Speciale
Fuga dalla provincia
Che c’è di male se le Passeggiate sono usate per altri scopi? L’economia deve girare. I wuerstel vanno consumati. Se uno proprio vuole camminare si diriga verso i quartieri residenziali. Percorra in santa pace i viali e le vie su cui affacciano le ville, le splendide ville di Merano, che è famosa nel mondo per le sue ville.
Ma dov’è villa Mozart di via San Marco, bianca come una meringa e con gli stucchi color oro? Dov’è finito il suo splendido Jugendstil viennese? Dov’è villa Mon Repos di via San Giorgio con i suoi infissi decorati? Dov’è villa Mirabella di via Garibaldi? Dove sono villa Maria, villa Mignon e villa Lora? Dove sono villa Planitz, villa Rapp, villa Illmenau? Dov’è villa Wallenstein? Dov’è villa Seisenegg? Dov’è villa Lauretta? Dove sono tutte queste ville? Dove sono tante altre?
Non ci sono più. Demolite. Abbattute. Distrutte. Sostituite da insipidi cubi di cemento. Da parallelepipedi obitoriali. Da case senz’anima, come chi le abita, ma dalla cubatura raddoppiata, triplicata, che consente di ricavarne soldi, più soldi, molti soldi.
Ma come? Anche qua? Si chiederà qualcuno. Anche là? Anche lassù, nell’ineccepibile Sudtirolo detto anche Alto Adige, succedono di queste cose? Non c’è, lì da voi, il Culto della Tradizione?
La Tradizione, sì certo. Però se qua (come altrove) ci fosse un incontro di pugilato “BILANCIO versus TRADIZIONE” vincerebbe sempre BILANCIO e non ai punti, ma per KO secco.

Il Bilancio ha le sue ragioni, che la Tradizione non conosce, e sono ragioni ferree, implacabili, inesorabili. Il Bilancio è, più che una ragione (buona per ogni uso), una vera e propria religione.
Qua (come altrove) vige effettivamente la RELIGIONE DEL BILANCIO. Il bilancio è sacro. Come il denaro che amministra. L’espressione “il Dio Denaro” è molto meno banale di quanto si pensi.
Non si tratta tanto dell’equivalenza tra ciò che si è e ciò che si ha, di cui esistono numerosissime attestazioni nella storia nonché nella storia letteraria di ogni tempo, a partire dal celebre chremata anér di Alceo, poeta del settimo secolo avanti Cristo, e che si può rendere con “l’uomo è la sua ricchezza”. Non si tratta nemmeno del Regina Pecunia di Orazio, ossia Sua Maestà il Denaro, né dell’assem habeas, assem valeas di Petronio, hai un soldo, vali un soldo. E non è nemmeno una perversione moderna che sacralizza ciò che normalmente dovrebbe essere antitetico al sacro, cioè i soldi.
Il denaro è in verità vincolato al sacro da sempre. È nato nell’ambito del sacro. La sua nascita è legata al culto. È proprio il culto che lo presuppone come mezzo di remunerazione regolata. Esso ha un’origine sacrificale. Sta per, sta al posto di, come ogni vittima di ogni sacrificio che si rispetti. L’obolo (moneta greca) viene dritto dall’obelo (spiedo che conteneva porzioni di carne sacrificale, offerta agli dei). Il tripode, la doppia ascia, il lebete e il falcetto spartano sono, prima che simboli sulle monete, oggetti legati al sacrificio. La spiga, il tonno, il delfino esprimono, impressi sul metallo delle monete, il loro valore di primizie dedicate agli dei. L’oro e l’argento significano il Sole e la Luna e il loro rapporto di valore (uno a tredici e mezzo), nella civiltà babilonese, è basato sul rapporto dei movimenti dei due astri, non su altra considerazione di tipo materiale. Nell’odierno getto di monetine da parte dei turisti nelle fontane di certe città sopravvive, reliquia secolarizzata, l’arcaica usanza del ringraziamento reso alle divinità delle Fonti, ninfe o dee.
Sono tesi, queste, derivate da un gran bel libro, Heiliges Geld (“Denaro sacro”) di Bernhard Laum, uscito nel 1924 e mai tradotto in italiano. Anche se non l’hanno mai letto, qua come altrove, il Culto del Denaro è professato, qua e altrove, con uno zelo, una disciplina, un rigore assoluti. Assolutissimi. E il Culto del Bilancio ne è una propaggine pressoché naturale. Ed è quindi per ragioni di bilancio che chiudono una scuola dalla tradizione plurisecolare, un prestigioso Liceo Classico, per aggregarla senza tanti complimenti ad un’altra senza molta tradizione. E poi, dopo averla tenuta in piedi per un po' pro forma, la lasciano morire senza pietà, questa famosa scuola, alla faccia dei Valori Antichi!
È, sempre per mere ragioni di bilancio, per risparmiare sul bilancio che agli insegnanti altoatesini o sudtirolesi non mandano più per posta il cedolino dello stipendio. Ma solo via mail. Per accedere al servizio bisogna dotarsi di parola d’ordine che cambia ogni due mesi. Evidentemente, nel vasto mondo, pur con tutto quello che vi succede, ci dev’essere qualcuno che non aspetta altro che di conoscere l’esatta entità dei leggendari stipendi degli insegnanti di qui. Per questo bisogna depistarlo, rendergli il lavoro difficile, mutando di continuo la parola d’ordine. Si sa che gli hacker, che sono stati capaci di violare i siti del Pentagono e della Cia, di fronte alle password dei docenti sudtirolesi, arretrano, e si ritirano in buon ordine.

Comunque si realizza certo un bel risparmio a non spedire più il cedolino cartaceo. Son soldi.
Risparmiando i quali, soldi, sacri, si possono aumentare invece, e di molto, i vitalizi dei valorosi consiglieri provinciali e regionali di Bolzano e Trento. Ma si possono aumentare anche, i vitalizi, risparmiando sul numero degli ospedali. Sulla eccessiva presenza di asili, ricoveri e mense. E persino sul soccorso alpino, si può risparmiare. Se un rocciatore si trova in difficoltà in quota, appeso a uno spuntone, dondolante nel vuoto, si paghi lui di tasca propria i soccorritori e, se no, se ne stia a casa in pantofole, e non si azzardi ad avventurarsi sulle cime!
Sì, anche qua, nel favoloso Alto Adige e nell’altrettanto favoloso Trentino, la regola pare essere questa: RISPARMI FINO ALL’OSSO NEI SETTORI ESSENZIALI per permettere così SPRECHI INGENTI NEI SETTORI IRRILEVANTI. Del resto, ai nostri bravi ed efficienti politici locali va garantita una serena vecchiaia, se la sono meritata. Qualche demagogo, però, letta l’entità dei vitalizi che si godranno i politici locali, ha osato gridare allo scandalo. Ha detto, anzi ha urlato: ma sono cifre scandalose!
Anche Gesù Cristo dice nel Vangelo di Matteo che è bene che gli scandali avvengano. E qui, non si sa quanto cristianamente, gli scandali avvengono. Nel mitico Alto Adige non fioriscono solo i gerani sui balconi, fioriscono anche gli scandali. Scandalo IPES, scandalo SEL, scandalo del Mercatino di Natale di Merano. Eh già, si è rubato perfino sul Mercatino di Natale, a Merano. Costi di gestione gonfiati tramite false fatturazioni. Truffa aggravata, il reato, e pene patteggiate da parte dei membri del Comitato Organizzatore (del Mercatino). Pochi anni fa. Ma non sono che bazzecole a paragone dello scandalo SEL, che non è solo il nome del sale in francese, ma anche la sigla della Società elettrica altoatesina (in tedesco Suedtiroler Elektrizitaetaktiengesellschaft).
Le cose sono andate così. La Provincia Autonoma di Bolzano bandì una gara, nel 2005, per la concessione di ben dodici centrali idroelettriche. Parteciparono varie aziende alla gara e, tra queste, anche la SEL, società della Provincia Autonoma stessa (al 93 per cento). Quindi la Provincia fu arbitro della gara e insieme giocatore, della gara. Le centrali furono tutte assegnate alla SEL (tranne una). Ma, aldilà del colossale conflitto d’interessi, le procedure furono tutt’altro che trasparenti. Anzi. Le indagini hanno accertato che, la sera del quattordici aprile 2006, quando i termini per il deposito delle offerte di gara erano abbondantemente scaduti, tre personaggi si riunirono in un ufficio del Palazzo della Giunta Provinciale. Era molto tardi, era venerdì, Venerdì Santo. Il Palazzo era deserto. I tre personaggi erano il Direttore, il Collaboratore e l’Assessore. Essi, nell’ufficio del grande Palazzo vuoto, aprirono le buste sigillate delle offerte di gara, videro gli importi, le richiusero. Si capisce poi perché le offerte della SEL si rivelarono così vantaggiose da sbaragliare letteralmente quelle della concorrenza. Alla Provincia piace vincere facile.
Ciò ha però comportato alcuni reati, piuttosto gravi, quali: truffa aggravata, abuso d’ufficio, turbativa d’asta, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, falso ideologico commesso da ufficiali pubblici in atti pubblici. E chi, come il camminante, credeva o aveva un enorme bisogno di credere nell’onestà dei suoi co-provinciali, si è dovuto, ah quanto amaramente!, ricredere.
E chi sa quale altro lungo rosario di scandali ulteriori, dai nomi suggestivi, avrà modo di sgranarsi, tra le vette e i fondovalli della serena provincia sudtirolese. Dalla pentola scoperchiata usciranno miasmi incredibili, mischiati all'inebriante profumo dei tigli e del biancospino. Perché questa è la provincia. O meglio: anche questa è la provincia.

La grazia o il tedio a morte del vivere in provincia, cantava Guccini. Il passo lento e gaio della provincia, poetava Bertolucci e i giorni splendidi di settembre, le vetrine incantevoli, i marciapiedi dorati, i colori che mutano per la moda, solo quelli mutano, in provincia, così ancora Bertolucci, nelle sue poesie idilliache. Ma la provincia è altro. È un nido di vipere. Un nodo di vipere. Inestricabile. È sede di odii e rancori invincibili. Di efferatezze incredibili. E lo è sempre stata.
Basti pensare agli episodi raccontati da Cicerone nella sua difesa di Cluenzio, dell’anno sessantasei avanti Cristo, che non è, forse, la più famosa delle sue orazioni, anche se è la più citata da Quintiliano.
Cluenzio era un personaggio provinciale, accusato di aver avvelenato il suo patrigno Oppianico. Teatro dei fatti era Larino, municipium nel territorio dei Frentani, oggi nel Molise. Di questi borghi rurali si diceva anche allora, duemila anni fa, un gran bene. Erano posti sani abitati da gente sana, si sosteneva, tutta casa e lavoro e solida virtù morale. I valori del passato, la frugalità, la modestia, la pazienza, la solerzia e la tenacia vi erano ben custoditi, si pensava.
Di solito, a proposito di questi comuni rustici, di questa buona e cara provincia, affiorava sulla bocca un verso di Ennio: Moribus antiquis res stat romana virisque. Cioè: lo Stato Romano poggia sui costumi e sugli uomini antichi. Ma se lo Stato poggiava, per esempio, sui costumi e le usanze di Oppianico, come ci è descritto da Cicerone, allora stava proprio fresco, lo Stato Romano. Perché Oppianico si rese protagonista dei seguenti atti: falsificò di sua mano i pubblici registri del municipio; alterò un testamento, ne fece sigillare un altro, falso, mediante una sostituzione di persona; fece uccidere colui a nome del quale il suddetto testamento era stato sigillato originariamente; fece uccidere lo zio materno di suo figlio, che era, a sua volta, ridotto in schiavitù; fece proscrivere e assassinare diversi suoi concittadini (di Larino) per vendicarsi di torti reali o presunti e/o per impossessarsi delle loro ricchezze, reali e non presunte; sposò poi la moglie di chi aveva assassinato; pagò per procurare un aborto (a una di queste mogli); eliminò una delle sue suocere, una delle sue mogli, la moglie del fratello, il fratello e il loro figlio, che non era ancora nato, ben chiuso nel ventre della madre; fece uccidere anche i suoi stessi figli; tentò poi di avvelenare il figliastro, cioè Cluenzio, ma fu colto in flagrante e trascinato in tribunale; qui, siccome i suoi sicari e complici avevano confessato, per evitare la condanna pagò i giudici, uno in particolare, a nome Staieno, incaricato di corrompere anche gli altri, distribuendo loro il denaro.
Oppianico, questo bel campione di moralità provinciale, aveva avuto cinque (secondo altri sei) mogli, chiamate, nell’ordine, Cluenzia, Magia, Papia, Novia e Sassia. Questa Sassia, prima di Oppianico, aveva sposato Aulo Melino, che era suo genero, rubandolo quindi alla figlia, che si chiamava Cluenzia anche lei, come la prima moglie di Oppianico. Una volta morto Melino, Sassia convolò a nozze con Oppianico, che era fra l’altro esattamente colui che aveva fatto proscrivere e assassinare Melino. Dietro a tutto quest’orrido intreccio di storiacce di veleni, falsi testamenti, corruzione, assassinii, libidini e furori, stava lui, sempre lui, immancabilmente lui, il SACRO DENARO, motore di ogni movimento e causa di tutte le cause.
E, ripetiamo, la sede di tale viluppo di criminalità assortita non era Roma, cloaca massima di tutti vizi, depravazioni e perversità di tutti i tempi, ma la piccola Larino, cittadina rurale italica. Alla faccia della primitiva Virtù provinciale!
A Larino il quadro non era propriamente idillico. Nemmeno a Merano lo è. Per questo il camminante, mentre cammina, è assalito dal forte desiderio di alzare lo sguardo verso il cielo, dimenticando la terra e i suoi miasmi. Leva gli occhi in alto, guarda. Contempla, mentre cammina, la grande quinta dei monti del Tessa, il fondale di pietra acuminata oltre cui non c’è più niente, il nulla. E, sotto, segue con gli occhi la linea dei castelli, da Castel Torre a Castel Fontana a Castel Tirolo e, in mezzo, la minuscola chiesa di San Pietro, candida nel sole. Ma, ad essere assolato, è solo quel pezzo di montagna – tutto il resto, della montagna, e anche del paesaggio, dell’intero paesaggio, è avvolto nella foschia della pioggia. Come se due giornate, come se due atmosfere diverse si fossero intersecate, come se il paesaggio fosse l’intersezione di due momenti atmosferici differenti.
È come se avesse una steady-cam sulle spalle, il camminante, inquadra ciò che vede. Potrebbe elencare, ciò che vede, ciò che riprende. Potrebbe dire: magnolie, laurocerasi, viburni e sambuchi, ma non servirebbe a niente. Non lo capirebbe più nessuno, specie i giovani, la bella gioventù meranese. I giovani sanno tutto di selfie, di snapchat, di viber, instagram, whatsapp e altre app, tante altre app, ma confondono un pino con un cipresso e ignorano cosa sia un’ortensia.
Il camminante ha una steady-cam nel cervello. È diventato la strada che percorre. I ciottoli che calpesta, la ghiaia. La sabbia che smuove. È ormai una cosa sola con il paesaggio sussultante tutt’intorno. Una cosa sola con il suo cammino. Come l’arciere con l’arco. Come il cavaliere con il cavallo. È in ogni cosa esigua. In ogni cosa immane. Nella scaglia della pigna. Nella roccia della vetta. Non ha più nome. Oltrepassa l’agglomerarsi della città nel fondovalle. Oltrepassa le colline. Oltrepassa la corona dei monti. Nuota nell’estasi profonda. Vola nell’aria. Come un’allodola, che spazia nel cielo e intende facilmente il linguaggio dei fiori e delle cose mute.
Leggi anche:
Alessandro Banda | Flâneur sotto shock
Alessandro Banda | La schiavitù canina
Alessandro Banda | La celeberrima Passeggiata Tappeiner
Alessandro Banda | Il patrono dei camminanti
Alessandro Banda | L’invasione degli ultraveicoli
Alessandro Banda | Metafisica del SUV
Alessandro Banda | Crisi e biciclette
Alessandro Banda | Wanderlust
Alessandro Banda | Il rompicoglioni eterno
Alessandro Banda | Telefonanti
Alessandro Banda | Passanti fossili
Alessandro Banda | Dino Campana e altri fugueurs
Alessandro Banda | Come un criceto sulla ruota
Alessandro Banda | Il più allegro dei giardini
Alessandro Banda | Passeggiate sequestrate
