Eco-ribelli: c'è vernice e vernice

18 Gennaio 2023

C’è vernice e vernice. Nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1869, uno sconosciuto lanciò una bottiglia d’inchiostro contro la facciata dell’Opéra di Parigi. L’obiettivo era una grande scultura da poco collocata all’esterno dell’edificio, La danse di Jean-Baptiste Carpeaux (ora al Musée d’Orsay). Da quando l’opera era stata sistemata al suo posto, le polemiche si erano infiammate, e la stampa contemporanea le registrava sistematicamente: il problema erano i corpi femminili nudi e – come non bastasse – impegnati in una danza eccitata (e, agli occhi di molti, troppo eccitante). 

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Qualcuno propose di coprire il gruppo scultoreo così rovinato, ma Carpeaux si oppose perché voleva che l’atto vandalico risaltasse nella sua violenza. Nel frattempo, l’attenzione dell’opinione pubblica – almeno per un po’, prima che riprendessero le polemiche – si concentrò sugli esperti che proponevano ricette diverse per ripulire la pietra.

Macchie nere sulla pelle chiara delle nudità femminili: la scelta dell’inchiostro non fu per niente casuale. Un materiale ben diverso dalla vernice lavabile arancione, spruzzata a casaccio sulla facciata di Palazzo Madama, la sede del Senato, il 2 gennaio scorso, o da quella gialla lanciata domenica 15 gennaio contro L.O.V.E. di Maurizio Cattelan a Milano. Le azioni sono avvenute in pieno giorno, e gli autori, aderenti al gruppo ambientalista “Ultima Generazione” sono stati immediatamente fermati da carabinieri e polizia. 

Paragoniamo per un momento i tre episodi: inchiostro nero e gesto anonimo da una parte, colori rimovibili e assunzione di responsabilità dall’altra. Non tutti i vandalismi, o presunti tali, sono uguali. L’unica cosa in comune è la scelta di un obiettivo speciale: una scultura (allora) moderna, un edificio antico (e sede di un’istituzione come il Senato della Repubblica), un’opera contemporanea in una piazza.

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La parola “monumento” che usiamo per indicare edifici storici, statue nelle piazze, opere d’arte in spazi pubblici, ha una doppia valenza: una nitida e definibile, l’altra più sfumata e incerta. L’etimologia (dal latino “moneo”) rivela una traiettoria verso il pubblico, poiché i monumenti “ammoniscono” chi li osserva, ricordano loro personaggi ed eventi. Ma nello stesso tempo – in direzione opposta – su di essi si concentrano simboli, memorie individuali e collettive che non necessariamente sono coerenti con ciò che effettivamente è quel palazzo, quella statua, quella chiesa. I monumenti sono oggetti caldi.

Per questo periodicamente se ne sfrutta la speciale tensione latente per lanciare una dichiarazione politica che vuol essere tanto più forte, quanto più usa mezzi inattesi e non normati. Alla fine, le tipologie di questo utilizzo dell’aura dei monumenti si riducono a due. 

Nella prima è la stessa forza commemorativa o simbolica del monumento a essere attaccata: sfregiarla, distruggerla anche solo in parte equivale a negarne valore e senso. È la strada presa nell’antichità (e non di rado anche nella contemporaneità) dalla damnatio memoriae, l’obliterazione delle immagini o dei simboli di un potere sconfitto, immediatamente sostituiti da nuovi volti e nuovi segni; ed è anche la strada imboccata negli ultimi anni dalla “cancel culture”, in particolare da quelli che si sono accaniti contro immagini di questo o quel personaggio storico ritenuto degno di censura.

Ma questa strada corre il rischio dell’ambiguità e dell’opacità, affidata com’è al solo gesto aggressivo. Torniamo a Roma, ma in una notte primaverile del 1534, quando il ventenne Lorenzino de’ Medici danneggiò volutamente alcune sculture dell’arco di Costantino. Il papa disse che il giovane era l’“infamia” e il “vituperio” della sua casata; il modenese Francesco Maria Molza, apprezzato uomo di lettere, scrisse addirittura un’orazione in latino contro di lui. Non è chiaro che cosa intendesse fare Lorenzino. Si è supposto che volesse rievocare un’altra notte di distruzioni quando, nella primavera del 415 a. C. ad Atene, qualcuno se la prese con una serie di statue raffiguranti il dio Hermes, decapitandole anche quando si trovavano in spazi sacri. Era una notte importante per la città, poche ore prima che la flotta partisse per la (disgraziata) spedizione in Sicilia.

Nel caso ateniese era forse implicata una delle figure di spicco della vita politica e culturale di Atene, Alcibiade; nella vicenda di Roma il protagonista era appunto Lorenzino, che tre anni dopo vestirà i panni del tirannicida, uccidendo il duca di Firenze Alessandro de’ Medici. A distanza di secoli non abbiamo ancora capito il senso della mutilazione delle erme ad Atene o del danneggiamento dell’arco di Costantino del 1534, ma lo sfondo politico di questi gesti è fuori discussione.

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La seconda forma d’uso dei monumenti è quella che se ne serve come supporto, come base su cui impiantare un discorso antagonista. Esposto in una piazza della Roma rinascimentale, un gruppo statuario antico – forse Menelao che sorregge il corpo di Patroclo – venne battezzato Pasquino. Ecco un esempio del possibile iato tra ciò che un oggetto è, e ciò che un oggetto può diventare. La storia del Pasquino è stata raccontata di recente in un bel libro di Maddalena Spagnolo (Pasquino in piazza. Una statua a Roma tra arte e vituperio, Campisano): per anni vennero appesi alla statua testi poetici, ma pure cartelli e fogli che attaccavano apertamente i papi e la curia. La statua antica nonostante la sua frammentarietà (o proprio per questo?) diventa ricettacolo del malcontento, dello sdegno, di un dissenso che non riesce a trovare altro sfogo, o altri canali d’espressione.

A Milano succede qualcosa di simile agli inizi dell’Ottocento, quando si ripete la pratica di attaccare fogli all’“omm de preja” (uomo di pietra), una statua maschile di età romana che dal medioevo in poi era stata reimpiegata e trasformata in immagine pubblica di un vescovo (la si vede oggi sotto i portici di corso Vittorio Emanuele II). Ancora una volta un monumento che cambia significato e che, per così dire, calamita parole.

Quando nelle città non si verificano episodi come questi, si ha come l’impressione che le scritte e le parole si disperdano ovunque, come è accaduto a Venezia, dove i graffiti a indirizzo politico vanno a finire in mezzo ad altri di tutt’altro carattere.

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Anche quando non è particolarmente significativa sotto il profilo storico o storico-artistico, una sede universitaria è anch’essa un monumento: luogo di un sapere depositato nella storia da grandi e piccoli maestri. Di regola vi si addensano scritture ufficiali, come le straordinarie iscrizioni (in pietra o dipinte) dell’Archiginnasio di Bologna, l’antica sede universitaria della città. Ma nei passaggi traumatici, come quello del Sessantotto, i muri delle università italiane – sulla strada e all’interno – hanno ospitato ben altro genere di iscrizioni. Durante le occupazioni del movimento studentesco di mezzo secolo fa, le aule dell’Università di Bologna erano ricoperte da striscioni, manifesti vergati a mano, scritte con bombolette, mentre le lavagne erano trasformate in tazebao.

Una prevalenza della parola scritta sui gesti spettacolari che sembra invertirsi tanto nelle azioni della “cancel culture”, quanto nelle mosse degli ambientalisti di questi giorni. Ci sono eccezioni: alcuni mesi fa, un lungo striscione contro Ignazio La Russa è stato appeso (non a caso) davanti al Colosseo. Ma, in generale, protesta e denuncia scelgono la strada della performance, atti dimostrativi perfetti per le telecamere, ma in sé opachi finché non arrivino – solo in un secondo tempo – rivendicazioni e spiegazioni. 

Il 2 gennaio scorso, hanno fatto così gli attivisti di “Ultima Generazione”, illustrando a posteriori i sacrosanti motivi del loro gesto (la “disperazione” per i “dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico” a fronte del contemporaneo “disinteresse del mondo politico”). Ma prima avevano pasticciato in modo disordinato un po’ il portone, un po’ le colonne o le inferriate. Così a Milano, con un cambio di colore. 

Il problema è che il gesto spettacolare e la sua giustificazione restano irrelati, e nello spazio che li separa si insinuano discorsi contraffatti e, letteralmente, fuorvianti, capaci cioè di parlare di tutto meno che del problema del clima. C’è ad esempio una bella differenza tra “imbrattare le opere d’arte” di un museo e sporcarne solo il vetro protettivo. Spruzzare vernice arancione (lavabile) su Palazzo Madama è diventato così niente altro che “un’azione stupida e incivile contro il senso di appartenenza alla comunità” (Simona Malpezzi, capogruppo PD a Palazzo Madama), un atto di “vandalismo”, un “atto criminale”, uno “sfregio alle istituzioni” (Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno); i tre autori sarebbero “eco-ribelli” e “eco-teppisti”, “fanatici che usano l’ambiente come scusa per protestare” (F. Giubilei, “Il Giornale”).

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TAGGED: attivismo , ecologismo