Realmente si stava meglio nel tempo che fu? / Città sicure

18 Dicembre 2018

Alcuni vips italiani si sono lamentati di recente circa la scarsa sicurezza delle città in cui vivono. Anzi, a dire il vero, non proprio delle città intere, a cui a loro non è che importi poi così tanto, ma dei loro quartieri specifici di residenza. Insomma, se nemmeno un vip che abita in una zona vip può ritenersi al riparo da spiacevoli incontri, dove andremo mai a finire? Dove siamo già arrivati, se un onesto personaggio dello spettacolo o della cultura, sul tardi, non può più portare in pace il levriero a far pipì?! (La bestiuola oltretutto potrebbe riportare traumi durevoli dal semplice contatto con sgradevoli individui.)

In passato era diverso, si dice. Una volta sì, si ripete, che si stava bene, tranquilli, sereni, nelle nostre città, paesi, villaggi ch’erano autentiche oasi di pace senza traccia alcuna di turpi invasori.

Ma è davvero così? Realmente si stava meglio nel tempo che fu?

Proviamo a interrogare, un po’ random, qua e là indietro nei secoli, qualche testo letterario, per vedere cosa ci suggerisce. Essi sono i nostri oracoli, dopotutto. 

 

Prendiamo Plauto, il primo atto dell’Amphitruo, che registra questo significativo esordio di Sosia: “qui me alter est audacior homo aut qui confidentior,/iuventutis mores qui sciam, qui hoc noctis solus ambulem?”. Ossia: c’è un altro uomo più audace e temerario di me, che, pur conoscendo le abitudini della gioventù, me ne vado in giro solo di notte?

La Roma notturna dell’epoca plautina non pare dunque particolarmente invitante per un girovago solitario.

Si potrebbe obiettare che la scena è a Tebe, quindi Plauto descriverebbe una situazione greca. Ma, siccome subito dopo si fa riferimento ai tresviri capitales, istituzione romana quant’altre mai, i dubbi sono fugati. La capitale era rischiosa intorno al 201 avanti Cristo, probabile data di composizione della commedia. I Cartaginesi erano stati appena sconfitti a Zama, ma la teppaglia dei giovinastri romani era assai più difficile da tenere a bada rispetto ai pericolosi nemici esterni.

Almeno così pare.

 

Trasferiamoci in epoca imperiale. Sotto Traiano o Adriano. L’epoca in cui viveva Giovenale.

Un amico del poeta, tale Umbricio, se ne va, lascia definitivamente Roma per Cuma. Prima di levare le ancore, elenca tutte le brutture della capitale. A parte le buche, sono molto simili a quelle odierne. Non manca naturalmente un sostanzioso capitolo dedicato alla sicurezza. 

Se cammini solo di notte, dice Umbricio (siamo nella satira terza) è facile che ti si pari dinnanzi qualcuno che solo dopo una rissa riesce a prender sonno (quibusdam somnum rixa facit). L’attaccabrighe ti chiede: di chi sono le fave di cui sei gonfio? E anche: chi è il ciabattino che ha mangiato con te cipolla e testina di montone bollito? E poi: in quale sinagoga posso trovarti? Subito dopo ti riempie di sganassoni. È già tanto se torni a casa con qualche osso sano, aggiunge Umbricio. Ma non basta: c’è anche chi ti spoglia di tutto. C’è il grassatore che ti piomba addosso improvvisamente e ti sistema con una coltellata (et ferro subitus grassator agit rem). Mentre tutto ciò accade a Roma, le pattuglie armate preferiscono andare a metter ordine nelle paludi Pontine o nella pineta di Gallinaria, ma tutti i briganti se ne sono venuti via proprio da là, per assaltare Roma come una preda facile facile, sguarnita com’è.

Ma pure un po’ prima, in epoca neroniana, non è che nell’Urbe si stesse meglio quanto a sicurezza notturna.

 

 

Anzi, secondo quanto racconta Svetonio, c’era un teppista molto particolare a Roma in quel periodo, un losco figuro che, subito dopo il crepuscolo, si metteva in testa un berrettaccio e andava per taverne e scorrazzava per le strade, non senza far danni però: usava infatti percuotere quelli che tornavano da qualche cena e, se osavano resistergli, li feriva e li gettava nelle cloache (siquidem redeuntis a caena verberare ac repugnantes vulnerare cloacisque demergere assuerat). Non solo, amava scassinare e depredare piccole botteghe, così, per il solo gusto di farlo, dato che i soldi non gli mancavano di certo, dato che costui era Nerone, l’imperatore Nerone in persona. (Un curioso caso dunque non di “sovversivismo dall’alto”, come teorizzava Gramsci, ma di “teppismo dall’alto”, per così dire).

 

E adesso facciamo un balzo ancora più grande, di secoli e secoli.

Siamo nella Milano napoleonica, nel 1801.

Vi abita un animoso poeta greco-veneto, o veneto-greco se si preferisce, impegnato tra le altre cose in una travolgente relazione d’amore con una contessa sposata. Sì, è lui, Ugo Foscolo e lei è Antonietta Fagnani Arese, la dedicataria della celebre ode All’amica risanata. Tra i due amanti, a un certo punto, si profila la figura del terzo, un certo Petracchi. Foscolo è accecato dalla gelosia. Chiama il rivale “signor Petracchi”. Diffida la donna dall’accogliere in casa quest’infame. Lo faccia allontanare dalla servitù. Altrimenti Ugo sarà costretto a ricorrere all’infallibile “rimedio della Teresina”.

Di che si tratta? Lo scrupoloso e erudito annotatore dell’epistolario, Giovanni Pacchiano, ci informa che il rimedio della Teresina non era altro che la bastonatura, una solenne scarica di legnate. E aggiunge che non c’era niente di più facile che bastonare o far bastonare una persona di notte nella Milano del 1801. La città, che pullulava di soldati, di piemontesi, napoletani, genovesi, fuorusciti ed esuli rientrati dalla Francia, era sì parecchio animata di notte, ma per nulla sicura. I malviventi vi si aggiravano derubando e aggredendo i passanti. Persino il generale Thiébault fu preso di mira. Per non parlare delle bande di austriacanti che costringevano la gente a gridare “Viva l’Imperatore (inteso come Kaiser)” e altrimenti erano botte da orbi.

 

Trasferiamoci nella Bologna del 1826.

In città dimora il conte Leopardi. Vi si trattiene un anno. Sentiamo cosa scrive all’amata sorella Paolina il 23 giugno: “Io finalmente sono entrato in un tantino di paura; ho cominciato ad andar con riguardo la notte, e ho cura di portar sempre danaro addosso, perché l’usanza è, che se non vi trovano danaro, vi ammazzano senza complimenti”. Leopardi è effettivamente un po’ preoccupato, lì, a Bologna, si fa “un ammazzare che consola”: quattro persone trucidate in quattro diversi punti della città, in quella fine giugno del 1826.

La sorella, allarmata, deve averne parlato con il padre, se Giacomo si sente in dovere di rassicurare Monaldo nella lettera del 3 luglio: il padre non si preoccupi, lui, Giacomo ha preso la decisione di non andar di notte, per Bologna, “se non per le strade e i luoghi più frequentati”.

 

In quegli stessi anni del diciannovesimo secolo c’è un altro scrittore, allora per nulla famoso, che si aggirava e soggiornava per l’Italia, paese che amava perdutamente, come amava del resto alcune delle avvenenti dame che vi abitavano. Henry Beyle in arte Stendhal, che di sé diceva “sarò letto verso il 1945”. Stendhal amava certo l’Italia, ma non chiudeva gli occhi di fronte ai suoi difetti  considerandola, secondo la bella ricostruzione di Luigi Foscolo Benedetto, il paese della superstizione, il paese dell’arbitrio, il paese della vendetta, dei veleni e, soprattutto, il paese dei briganti.

In un frammento inedito di Rome, Naples et Florence c’è un preteso “officier de cavalerie” che chiede ai suoi subalterni se vi sia qualcuno disposto ad accompagnarlo in Italia. Tutti rifiutano. Hanno tutti, nessuno escluso, paura di essere assassinati “dans ce pays de brigands”. Alla faccia della sicurezza di una volta!

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