Indicativo presente | Duecento giorni in classe / Il telefonino. Espellere o inglobare il globale?

18 Maggio 2019

A scuola siamo pieni di tabù: innanzitutto, il corpo e ogni accenno all’affettività, guai poi se si considera il corpo come quello che è, ovvero non una parte di noi, ma il noi mente-corpo; sfiorare un allievo, accogliere un abbraccio spontaneo loro, ringraziare con un bacino o meno per un dono spontaneo di uno di loro, parlare anche di stupro quando si parla di invasioni, saccheggi e guerre; dichiarare la verità che l’amore è tutto, ovvero anche baciarsi, essere intimi, e sì, fare l’amore; dire che tutti noi in questa classe siamo figli in genere di un uomo e di una donna che una volta almeno hanno fatto l’amore nudi per farci nascere. Tabù. Terrore di denuncia. Attenzione. Stacci attento. 

 

Il dispositivo che oggi più ci allontana dal corpo, ovvero il telefonino, è un altro tabù. Tutti lo usiamo. C’è chi lo usa intensamente declinandone l’uso con le regole non scritte e sempre più opinabili della buona educazione, che si dovrebbe fondare sul rispetto dell’altro. C’è chi lo usa esecrando chi lo usa e dichiarando che lui il telefonino lo usa solo per necessità, ritenendo che il suo spazio di necessità sia semplicemente un po’ diverso da chi invece secondo lui, il puritano del telefonino, è “drogato” di telefonino e social network. I puritani poi regolarmente chiedono aiuto ai drogati per conoscere regole e tricks, perché inevitabilmente a un certo punto si rendono conto che i social network sono da tempo una condizione globale, e tenersene fuori non è più virtù, ma handicap.

 

 

Tutte le nostre virtù e i nostri difetti non sono aumentati a causa dei social network e dei telefonini, ma si sono semplicemente ambientati in un territorio molto più vasto: io posso essere sgarbato a quattr’occhi, o sgarbato in un messaggio, se non uso adeguate pennellate emotive possibili con gli emoji; quello degli emoji è semplicemente un nuovo alfabeto, e chi intende non apprenderlo intende avere una propria quota di analfabetismo sociale. Mio padre va verso gli 89 anni, e ogni giorno lotta tenacemente nell’apprendimento dei social network non perché voglia sentirsi “giovane”, ma perché essendo un tipo molto socievole sa che per non incartapecorirsi nell’isolamento senile i social sono un terminale nervosissimo di informazioni e contatti. Perché allora il perimetro esterno di ogni scuola oggi sta lottando per tener fuori i telefonini? Spegneteli prima di entrare! Se ve li vedo in classe ve li sequestro li porto in direzione e dovranno venire i vostri genitori a riprenderlo in cassaforte! Entrando in classe spegneteli e metteteli in questa scatola sulla cattedra! Poi, un professore su due dimentica di silenziare la suoneria e, mentre ha appena urlato in merito, squilla il suo di telefonino. O, mentre la Dirigente Scolastica è impegnata in un solenne e terribile cazziatone alla classe per il suo reiterato inammissibile comportamento irrispettoso, squilla il suo, di telefonino, e lei risponde e conferma un “importante” appuntamento. Qual è la trincea della scuola contro i telefonini, il digitale, la rete? Perché ci sono ormai classi di concorso per esperti di tecnologie e media e poi si continua a prendere a mazzate la palla del globale per rimandarla fuori campo? 

 

 

I laboratori “di informatica” con vetusti computer, le LIM (le lavagne elettroniche che possono andare on line anche per streaming) sono ormai il penultimo soccombere della scuola carta-e-penna al globale che non avanza, ma è già dentro l’esperienza quotidiana di tutti: professori, studenti, operatori scolastici. 

 

In una classe volevo fare la lettura integrale di un racconto contemporaneo di fantascienza di Ted Chiang, da cui è stato tratto lo splendido film Arrival di Denis Villeneuve (che pone il tema di un linguaggio e di una comunicazione universali); era in una antologia di vari racconti piuttosto costosa. Ho fatto il PDF del racconto, l’ho messo sulla piattaforma Edmodo (ce ne sono tante, e di ottime, per evitare la condivisione dei numeri di telefonini privati: ora sto usando Padlet) e ho detto che chiunque avrebbe potuto leggerlo in classe come gli pareva: sul libro se poteva comprarselo, su tablet se ce l’aveva, su telefonino. Nelle scuole statali Usa è a disposizione in classe un tablet per ogni allievo. In quella circostanza la maggior parte dei miei studenti di terza media non sapeva che si potesse LEGGERE, sul telefonino, girandolo in orizzontale e ingrandendo a piacere il testo. Dopo la prima sessione di letture in classe sono stato convocato dalla Dirigente Scolastica. “Alcuni genitori” le avevano telefonato “indignati” perché era stato permesso l’uso del telefonino in classe, e qualcuno aveva pure fatto foto e filmati in classe! (e chissenefrega? Pensai e non dissi). La dirigente mi intimò di non farlo più, e io fui costretto a fotocopiare decine e decine di pagine, scalando le fotocopie dal mio risicato ammontare di fotocopie annuale, consumando svariati chili di legno forestale; consumando tossicissimo toner della fotocopiatrice della scuola, che si logorava e costava molto in manutenzione eccetera eccetera. In questi casi, uno dei tantissimi casi in cui la burocrazia di un dirigente scolastico blocca l’apprendimento e aumenta i costi e gli sprechi, occorre fare spallucce, e cambiare scuola l’anno successivo.

 

 

Il digitale abbatte i costi, accorcia i tempi, rende molto più malleabile il lavoro in classe: se sto facendo una verifica di storia e vedo metà classe arenata sulle date, apro il mio tablet su una cronologia e la lascio a disposizione: cosa ci importa di più, che apprendano di più o che annaspino per un quarto d’ora cercando di farsi spifferare la data della bomba atomica su Hiroshima da un compagno? Arginare vuol dire bloccare i flussi di energia, curiosità e infine sapere. Se mi chiedono prima di una vacanza “prof ascoltiamo un po’ di musica sulla LIM?”, io non lo nego affatto, ma contratto che le canzoni siano scelte da uno per volta, che ci siano i sottotitoli del testo, che tutti insieme si canti e si capisca cosa racconta quella “poesia per musica” contemporanea; poi dico la mia: è un bel video? È un bel messaggio secondo voi? È musica di qualità o no? E se vogliono ballare, ballino, ballo anch’io; è un reggaeton e le ragazze sculettano? Sculettiamo anche noi maschi.

 

 

Quando faccio uno schema alla lavagna propongo: volete copiarlo o volete fotografarvelo con il telefonino? Alla fine dell’ora però, perché lo schema, mentre dialoghiamo e capiamo, è in progress; quando dovremo interromperci per la campanella, fotografate pure. Penso che la scuola debba entrare nei loro telefonini, ovvero nel loro mondo, e non si debba insistere sull’espellere dalla scuola il loro mondo. Nell’ultima uscita scolastica eravamo in un centro ippico: nei tempi morti dei trasferimenti in bus di linea lasciavo che usassero i telefonini: i maschi si ammucchiavano intorno a un giochino, e il master del gruppo chi era? Il Bisogno Educativi Speciali che in genere nelle attività didattiche è muto, inchiodato, alienato e sofferente; lì era contento di sé, raggiante, perché l’obbedienza alla programmazione del game, la necessità di stare in un percorso prestabilito risolvendo difficoltà, accendeva un’area della sua cognitività certo non creativa, ma indubbiamente per lui progressiva, soddisfacente, gratificante. Le ragazzine invece parlavano senza telefonino, o usavano il telefonino per foto e selfie.

 

Al centro ippico c’è un piccolo podio; vedo che ci salgono su e si fanno banali foto statuarie; propongo un gioco: salite, saltate giù, e mentre saltate giù vi fate una foto in volo. Hanno 11 anni, hanno il telefonino tutte da tre, ma nessuna sa che tenendo premuto il pulsante dello scatto può fare scatti a raffica, svariati frame, da cui poi scegliere il migliore. Hanno imparato a fare meglio le foto, usare meglio il device, e sono andate avanti un’ora a saltare, ridere, e conservare gli scatti migliori. Non l’ho scritto sul registro elettronico, ma è andata: ho fregato i loro telefonini, li ho inglobati in un apprendimento, e abbiamo infranto un altro stupido tabù.

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