Speciale
Passanti fossili
Camminare significa camminare tra la gente. Mescolarsi alla folla. È il destino del flâneur. Non si può mai camminare soli. Per quanto presto uno si alzi al mattino, per quanto periferici e marginali provino ad essere i suoi percorsi, trova sempre qualcuno fuori, per strada, che incrocia i suoi passi: le traiettorie si sfiorano, anche solo per un attimo; ma un breve contatto di sguardi si compie, è inevitabile.
C'è chi, in un suo folle sogno di solitudine, in una sua disperata ansia d'isolamento, ha provato a uscire di casa sempre più presto all'alba. Prima alle sei, poi alle cinque e mezzo, alle cinque, persino alle quattro e tre quarti, alle quattro e un quarto anche. Niente da fare. È incappato ogni volta in un'ombra di camminante in cui riflettere la sua. Non si sfugge. E se non erano umani erano martore guizzanti, porcospini che caracollavano ai margini dei marciapiedi, erano persino tassi: un tasso sbucato da un fosso. A quando un orso, che gli animalisti assicurano essere d'indole assai gentile, signorile e delicata? A quando un lupo o una volpe col muso levato a fiutare chi sa che?
Tanto vale allora immergersi del tutto nella folla. Moltitudine, solitudine. Così si esprimeva Baudelaire, che pure provava orrore per la faccia dell'uomo, come scrisse in una lettera alla mamma, Madame Aupick, datata dieci agosto mille e ottocento sessantadue.

Chissà come reagirebbe oggi, Charles Baudelaire, all'epoca di Facebook, dove chiunque abbia una faccia pur che sia corre a metterla in mostra in rete, con entusiasmo autenticamente "virale".
Sembra incredibile ma persino a Merano hanno pubblicato un libro pieno di facce, di facce di meranesi ben s'intende. Viste sul libro non sono neanche male. Sorridono quasi tutti, questi meranesi così felici d'esser stati fotografati. I problemi probabilmente cominciano quando l'obiettivo si allontana.
Nonostante questo suo orrore per il volto umano, nessuno come Baudelaire ha raccontato del godimento che si prova a camminare in mezzo a grandi agglomerati di gente. Si può entrare a piacere in qualunque personaggio che procede accanto a noi, verso di noi, che ci taglia la strada sorridendo o, più spesso, con un ceffo perfettamente patibolare. È un'ebbrezza strana quella che si ricava da questa comunione universale.
Ci si può esercitare nell'arte del riconoscimento o, se si vuole, dello smascheramento. Pasolini, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, sosteneva che era ormai impossibile distinguere singole individualità all'interno della massa anonima. Secondo lui si trattava di un'unica colata lavica. L'azzeramento delle differenze si era realizzato. L'omologazione aveva trionfato. Il borghese e il proletario e il sottoproletario si presentavano tutti con un identico aspetto interscambiabile.
Lo starec Zosima, proseguiva Pasolini, il vecchio monaco santo che, nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, si prosterna davanti a Dimitri, perché, anche solo guardandolo, presagisce in lui il suo futuro di vittima sacrificale, oggi (cioè allora, 1974), rimarrebbe immobile, non potendo prefigurare nessun futuro da un'espressione ch'è uguale ad ogni altra.
Non è per caso che Pasolini viene tirato in ballo qui. Anche lui era un flâneur. Se ne accorse già nel mille novecento cinquanta sette Elémire Zolla, recensendo, sul numero di agosto di "Tempo presente" di quell'anno, le appena uscite Ceneri di Gramsci, il capolavoro poetico di Pier Paolo. Tra tanti articoli e volumi inutili che infestano le smisurate bibliografie pasoliniane, questo è eccellente, e naturalmente è poco noto, quasi mai citato come accade alle opere migliori.
Senza cappotto, nell'aria di gelsomino/mi perdo nella passeggiata serale... Stupenda e misera città/ che m'hai insegnato... come andare duri e pronti nella ressa/delle strade... Trasportato dall'onda dei passi/questa che lascio alle spalle...non è la periferia di Roma...
Ad apertura di libro ci si imbatte in questo personaggio, che dice "io" e che si aggira senza meta per le vie della capitale, un flâneur in piena regola quindi. Con l'avvertenza però che Pasolini era il Baudelaire dei poveri, anzi dei Sottoproletari delle Borgate, quelli che Marx, Engels e anche Lenin chiamavano con disprezzo Lumpenproletariat, cioè proletariato degli straccioni, dato che erano privi di tutto, perfino della "coscienza di classe" per servirsi di formule ormai dimenticate e che erano invece assai attuali nel Paleolitico o giù di lì.

Ancora nel mille novecento settantuno, nel suo ultimo libro di versi italiani, Trasumanar e organizzar, quand'era diventato un regista di successo universalmente noto, Pasolini amava vestire i panni del flâneur, almeno nella poesia più bella del volume, gli splendidi Versi da testamento che così si chiudono: Non c'è cena o pranzo o soddisfazione del mondo/che valga una camminata senza fine per le strade povere/dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani. Ma nonostante Pasolini la negasse, l'arte del riconoscimento di cui s'è detto sopra, o, si potrebbe riformulare: nonostante al buon Pasolini quest'arte non riuscisse più e non sapesse comprendere, nel corso dei suoi vagabondaggi notturni, se aveva di fronte un simpatico giovanotto che ci stava o un giovinastro armato di coltello pronto a colpirlo – e purtroppo s'è visto com'è andata a finire per lui – nonostante ciò, il camminante meranese ci si prova ancora, a lanciarsi in deduzioni e ipotesi, forse spericolate e senza fondamento, a partire dall'aspetto dei passanti che incontra.
Qualcuno potrebbe pensare che a Merano ci si conosca tutti e che quindi sia impossibile indovinare alcunché da facce e andature. A Merano tutti sanno già tutto di tutti. (Tra l'altro, è noto, hanno anche pubblicato il libro, sulle facce meranesi). Solo in parte è così. Intanto c'è la consolidata divisione fondante italiani-tedeschi, e i due mondi sono tuttora abbastanza impermeabili e quindi sconosciuti, nonostante il libro suddetto. Poi ci sono pur sempre i turisti, e ce ne sono tanti: germanici, svizzeri, italiani, lituani, russi e così via. Inoltre sopravvive anche qui, nella ridente cittadina, qualche personaggio bizzarro che evita accuratamente di mescolarsi al consorzio umano e cerca per quanto può di tenersi distante dal pettegolezzo a ciclo continuo.
Perciò si può tentare.
Questo bel signore, per esempio, fine, garbato che avanza con passo sicuro, ben vestito, ben pettinato – e se in realtà fosse un vecchio porco depravato che abusa da anni della nipotina?
Questa dama distinta, incipriata, ingioiellata, con il suo tailleur elegante, che manda intorno occhiate da lupa, dietro gli occhiali all'ultima moda: che stia perlustrando con ansia il territorio alla ricerca di un valido maschio da asporto?
Il sabato mattina è il turno delle famigliole in libera uscita. Lui è giovane, ma ha già la faccia sbattuta d'un vecchio. Lei ha l'aria tronfia, sembra gridare a ogni passo: sì, il marmocchio qui presente, in questa funzionale carrozzella, l'ho sfornato io, davvero io: l'avvenire della specie è salvo. Lui guarda affranto a destra. Lei guarda fiera a sinistra. Il marmocchio guarda avanti, e frigna disperato. "Perché sono toccati proprio a me, questi due?" probabilmente pensa tra i singhiozzi, povero piccino. Quando il camminante meranese legge sul giornale notiziole come le seguenti: donna morta nel siracusano; fermato il marito; forse colpita dopo lite. Oppure: Pietra Ligure: donna massacrata a calci e pugni dal compagno. O anche: Motta Visconti: uccide la moglie e due figli piccoli; ha confessato: amavo un'altra (tutte ricavate da un'unica fonte: un quotidiano di qualche anno addietro; ma oggi, o domani, sarebbe esattamente lo stesso, forse anche peggio) ebbene al camminante il pensiero corre subito all'immagine delle strazianti famigliole del sabato mattina sul Corso o sulle Passeggiate.
E queste due, invece, queste due donnette che a piccoli passi stacchettano per via delle Corse, e hanno visucci tanto per bene e paiono tanto due brave persone – saranno senz'altro due spietate cacciatrici d'eredità, una delle professioni del futuro, con tutto il vecchiume senza prole che c'è in giro.
Altri si trascinano a fatica in gruppo, come per sostenersi a vicenda. Spuntano di continuo da ogni direzione. Da oriente. Da occidente. Dal sud e dal nord. I loro occhi sono vitrei. Le loro bocche sono aperte. Paiono arsi dal sole. Consumati dalla pioggia. Seccati dal vento. Su ogni muscolo del corpo portano scolpita una stanchezza immemoriale. Chi sono? Sono TURISTI.
Il mestiere di TURISTA è uno dei più duri della Terra. Devi lasciare le comodità di casa tua. Devi abbandonare la tua consolidata identità professionale per assumere quella avventizia e malfamata di TURISTA. Devi partire per lidi lontani. Il viaggio è infernale: contrattempi, accidenti, scioperi, imprevisti, furti e aggressioni. Quando arrivi la delusione è grande: tutto qui?! Ma non basta: per qualunque esigenza vitale, è bell'e pronta la fregatura corrispondente. Bevi, e ti fregano. Mangi, e ti fregano. Dormi, e ti strafregano. Persino quando cammini, quando ti siedi e quando respiri, c'è sempre qualcuno pronto a fregarti. E se ne inventano una al giorno per farlo. Il TURISTA è una preda facile, un bottino da spartire, uno schiavo da scorticare vivo. Poi c'è gente che ha pure il coraggio di lagnarsi se il turismo è in crisi.

A volte, improvvisamente, appaiono volti angelici, come petali inaspettati, fioriti d'incanto su un ramo umido e nero. Ragazze su cui aleggia come un'ombra sacra. Si osservano passare, fasciate in un manto di regale distanza, hanno la chioma sciolta nel vento, danno a chi le guarda una breve vertigine. Le loro mani bianche ancora non conoscono il sudore umiliante dei contatti. Prima o poi qualcuno s'impossesserà di quelle bocche fresche come sorgenti, legherà quei capelli sciolti nel vento. L'idiota sarà abbastanza ignaro per non morire prima di toccarle. L'animale.
Fa il suo ingresso sulla scena di Merano (o del mondo) un vecchio contadino secco secco, con il cappello di feltro sopra la faccia rugosissima cotta dalle intemperie, il grembiule blu, lo zaino in spalla. Erano decenni che non se ne vedeva uno simile. Poco dopo, incredibilmente, un prete in sottana, nero come un corvo. Da dove viene? Dove va?
Ed ecco, adesso, un tipo sui trent'anni, con i capelli piuttosto lunghi, scarruffati, gli occhialetti tondi, la barba di tre giorni. Manca solo l'eskimo! È un intellettuale di sinistra! Ma che ci fa a Merano un intellettuale di sinistra, se la sinistra non esiste più da tempo, e gli intellettuali sono tutti in pizzeria, che prestano la loro opera, precaria peraltro, come camerieri, lavapiatti o pelapatate? Se adesso scaturisse dalle profondità del sottosuolo qualche giovanotto dalle guance scavate con la voce flebile che chiede insistentemente: 'ngiai mica giento lire?, il panorama sarebbe davvero completo.
O il tempo è tornato indietro, riavvolgendo il nastro degli eventi, o questi appena descritti sono PASSANTI FOSSILI, una specie che non si è ancora estinta del tutto, nemmeno a Merano. Sono l'equivalente umano delle cabine del telefono, dei gettoni telefonici, dei tombini con incisi i nomi di società telefoniche scomparse TELVE, SIP, K.u.K. Telefongesellschaft...
Non deve stupire la negatività di questo quadro. Non è che il camminante sia un depresso. Non è la nevrosi a dipingergli a tinte fosche il paesaggio umano del mondo (o di Merano, ch'è lo stesso). È comunque in buona compagnia.
In copertina: Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892.
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