Boris Cyrulnik / Sopravvivere al male: Psicoterapia di Dio

20 Maggio 2019

È possibile vivere certe esperienze senza esserne devastati? Un bambino traumatizzato dalla violenza vista o subita diventerà a sua volta un carnefice o può sperare in un futuro diverso? Chi ha attraversato l'inferno, può uscirne ancora umano e se ce la fa, a quali risorse interiori si è aggrappato e da dove gli è venuta la forza mancata a un altro? Boris Cyrulnik, psichiatra e psicanalista francese, a sette anni perse i genitori per mano dei nazisti e sopravvisse rocambolescamente fino alla fine della guerra; riuscì a scriverne solo decenni dopo, nel 2012, in La vita dopo Auschwitz. Riflettendo da adulto e da scienziato su come fosse stato possibile che quell'esperienza, pur avendolo segnato profondamente e per sempre, non gli avesse tolto né la fiducia nel mondo né la gioia di vivere, applicò alla psicologia il concetto di resilienza, mutuandolo dalla fisica meccanica che indica in tal modo la capacità di un metallo di resistere agli urti senza spezzarsi. Cyrulnik lo usò per riferirsi alla capacità umana di sopportare ed evolvere in modo positivo nonostante le difficoltà, piccole o immani, cui la vita ci sottopone (cfr. Costruire la resilienza). Ora nel suo nuovo saggio, Psicoterapia di Dio, pubblicato da  Bollati Boringhieri nel 2018, analizzando il sentimento religioso nei suoi diversi aspetti – psichico, sociale e  spirituale – spiega in che modo esso possa costituire un fattore di resilienza e sanità mentale oppure, al contrario, portare all'integralismo, al rifiuto, persino all'odio contro chi ha l'impudenza di non vedere il mondo come noi lo vediamo.  

Nei primi capitoli di questo suo ultimo libro Cyrulnik affronta la questione dal punto di vista dei bambini, e lo fa ricordando l'incontro avuto con un piccolo gruppo di ex bambini-soldato congolesi che gli dicevano di avere la mente completamente occupata da immagini orribili, che scomparivano soltanto quando entravano in chiesa. Solo lì questi “bambini già vecchi”, dagli sguardi induriti e cupi e dai visi già segnati di rughe, trovavano pace, e a lui chiedevano se sapesse spiegargli perché. Uno solo, racconta, riusciva a sorridere parlando del futuro e di sogni del tutto simili a quelli di ogni altro coetaneo. Sembrava che la tremenda esperienza vissuta non lo avesse intimamente distrutto. Come mai? Lo psicologo, che lì per lì non aveva saputo alleviare l'angoscia di quei ragazzini – e confessa di avere portato con sé per molto tempo la vergogna e il dolore di averli delusi – ha cercato di farlo scrivendo questo libro.

 

La prima cosa che dà forza all'animo umano impedendogli di schiantarsi è la sicurezza di potere essere amati (condizione denominata in psicologia 'attaccamento sicuro'), che si forma nell'individuo soltanto se è stato amato almeno una volta per un tempo abbastanza lungo. La seconda, spiega Cyrulnik, è il potere raccontare, anche solo a se stessi, il proprio vissuto, perché ciò consente di distanziarsene e dargli un senso. L'attaccamento sicuro si crea grazie alle persone che si prendono cura del bambino sin dalla primissima infanzia dalle quali “ogni individuo impara a diventare ciò che è”. La presenza di una madre (o di una figura sostitutiva) premurosa crea nel piccolo un imprinting di fiducia permanente che lo aiuterà ad affrontare situazioni difficili o privative anche molto dure. Quando tale presenza non c'è, l'individuo sperimenta un senso di mancanza molto profondo e questo gli lascerà un vuoto mai del tutto colmabile. Nasce da tali differenti contesti la divergenza che porterà l'uno a sopravvivere spiritualmente e psichicamente a esperienze tragiche, mentre l'altro sembrerà non riuscire a riprendersi del tutto neppure da dolori comuni. La possibilità di “riattivare il ricordo di un momento felice, un’antica sensazione di amorevole protezione familiare” rappresenta una grande difesa psichica contro una realtà che può incutere vera paura. Chi è stato amato non perde mai l'inclinazione alla speranza e un residuo di fiducia, invece un bambino che non sia mai stato amato “non può riattivare il ricordo di una felicità che non ha mai conosciuto”, faticherà ad avere fiducia in se stesso e nel mondo, e non saprà a quale immaginario buono affidarsi quando attorno a lui tutto si fa buio. Tuttavia, spiega Cyrulnik, quando la mente è flessibile e aperta, non “fissata in una ripetizione nevrotica nella quale riproduciamo sempre la stessa relazione” può bastare un solo incontro a liberarci dall'infelicità. 

 

 

L'immagine genitoriale rassicurante, accogliente e protettiva interiorizzata dalla persona può identificarsi sia con una presenza divina sia con un ideale del tutto umano. In entrambi i casi la mente accede all'idea di trascendenza, percependo come reale, possibile e degna una realtà che travalica l'individuo. Sacra o profana che sia tale realtà, i suoi effetti positivi sulla mente non cambiano. Di quale tipo sarà e come evolverà la percezione della trascendenza dipende dalla struttura sociale e spirituale in cui si cresce. È un dato di fatto che diversi miliardi di persone si rivolgano ogni giorno a qualche divinità e ciò rende il fenomeno religioso molto interessante anche da un punto di vista psicologico. Siccome è un dato provato da test e ricerche che “chi crede in Dio, ed esprime la propria fede con attività rituali o dichiarazioni di fede, subisce precise modificazioni neurobiologiche”, Cyrulnik si chiede cosa determini l'attaccamento religioso, quali effetti produca la fede e come influenzi l'attività psichica spontanea, indipendente dalla volontà e dalla consapevolezza. 

Nonostante tutte le religioni predichino l'amore a Dio e al prossimo, per alcuni le parole della fede sfociano “in un linguaggio totalitario che pietrifica le anime”. Molte persone religiose detestano chi è diverso per fede, convinzioni, scelte, appartenenza al punto da volerne la morte. Non si può dunque ignorare che la stessa religione può portare gli uni all'altruismo, alla mitezza e all'accoglienza del prossimo, mentre in altri sfocia nel fondamentalismo e in un'intolleranza distruttiva. Bisogna ammettere con Cyrulnik che la religione “struttura la visione del mondo, salva moltissime persone, organizza quasi tutte le culture… e provoca disagi immensi!” Di tale tragica incongruenza possiamo dire almeno due ragioni. Innanzitutto lo stile d'attaccamento nei confronti del divino dipende dal modo in cui abbiamo appreso a relazionarci nell'esperienza vissuta: “Chi ha acquisito uno stile di attaccamento rigido si sottometterà a un Dio totalitario, mentre chi ha uno stile di attaccamento sicuro sarà abbastanza fiducioso da tollerare chi ama un Dio diverso”. La seconda ragione ha a che fare con la profondità della conoscenza del proprio stesso credo, perché quando una fede non è “argomentata, la sua deriva spontanea la spinge verso il totalitarismo”.

 

Chi nega il dubbio, anziché affrontarlo con coraggio, ha paura e per questo diventa aggressivo e intollerante; al contrario, chi affronta il dubbio e l'attraversa può uscirne con una fede più salda e non avverte il bisogno d'imporsi con la forza sull'incredulità altrui o su chi professa un altro credo. D'altra parte già Agostino d'Ippona sosteneva che la fede se non è pensata non esiste, è qualcosa d'altro.

Nei periodi d'incertezza culturale, precisa Cyrulnik, il sistema religioso non funziona correttamente e produce tre tipologie di problemi molto seri: culturali, che si traducono in guerre pseudo-religiose, come quelle che stanno tormentando il mondo da alcuni decenni; problemi psicoaffettivi, come il fanatismo, e neurologici, come certe forme di estasi e allucinazioni. Esistono molti modi diversi di credere o non credere in Dio, l'idea che ognuno si fa del divino si modella a seconda del contesto culturale in cui si cresce, delle esperienze personali vissute e del modo in cui il credente incontra Dio. In un ambiente sereno, stabile e affettuoso Dio avrà “le sembianze di una benevola forza sovrannaturale” che diventerà un sicuro fattore di resilienza nelle difficoltà, una forza che induce alla speranza e alla sensatezza del reale. Può certamente essere intesa in questo senso la famosa e spesso citata affermazione di Nietzsche “chi ha un perché sopporta quasi ogni come”: posso resistere nel dolore se riesco a dare un senso alla mia sofferenza, se riesco a conservare la speranza che il male che sta accadendo a me non pervada il mondo, che anche se io soccomberò, al di fuori di me e della situazione che sto subendo, ci sia ancora, almeno per gli altri, la possibilità del bene. 

 

L'attitudine a trascendere la situazione personale, lo slancio a spingere lo sguardo orizzontalmente verso gli altri o verticalmente verso il Dio in cui si crede, dà all'uomo la forza di conservare la propria integrità psichica e spirituale, di prendere le distanze da se stesso mettendosi in relazione con qualcosa di esterno a sé. Nei campi di concentramento Viktor Frankl aveva visto questa capacità esprimersi in gesti di vero eroismo ma anche nell'umorismo, virtù rara e preziosa in virtù della quale “l’uomo può autodistanziarsi non solo da una situazione, ma anche da se stesso. Così facendo, egli prende una reale posizione verso i suoi condizionamenti somatici e psichici” e riafferma la propria libertà interiore a dispetto di qualunque costrizione esterna (Senso e valori per l'esistenza).

Luigi Pareyson definiva la divinità ancipite, dotata di due facce, una dura e una benevola, come il Giano bifronte dei romani, dio della pace e della guerra, dell'apertura e della chiusura. Per Cyrulnik siamo piuttosto noi a dargli due facce, a seconda di come la guardiamo. Un animo benevolo riflette la sua positività sull'immagine divina e la pensa amorevole; chi invece ne vede il volto arcigno ha nel suo stesso cuore la durezza che proietta su Dio. Perché “si ama Dio allo stesso modo in cui si amano gli uomini”, conclude Cyrulnik, lo si ama solo se si amano gli uomini e la vita, lo si prega finché si ha la forza di sperare.  

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