Cosa raccontano le nostre autostrade

18 Aprile 2012

Tutto ciò che prima era una ferrovia, un’autostrada, un ponte, è diventato grande opera. Stavo scrivendo Grande Opera in maiuscolo, come se fosse un marchio consolidato, un logo stampato nel cielo o inciso nella terra, a traccia. Dal 2001 la Legge Obiettivo - forse sarebbe stato più eloquente chiamarla Obiettivo Legge - stabilisce gli interventi prioritari, la semplificazione delle procedure, la modalità di progettazione e finanziamento per le grandi opere considerate sempre strategiche.

 

La grande opera, nell’intento di chi ne detta il respiro, è l’autorità, il ritorno all’evidente, al monumentale che difende dalla tendenza inesorabile al frammento, alla scomparsa, voluta, peraltro, proprio da chi coltiva la dismissione e, contemporaneamente, la grande opera. Ogni marchio, nonostante sia invasivo e subito riconoscibile nella sua rappresentazione, esercita un potere anche neutro, e ha bisogno della lingua: che sia slogan o sermone, oggi come nel 1964 domina il timbro politico travestito da equidistanza tecnica, ciò che Pasolini criticava dopo il discorso di Aldo Moro all’inaugurazione dell’Autostrada del Sole. “Un sistema integrato su scala nazionale” potrebbe essere una frase della Legge Obiettivo, e invece è di Moro. Pasolini paragonava quella lingua tecnica all’autostrada, e l’autostrada alla televisione, “principio omologatore e unificatore”. Una televisione ancora divulgativa, oscillante tra il documentario educativo e la tribuna politica. Di lì a poco televisione e autostrada si sarebbero fuse davvero, nell’imbrunire dei ‘70, grazie agli autobus in gita scolastica o di ritorno dallo stadio, i televisori accesi come fuochi in marcia dentro i pullman. Quell’esperienza è da decenni declinata a televendita: la lingua è simile, ma ha tratti più confidenziali, a volte anglofoni, e le occorre anche la carta geografica della nazione, e tante bandierine colorate. 

 

Ho affrontato la lettura di un volume su ciò che è ormai comunemente considerata una grande opera, un volume in cui tuttavia non compare mai - se non nei riferimenti bibliografici - la locuzione grande operaIl paesaggio dell’autostrada italiana è un libro commissionato da Autostrade per l’Italia. Curato da Giacomo Polin, ripercorre la storia delle autostrade nazionali evitando ogni tentazione agiografica. Tullia Iori, Antonio Rapaggi, Alberto Saibene e lo stesso Polin sono gli autori dei testi che analizzano l’autostrada da vari punti di vista: le tecniche di costruzione, le riflessioni su identità nazionale e costume attraverso il paesaggio, le suggestioni e i riferimenti all’arte, al cinema, alla letteratura, alla memoria condivisa tramite immagini d’archivio e fotografie d’autore, come quelle di Gabriele Basilico e Olivo Barbieri. Il libro è quindi la riflessione richiesta da un’azienda sul proprio operato. E tuttavia non riesco a considerare l’autostrada il simbolo dell’unificazione e non perché io sia nato con l’autostrada già fatta, tre anni dopo le parole di Moro. La ferrovia sensata - come quella che, sebbene sempre più umiliata serve l’Italia maggioritaria e paziente, dei treni a lunga percorrenza e regionali - ha unito e accompagnato la mescolanza di esperienze.

 

L’autostrada è semmai l’inizio dei soliloqui al parabrezza, del potere provvisorio dei passanti più veloci. L’avventura di un’automobilista (1958), è un racconto di Italo Calvino, contenuto nella raccolta Gli amori difficili. Un uomo guida mentre piove, di notte, “nella scatola d’ombra che i fari si portano dietro e nascondono.” Il paesaggio modificato e il mondo dei segni incontrano la psiche e, con essa, “fanno sprofondare nell’indistinto il profilo dei luoghi.” Perfetto “il profilo dei luoghi” e non semplicemente “i luoghi”. L’autostrada dà l’idea di stare sul bordo, di correre lungo i margini, nonostante il tracciato dell’autostrada sia sempre al centro di qualcosa. Questa finta teorica marginalità, per quanto mi riguarda, è l’aspetto più convincente dell’autostrada. Dislivelli, svincoli, viadotti, gallerie formano un paesaggio in cui “si è passati dal film intimista ai grandi orizzonti del western”, secondo Augé. Ma lo scenario western dei vasti spazi da attraversare con un senso di conquista era applicabile all’esordio e in altre nazioni. In Italia siamo sempre più stretti, e la lunga sequenza di case, uffici, industrie, cascine abbandonate, capannoni spesso dismessi o mai utilizzati - il cui unico scopo si risolve nell’essere, semplicemente, capannoni - testimonia che un ripensamento di questo modello economico è imprescindibile. È antieconomico per lo stesso capitale non riuscire a calcolare il tempo impiegato da uomini e merci, per percorrere alcuni tratti autostradali, alle sette di mattina; e nemmeno può convincere chi spiega la risoluzione dei problemi di viabilità con nuove autostrade o con l’aumento di corsie: possiamo costruire anche cento corsie, ma prima o poi le corsie - e le auto e i camion - finiscono in una lunga strozzatura, che vanifica l’effetto precedente.

 

Per questo mi sembra perfetta la narrazione autostradale di chi, straniero, manca in questa rassegna italiana. Bruce Stevens, l’agente di commercio che attraversa da sconfitto autostrade e superstrade del romanzo In terra ostile, di Philip K. Dick. Oppure Robert Maitland, l’uomo ricco e di successo, che esce di strada con la sua Jaguar e resta intrappolato oltre il guardrail, nel romanzo L’isola di cemento, di James Ballard. Qui la sensazione di claustrofobia è totale, il paesaggio e le finzioni agresti cadono - come ha scritto Andrea Zanzotto - “falsificate e ridotte all’ingannevole replica del presepe che era”. Ballard dice che ci possiamo perfino abituare a questa claustrofobia. Dentro e lungo l’autostrada c’è tutto: noi, i resti dei nostri piccoli vettori, la vegetazione spontanea o decorativa, e gli animali quasi invisibili, che annusano i margini, in attesa della sacralità, dell’attraversamento.

 

Questo articolo è apparso su la Repubblica.

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