante esistenziale? 

Za’atary è in questo senso un modello, l’esempio di come un campo profughi possa superare la semplice condizione emergenziale per dare forma a una città in cui le esigenze degli abitanti trovino accoglimento e non siano schiacciate dalla pur comprensibile necessità di ordine e sicurezza. Sulla scorta di altre esperienze come Sustainable Development Zones, progetto a cura di Politas in cooperazione con i governi locali, che persegue lo sviluppo di zone di sviluppo sostenibile che coinvolgono i migranti in politiche attive per il lavoro e il reddito, si delineano nuovi modelli aggregativi che possono riscrivere la narrazione dell’emergenza migratoria. Di certo, ciò che sembra oggi essenziale è un ripensamento bottom to top degli insedimenti, partecipato, che si opponga alle biopolitiche disumanizzanti che si allargano a divorare lo spazio delle cittadinanze e all’“ingegneria sociale del campo profughi” (Meschiari). 

 

Mentre Ralph Rugoff presenta la sua Biennale dichiarando “l'arte non può fermare l'avanzata dei movimenti nazionalisti e dei governi autoritari, né può alleviare il tragico destino dei profughi in tutto il pianeta (il cui numero ora corrisponde a quasi l'un percento dell'intera popolazione mondiale)”, Moscardini prova a dimostrare che un’operazione estetica può concretizzare un’utopia e creando degli spazi non sottoposti a una governance, dei “power vacuum”, si possono aprire degli spazi di immunità che possono mettere in crisi lo stato delle cose. Un’idea maturata a partire dall'analisi profetica di Hanna Arendt, che per prima intravide la mutazione della figura del migrante dall’antichità, in cui presenta un carattere di elitarietà, di individuo destinato a lasciare una patria per abbracciarne un’altra, alle migrazioni di massa, un fenomeno che caratterizza precipuamente il XXI secolo e che ha una natura politica completamente differente: oggi il migrante è l’odradek kafkiano, un paria, il soggetto della nuda-vita che, privato della propria cittadinanza, è destinato all’ostracizzazione, al non poter mai più avere una patria. Una volta uscito dalla comunità, l'individuo perde la propria umanità, perché i diritti umani si rivelano nella loro contraddittorietà come esclusivo appannaggio di chi è già cittadino. Se il migrante sconta “la colpa originaria che è la migrazione stessa, atto politico-esistenziale di natura irreparabile” (D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, pag 151) e il suo essere un “corpo fuori posto”, ciò dipende anche e strettamente da una prospettiva sempre orientata univocamente: lo sguardo e il giudizio sul migrante si materializzano sul limitare di una frontiera, da una riva, una demarcazione invalicabile che separa chi è dentro lo Stato da chi è fuori, tra civiltà e disordine, tra centro e periferia dell’impero.

 

Moscardini azzarda un movimento diverso, prova ad assumere su di sé una prospettiva differente, prova ad agire dall'altra riva. Attinge dalla filosofia di Giorgio Agamben, ripreso nelle sue riflessioni scaturite dalla pagine di Il tramonto dello stato nazionale e di We refugees della Arendt dove immagina una nuovo paradigma politico in cui l’apolide rappresenta non un’eccezione ma una possibilità, prospettando l’immagine di un’Europa “traforata”: “Solo in una terra in cui gli spazi degli Stati saranno stati in questo modo traforati e topologicamente deformati e in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini” (G. Agamben, Al di là dei diritti dell’uomo, in Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996). L’analisi della figura del migrante di Agamben che emerge dall’archeologia filosofica dell’Homo Sacer rileva la contraddizione bruciante di un’Europa chiusa in una empasse che si allarga fino ad abbracciare tutto il mondo governato dal modello tardo-capitalista, liberale in termini di transito delle merci ma non in grado di concepire una libera circolazione degli esseri umani e un superamento di quel paradosso inscritto nella democrazia per il quale proprio chi si trova nella condizione di maggiore fragilità vede sospesi quei diritti di cui può godere ogni cittadino che vive invece sotto la protezione del proprio Stato-nazione, al di fuori del quale l’essere umano sembra non aver diritto di esistere. Se il rifugiato segna quindi il limite, superato il quale la politica attuale frana e trascina con sé la forma assunta dal mondo dopo le due Guerre, come intuito da Arendt egli rappresenta allora anche una potenzialità, una figura simbolica che racchiude una condizione esistenziale per il futuro a venire. 

 

Il buco nero evocato da Moscardini è allora anche un foro stenopeico che proietta e ribalta l’immagine della realtà e che ci sorprende, come una rivelazione, quando mostra altre coordinate. Le sue fontane rovesciate, dove la fontana diviene il piedistallo del cortile, evidenziano la separazione dalla terra e la metafora di chi abita i luoghi senza appartenervi. Oltre la moltitudine di corpi che popola in assenza il progetto dedicato a Za'atari, in lontananza si scorgono figure dimenticate, fantasmi che parlano di altre cittadinanze, rapporti tra popoli e libertà. Sono il gher, colui che è straniero ma abita dentro le porte della Gerusalemme biblica, figura complementare all’ézrakh, il cittadino, e opposta al nokerì, “raffigurazione tragica dell’autoctono assiso nelle sue certezze, del proprietario che difende e reclama la proprietà” (ib., pag. 217), quello che oggi si definirebbe un orgoglioso sovranista. Il gher è un archetipo così potente da incarnarsi nella figura di Ruth la moabita da cui discende la dinastica davidico-messianica e l’idea stessa della sovranità ebraica (ib., pag. 213). Memorie bibliche parlano di vuoti che rendono possibile l’ospitalità, assenze che sono aperture, mistica e realtà che trovano una corrispondenza: nella Gerusalemme di Ruth “la comunità è messa costantemente alla prova dell’estraneità, come se al fondo di sé ci fosse sempre un altro” (ib., pag. 214). Come sembra distante oggi quel vuoto, custodito in attesa dell’avvento dell’altro, dalle nostre città sature e barricate, tanto da non riuscire neppure a immaginare l'ipotesi dello straniero se non a patto della normalizzazione e la successiva cancellazione della sua estraneità. 

 

Ripenso alla signora con il volpino e al tempo che non ha concesso al suo sguardo di fronte all'opera di Moscardini, uno sguardo che non ha saputo cogliere la linea dell’orizzonte che va da quella fontana che ora dimora nel parco di una città della pianura padana e si protende fino alla Siria e alla Giordania, gli stessi luoghi dove la cultura mediterranea ha visto la luce migliaia di anni fa. Moscardini ha chiesto a sé stessa e al pubblico presente se un cambio di politica, un cambio di indirizzo dell’Europa possa prendere il via da una scultura, magari proprio da Reggio Emilia. Di sicuro, questa domanda continuerà a risuonare ogni volta che uno sguardo si poserà sull’acqua della fontana del Parco Cervi, la stessa fontana che abita il cortile n.32, distretto n.4, del campo di Za’atari.

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