Enzensberger: Vite brevi di sopravvissuti

23 Ottobre 2022

Il buon vecchio Hans Magnus, classe 1929, non smette di stupirsi e di adottare humor, ironia e sarcasmo per sopravvivere! 

Di recente ha pubblicato un libro composto da sessanta brevi ritratti (“vignette”) dedicati ad altrettanti scrittori del XX secolo che “sono sopravvissuti a terrore di Stato ed epurazioni, con tutte le ambivalenze morali e politiche che questo ha comportato». Lo ha intitolato Artisti della sopravvivenza (Einaudi, Torino, 2022), probabilmente perché anche lui si sente un sopravvissuto. E di fatto lo è, come tutti coloro che, anche più giovani, hanno frequentato un mondo, quello del XX secolo, dove repressione e libertà, autorità e trasgressione, memoria e oblio erano ancora nozioni in lotta tra loro. 

Certo, per chi ha conosciuto solo questo mondo, quello degli ultimi trenta, quarant’anni, in cui tali nozioni sono praticamente scomparse perché è scomparso il conflitto che dava a queste parole un senso, non è facile comprendere come siano andate le cose a molti artisti e scrittori nati tra gli anni ottanta del XIX secolo e gli anni trenta del secolo scorso. “Come sono scampati alla prigione, al campo di concentramento o alla morte?”. Come sono sopravvissuti? Grazie alla loro intelligenza? Grazie “alle loro conoscenze e alla loro accortezza”? O piuttosto grazie alla loro “ruffianeria”? O sono sopravvissuti solo per via di “fortunate coincidenze”? 

In un mondo come il nostro, in cui alla creazione è subentrato un perenne spirito ricreativo, una sorta di lavanderia dell’arte in grado di centrifugare qualsiasi opacità individuale, in cui si aspira più di ogni altra cosa a diventare finalmente “corretti”, “puliti”, “sani”, insomma degli organismi trasparenti, e in cui il tragico e il comico sono stati sostituiti dal crimine e dall’intrattenimento, la risposta non poteva che essere moralistica. E il vecchio Hans Magnus, da buon sopravvissuto, l’ha colta in flagrante: “I posteri fanno presto a sputare sentenze, definendo gli uni vigliacchi, approfittatori, imboscati od opportunisti e tributando ad altri ammirazione per la loro fermezza”.

Facile è giudicare, molto più difficile comprendere. Facile è vivere in un mondo in cui le parole non hanno più contorni, in cui si esalta l’assenza di frontiere, in cui tutto, compreso il sesso, deve essere sfocato, sfumato, flou, molto più difficile con umiltà imporre un limite e un significato storico agli eventi.  

Non è un caso se verso la fine del XX secolo si è cominciato a criminalizzare chiunque, fra gli artisti e gli intellettuali, avesse subito in gioventù il fascino di qualche regime politico, o si fosse trovato invischiato in quella che tutti gli adepti della religione del progresso chiamano con orgoglio la parte sbagliata della Storia: le opere di Döblin, Pound, Céline, Ionesco, Cioran, Malaparte, Camilo José Cela, Jean Genet, Gombrowicz (tutti autori presenti nel libro di Enzensberger, a cui si potrebbero aggiungere quelle di Borges, di Bellow e di Kundera – la lista sarebbe molto più lunga di quella stilata dallo scrittore tedesco) invece di essere interpretate attraverso la lente estetica sono state giudicate da un tribunale ideologico.

Come se il presente, in virtù del suo essere presente, avesse sempre ragione, fosse sempre dalla parte del Bene! Come se gli uomini venuti dopo fossero sempre più intelligenti di quelli venuti prima! Ricordo un amico che un giorno, verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, epoca in cui il tribunale emetteva dalle pagine dei giornali ogni mese una condanna a scrittori del XX secolo (credo che in quel momento fosse il turno di Malaparte), mi disse che tutta quella gente aveva sbagliato mestiere: avrebbero dovuto fare gli aguzzini o scavare fosse nei cimiteri pubblici. In effetti aveva ragione.

I becchini delle grandi opere della modernità erano al lavoro: tutti quei raffinati “decostruzionisti” che, in nome di non si sa quale emancipazione, di non so quale liberazione del senso, coprivano gli ossari dell’arte con valanghe di teorie allo scopo di disumanizzarla, allo scopo di rendere sempre più impossibile un legame umano tra gli individui e le opere… Non si accorgevano che così facendo avrebbero condotto l’individuo a non avere più un mondo comune? Non si rendevano conto che di emancipazione in emancipazione l’individuo si sarebbe ritrovato senza difese, senza doveri, senza alcun legame ancestrale con gli altri esseri umani, pronto ad obbedire a qualsiasi diktat disumanizzante?

Non è certo una novità. Almeno per i lettori che ancora frequentano quella terra incognita che è il nostro passato prossimo e remoto: la biografia di un autore non ha importanza, è l’opera che conta. Tutti gli scrittori degni di questo nome, antichi e moderni, classicisti e barocchi, lo hanno sempre saputo. 

Perché allora il vecchio Hans Magnus, sopravvissuto con arte alle ideologie e ai regimi del XX secolo, ha deciso di mettere insieme questi sessanta medaglioni biografici? Non avrebbe fatto meglio a dedicare un breve saggio “da leggere in dieci minuti” (Panopticon, Einaudi, Torino, 2019) a un’opera di ciascun autore prescelto?

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Ha forse smesso anche lui di pensare che ciò che sopravviverà di un autore non saranno le sue opere, ma piuttosto la sua biografia wikipedizzata? Anche lui, le bon viveur survivant, che ha attraversato il lirismo isterico della Germania degli anni trenta e quaranta del secolo scorso, si è convertito al lirismo narcisistico che da trenta, quarant’anni si respira a pieni polmoni in ogni angolo di strada, per il quale la biografia dell’autore è più importante della sua opera? 

Mah… L’opera ha a che fare con la vita di chi la crea, certo. Ma da qui a leggerla dopo aver compulsato i referti clinici, i registri della polizia segreta e le tendenze sessuali dell’autore...  Non che Enzensberger faccia esattamente questo. Per questo tipo di impresa tanto scrupolosa ci sono legioni di professori in Humanities e di giornalisti in fregola sempre pronti ad alzare qualche altarino in nome del diritto all’informazione. Tuttavia Enzensberger, pur non commettendo uno dei peccati capitali della nostra epoca, ovvero l’indiscrezione, preferisce in ogni caso la riduzione aneddotica o la testimonianza indiretta alla comprensione dell’opera, inciampando spesso, come nel caso di Céline, Malaparte, Cioran, Brecht in giudizi di condanna. Insomma, anche il vecchio Hans Magnus, in sintonia con il tribunale ideologico che da trenta, quarant’anni vigila sulle nostre scelte estetiche, ha redatto la sua lista nera.   

Che dire ancora? Beh che negli ultimi tempi gli scrittori sembrano essere stati contagiati dal virus che da qualche decennio ha infettato i loro lettori. Succede infatti che si ammalino gravemente e che mostrino il decorso della loro malattia in una serie di video; o che si innamorino e postino in rete le foto della loro nuova fiamma; o ancora che incappino in una depressione e scrivano nel loro blog allarmanti richieste di aiuto. Lo fanno per dovere di cronaca? Perché se non si mettono in mostra temono di non esistere? O forse l’esibizione dei loro peccati e delle loro debolezze fa parte di una strategia di mercato? I lettori biofiliaci hanno infatti, secondo le case editrici e i pubblicitari, il sacrosanto diritto di conoscere fin nei minimi dettagli la vita dei loro idoli. Si tratta di business, o semplicemente la vergogna, il pudore e la discrezione non fanno più parte della scala dei sentimenti umani?  

Quanto a me, credo che l’opera influenzi chi la scrive, l’autore, che, come l’etimologia afferma di straforo, è “colui che aggiunge”: aggiunge qualcosa a quello che c’era nel mondo. Da ciò due corollari: il primo è che la sua “aggiunta” è almeno onesta perché per compierla è costretto a sottrarre una gran parte della sua esistenza al mondo (l’opera non trasforma il mondo, non lo cambia, ma trasforma e cambia, quando ci riesce, coloro che ci vivono); il secondo è che, influenzato da quello che scrive, l’autore tende a far coincidere la sua etica con la sua estetica. Per questo la sua vicenda biografica è del tutto superflua: non aggiunge niente al mondo, sia che l’autore abbia frequentato per tutta la vita coppie di transessuali, sia che abbia eretto un monumento di carta alla fedeltà coniugale.

Mentre leggevo i ritratti dei sessanta scrittori raccolti dal vecchio Hans Magnus nel suo libro, nati tra gli anni ottanta del XIX secolo e gli anni trenta del XX, appartenenti tutti a quella che chiamo prima Modernità, mi chiedevo se i temi, le idee, le citazioni, le battute che vi sfilavano facevano parte del mio mondo, o se invece erano stati seppelliti sotto un chilometro di “post-verità”, come oggi dicono quelli che la sanno lunga. Cioè, in pratica, di false verità. Di verità a cui si aggiunge il prefisso “post” perché non si è in grado di afferrare l’irruzione di una nuova realtà attraverso la creazione di un nuovo vocabolo o peggio, perché si desidera semplicemente intorbidare le menti. Enzensberger, a differenza dei suoi colleghi più giovani, ne ha viste troppe per lasciarsi abbindolare da tutti i “post”, “neo”, “trans” che affibbiamo a qualsiasi parola: “transavanguardia”, “post-umanità”, “post-letterario”, “post-comunismo”, “post-fascismo”, “neo-liberismo”, “neo-umanesimo”, “transculturalità” e così di seguito, ad libitum, fino alla fine della Storia…

Enzensberger è un saggista: sa che non è necessario essere filosofi o scrivere trattati per esplorare i temi dell’esistenza e della società in cui si vive. Bastano, dai tempi di Montaigne, come lui stesso ha affermato, “piccoli testi”. È consapevole che in un’epoca di intelligenze specializzate, gli scrittori degni di questo nome cercano di mantenersi dei non-specialisti, spingendosi nella direzione di una via mediana alla coscienza che sia alla portata di tutti.  Sa che i nostri poveri suffissi posti davanti a una moltitudine di parole note rivelano sì la necessità di qualcosa di nuovo, ma una necessità non supportata purtroppo da un vero coraggio di inoltrarsi nell’ignoto.

Se non troviamo le parole per dire porzioni di realtà che ci sembrano nuove, ciò significa solo due cose: che non abbiamo rischiato abbastanza la pelle o che quelle porzioni di realtà sono state già scoperte e che stiamo solo rifacendo il verso a chi ci ha preceduto. Credo, e sono certo che il vecchio Hans Magnus sarebbe d’accordo con me, che questo spreco di “post” e “neo” riveli anche un’altra cosa: la nostra resa, questa sì “post-storica”, a concepire come valore la continuità della Storia, la nostra totale perdita di fiducia nel passato come nel futuro e di conseguenza nella possibilità di ritrovare nell’uomo del XXI secolo caratteristiche e costanti dell’uomo non solo del XIX e del XX secolo, ma di tutti i secoli precedenti. 

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