Friuli e memoria del terremoto. Dialogo con Esther Kinsky

11 Giugno 2023

Ci sono luoghi dell’anima che chiedono di essere raccontati. Anche quando l’anima di quei luoghi è oscurata da ricordi dolorosi, è straziata da ferite che faticano a rimarginarsi. Ma come diceva lo psicoanalista James Hillman, nel suo libro Le storie che curano (Raffaello Cortina Editore, 1984), è necessario lasciare che la narrazione fluisca, intrecci la memoria con l’invenzione, come avviene nei migliori capolavori della letteratura. Da lì, poi, potrà esondare, debordare, proseguire oltre i confini stretti del libro.

Non c’è dubbio che il Friuli, per tutte le genti e le storie che lo hanno attraversato e abitato, sia un luogo dell’anima. Ma da 47 anni, ormai, sulla memoria collettiva di quel microcosmo grava il peso di un ricordo che non si può cancellare. 

È legato al terribile terremoto del 6 maggio 1976. Quando, alle 21 e 12 secondi precise, una scossa di magnitudo 6.5 della Scala Richter deflagrò come una serie di bombe atomiche. Riducendo intere cittadine e paesi a un cumulo di macerie. Seminando distruzione e morte in un’area dal fascino antico, sospesa tra le montagne e la pianura che sconfina verso il Mare Adriatico.

In uno splendido romanzo della Premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk, Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (Nottetempo 2012, Bompiani 2022), uno dei personaggi dice: “Una cosa è certa: queste case non ci saranno più, il mio sforzo è insignificante, sta su una punta di uno spillo, proprio come la mia vita. Dovremo ricordarcene sempre”.

Ed è proprio in quella direzione che si sono mossi i friulani, dopo la tragedia del 1976. Legando il ricordo del disastro, che non sbiadisce mai, alla voglia di ritornare a vivere. Alla necessità di rimettere in piedi al più presto i loro paesi, le case sbriciolate dalle scosse sismiche, un progetto di futuro da realizzare in comune.

 “Il Friuli ringrazia e non dimentica”, dice uno slogan che si rinnova ogni anno il 6 maggio. E in quelle parole c’è tutto un mondo ferito, riconoscente per l’aiuto ricevuto, eppure cristallizzato nel ricordo.

Perché l’urlo primordiale che la Terra lasciò esplodere dalle proprie viscere, nella notte del 6 maggio 1976, è impossibile da dimenticare. Ne è testimone una scrittrice che da qualche tempo trascorre almeno sei mesi dell’anno nella sua casa di Fagagna, in Friuli. Esther Kinsky, tedesca di Engelskirchen, girando per i paesi, chiacchierando con vecchi e giovani, diventando registratore vivente della memoria dell’anima di luoghi feriti e risorti, ha capito che per i friulani la realtà corre ogni giorno su un doppio binario. Parallelo a un passato che non vuole sbiadire. Ai ricordi che pesano come un tormento profondo.

È nato da lì, dallo stupore per quella memoria sempre viva, dai racconti di un passato ingombrante che tallona le persone come una seconda ombra, a portarla a scrivere un libro prezioso. Che è al tempo stesso romanzo d’invenzione, approfondimento etnografico e ricerca antropologica. Ma anche raccolta di leggende e superstizioni, megafono letterario delle segrete voci che arrivano dalla Natura. Perché è nell’inquieto esprimersi di cani e pecore, galline e alberi, serpenti e api, che il terremoto ha annunciato il suo arrivo. Molto prima che la devastante scossa delle 21 e 12 secondi sbriciolasse una parte del Friuli.

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Premiata dalla Fiera di Lipsia, e poi con il Paul Celan e il von Chiamisso, Esther Kinsky è nota ai lettori italiani per due romanzi molto belli: Macchia (2019) e Sul fiume (2021), pubblicati entrambi da il Saggiatore. Adesso ritorna nelle librerie con la sua nuova opera intitolata Rombo, che Silvia Albesano ha tradotto per la casa editrice Iperborea (pagg. 273, euro 18) con grande cura e amore per le parole. Uno sguardo narrativo che parte dai dettagli più minuziosi, per poi spalancare il grandangolo sui destini di un popolo e sulla terra che abita.

Rombo allude al ruggire sordo di una voce arcana, pronta ad annunciare lo scatenarsi del terremoto, che Esther Kinsky ha preso come simbolo di quelle giornate di terrore e morte in Friuli. Lasciando che siano sette voci umane immaginate (quelle di Adelmo, Olga, Mara, Gigi, Silvia, Toni e Lina) a raccontare cos’è successo davvero il 6 maggio 1976. Storie che diventano specchio delle tantissime testimonianze raccolte dalla scrittrice nel suo vagabondare nei luoghi del sisma.

Ma Esther Kinsky non si ferma qui. Facendo convivere il linguaggio preciso della scienza e il soffio delicato della poesia, ascoltando leggende e tragedie reali, trovando una sintonia con il regno vegetale e con quello animale, la scrittrice traccia un ritratto lucido e emozionale, al tempo stesso, di una terra come il Friuli. Che ha imparato a fronteggiare la realtà più urticante, senza per questo arrendersi all’accanirsi del Destino.

“La montagna ha memoria?”, si chiede in Rombo. “Da qualche parte si conservano le impronte? I rumori, le prese incerte, salde, scivolose, escoriate delle mani, i passi strascicati, frettolosi, indagatori, gli zoccoli di animali, i frulli d’ali, i picchiettii di becchi sulla roccia. I richiami degli uccelli, le sporadiche voci umane, forse un disegno impresso dai suoni sulle superfici, finissime vene incise, scolpite dai rumori, dai versi degli uccelli che ritornano e riecheggiano perenni, prodotte dal sibilo del vento, da minuscoli rivoli di particelle sciolte che hanno seguito questo o quel richiamo, reticoli di solchi che l’aria accarezza formando un ronzio continuo che sale e scende in onde sottili, l’incessante, inaudibile, intrepido suono del ricordo”.

Il suono del ricordo, appunto. Proprio per questo il raccontare sommesso e malinconico delle voci umane non può sfuggire al confronto con gli archetipi del mistero, dell’inconoscibile, dell’angoscia provata davanti alla furia di un luogo dove si vive da generazioni. E, allora, il Rombo di Esther Kinsky fa riemergere dal buio delle leggende e delle superstizioni figure inquiete come l’Orcolat, il mostro che si nasconde nelle cavità più profonde della Terra. Insieme alla Riba Faronika, la sirena a due code che turba i sonni di molte popolazioni sparse lungo l’arco alpino centro-europeo.

Sono loro i guardiani della soglia di un evento come il terremoto che, scrive Esther Kinsky, “è ovunque”. Perché “il ricordo è un animale che latra da tante bocche”.

Quest’anno, Esther Kinsky è stata ospite del Salone del Libro di Torino, anche come finalista del Premio Strega Europeo. Abbiamo chiacchierato con lei di Rombo e di altre storie.

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“Sono arrivata in Friuli cinque anni fa – spiega –. Ho notato subito che la notte del terremoto ritorna sempre nelle conversazioni delle persone. Anche se, ormai, sono trascorsi 47 anni. Questa presenza viva, ingombrante, nella memoria dei friulani, mi ha colpita molto. Ricordavo bene le immagini dei paesi distrutti, ma non pensavo avesse lasciato radici così profonde.”

Che cosa l’ha portata in Friuli?

Avevo una casa in Ungheria che ho venduto quando è morto mio marito. Non ci volevo più andare. Mia figlia abita a Vienna, mio figlio a Londra, ma ci accomuna un grande amore per l’Italia. Il Friuli, poi, mi ha sempre affascinato perché, per me, è legato alla giovinezza di Pier Paolo Pasolini. Lo stesso sentimento lo provo per il Veneto di Andrea Zanzotto. Adesso vivo sei mesi in questa nuova casa di Fagagna e riesco anche a capire un po’ la lingua friulana.

In Rombo c’è tutto il fascino che questa terra esercita su di lei.

Il Friuli è un piccolo mondo che porta già nel tratteggio del paesaggio un forte segno di contrasto. Ci sono le montagne che incombono su una pianura larga, capace di sconfinare fino al mare. Lo stesso fascino lo provo per il Carso, quando mi sposto nella Venezia Giulia. La roccia a strapiombo sul golfo di Trieste fa spazio a immensi boschi che proseguono fin dentro la Slovenia.

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La memoria del terremoto non si cancella?

Quando è iniziato il viaggio nei paesi del Friuli, ho potuto vedere con i miei occhi quanto fossero cambiati. E, in certi casi, come restassero ancora tracce evidenti del terremoto. Devo ammettere che sono rimasta suggestionata dai racconti che mi venivano fatti usando le parole musicali della lingua friulana, oppure di quella slovena nelle Valli del Natisone.

Quando è arrivato il desiderio di scrivere?

Più mi addentravo nei racconti delle persone, nei suoni delle parole, nelle canzoni del Friuli, più forte si faceva il desiderio di scrivere un libro. Per tre anni ho raccolto materiali, suggestioni, emozioni e paure, ricordi e incubi. Poi, durante il primo periodo di quarantena imposto dal diffondersi del Covid, ho messo a punto il mio progetto di libro.

Da dove arrivano le sette voci che costruiscono il tessuto narrativo?

In quel periodo era impossibile parlare dal vivo con le persone. Perché eravamo tutti chiusi in casa. Così, ho creato sette testimoni immaginari, che potessero raccontare come avevano vissuto la notte del 6 maggio 1976. In realtà, le voci narrative sono generate da altrettanti racconti di persone vere, che mi hanno fatto partecipe della loro spaventosa esperienza.

In Rombo c’è una sensibilità particolare per il mondo animale, per la Natura.

Tutti quelli che cui ho parlato ricordavano l’inquietudine degli animali, prima che arrivassero le prime scosse di terremoto. Il latrare disperato dei cani, lo stridio esagerato degli uccelli, il muggito feroce delle mucche, il belare continuo delle capre e delle pecore. E poi, quel rombo che dà il titolo al libro. Come una maligna premonizione che annunciava la catastrofe.

Nella modernità della tragedia friulana c’è qualcosa di antico?

Volevo che le mie voci narrative formassero tutte insieme un coro, come nella tragedia classica. Che uomini e animali, alberi e elementi della Natura si incontrassero, si fondessero, in suoni e parole. Per creare una sorta di nuova lingua, dove l’umanità riesce a entrare in sintonia con il modo di esprimersi degli animali, degli alberi, del vento, del linguaggio segreto della Terra.

Una lingua che suona polifonica nel testo originale in tedesco, ma anche nella traduzione italiana?

La lingua tedesca mi ha aiutata molto nel creare questo impasto linguistico, sospeso tra realtà e poesia. E devo dire che il lavoro di traduttrice, e anche di autrice e di grande lettrice di versi, mi è servito per costruire un racconto non convenzionale. Che spero riesca a raggiungere diversi livelli di espressione.

Romanzo, ma non solo…

Questa è anche un po’ una ricerca antropologica. Mi interessa moltissimo come vivono le persone. Rimango affascinata ad ascoltare le storie di tante famiglie povere che devono affrontare sofferenza, solitudine, violenza. Autentiche tragedie che si consumano in queste splendide valli di montagna.

Pensa di scrivere altre storie ambientate in Friuli?

Adesso mi sto concentrando su un nuovo progetto. Vorrei scrivere un libro, ambientato sempre in Friuli, che racconti le donne di Verzegnis, dove nel 1879 si verificò un clamoroso caso di presunta possessione diabolica. L’anno scorso ho visto una mostra al Museo Etnografico di Udine che raccontava la vicenda delle indemoniate. Una storia che si consumò in un ambiente montano dove gli uomini erano assenti, perché dovevano emigrare per lavorare. E ritornavano solo d’estate.

Non c’è storia friulana che non abbia, dentro di sé, il richiamo a una leggenda, a un mito spesso tenebroso.

Il personaggio della Riba Faronika, la possente sirena a due code, metà donna metà pesce, è presente come leggenda sia in Friuli che nella Slavia Friulana. Ma anche più in giù, lungo l’Adriatico, o a salire verso le Dolomiti. Ed è sempre legata al terrore che incute il terremoto. Come l’Orcolat, il mostruoso essere che ricorre nei racconti della tradizione popolare. Ma potrei parlare anche di streghe, fantasmi e non morti, folletti.

La emozionano, come scrittrice, i luoghi appartati?

Sono affascinata dalle periferie del mondo. Già da bambina mi piaceva molto l’idea che bastasse attraversare il confine tra due Paesi per ritrovarsi in un contesto del tutto diverso. Perché cambiano le costruzioni, i vestiti, la cucina, le tradizioni e le parole. Trieste, per esempio, è una città italiana davvero anomala. Ha un’anima meticcia, assomma in sé molti universi, molti modi di essere. Credo che il nostro futuro non stia nel centro, nelle rivendicazioni nazionali, nei grandi agglomerati umani stretti dentro rigiri confini. Ma nella periferia.

Traduttrice, poeta, romanziera: quanto conta la lettura nel suo lavoro letterario?

Il mio modo di scrivere, di scegliere le parole e costruirle all’interno del testo, deriva dal mio grande amore per la lettura. E dal fatto che, traducendo e scrivendo versi, ho acquisito una grande padronanza della lingua. Poi, certo, ci sono gli scrittori preferiti, da cui ho imparato tanto: Franz Kafka, Gustave Flaubert, ma anche certi autori tedeschi, i poeti inglesi e italiani. Pasolini e Zanzotto sopra tutti.

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Il finale del libro è un omaggio alle persone senza nome, senza voce, ai luoghi e alle storie imperfette?

Il Duomo di Venzone è stato ricostruito quasi del tutto. Ma nel coro della chiesa si trova ora una lunga striscia di un affresco andato distrutto, ricoperto di segni come quelli che per secoli i pellegrini hanno lasciato in punti particolari dei luoghi visitati. L’immagine che costituiva l’obiettivo del pellegrinaggio è scomparsa, ma ne sono rimasti i margini. Testimonianza degli uomini senza nome, che non sapevano scrivere. Un farsi sentire attraverso il segno.

La striscia dell’affresco perduto è come un grido muto. Un potente affermare la propria presenza, che risuona da richiamo e obbliga chi passa di là a rivolgere un pensiero ai troppi morti senza nome, senza voce. Ai cittadini di una storia dispersa nel tempo di un Friuli, che, ricorda Esther Kinsky, ha sofferto in silenzio gli insulti della Storia. Senza rimuoverli dalla propria memoria.

Perché, forse, il Friuli assomiglia a Irene, una delle Città invisibili di Italo Calvino. Da lontano può sembrare un mondo arcigno, chiuso, pieno di indomito orgoglio. Ma se ci si avvicina, se si è disposti ad ascoltare le sue voci, cambierà fisionomia. Uscirà dagli stereotipi, per rivelare chi è davvero. E qual è l’anima segreta dei luoghi.

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