Immortali per caso

3 Aprile 2023

Il libro di Anna Della Subin Immortali per caso (Bollati e Boringhieri, pp. 462, €29), tradotto molto bene in italiano da Francesca Pe’, offre l’occasione per una riflessione preliminare sugli studi umanistici americani. Da un lato è vero che spesso gli europei si incagliano in questioni filologiche o di ortodossia accademica talmente rigorose e tendenzialmente pretesche, che è difficile trovare una prosa saggistica avventurosa e aperta come quella della Subin da questa parte dell’oceano. Dall’altra è vero anche il contrario: che un gesto intellettuale così intraprendente, che spazia nei suoi riferimenti in tutto il pianeta e si lascia alle spalle l’eurocentrismo, lega lo sviluppo concettuale dei propri temi ad alcuni nuclei che sono diventati quasi luoghi comuni dell’accademia americana: la razzializzazione, il genere e via dicendo, per cui il problema della divinizzazione diventa alla fine una ennesima critica del dead white male, il bianco, maschio e morto eccetera eccetera, che certo è vera ma rischia a sua volta di venire ulteriormente divinizzata anche nella sua critica, di apparire cioè trans-storica, universale e a secoli futuri simile alla rinominazione dei mesi del calendario fatta dai rivoluzionari francesi.

Il bellissimo libro di E.R. Dodds del 1951, The Greeks and the irrational, si legge ancora come fosse stato scritto ieri perché il suo oggetto è davvero un altro mondo e un altro tempo; non ci sono tracce di fascismo e antifascismo, su cui l’Europa aveva finito di lacerarsi solo sei anni prima, o del confronto tra capitalismo e comunismo che in pochi anni avrebbe tirato su un muro a Berlino e determinato l’assetto dell’Europa dalle opinioni sulla cultura ai carrarmati e i missili schierati da una parte e dall’altra. Il rischio di cedere troppo alle opinioni e alle ideologie che ci circondano è di pagare il prezzo dell’attualità con la moneta del corrivo e se oggi è difficile vedere quando quest’ombra condizioni Immortali per caso, non è detto che domani non la renda più evidente.

Detto questo, leggere la prosa della Subin è un piacere. Disinvolta, curiosa, mai pretenziosa, ha la capacità di porgere il materiale delle proprie letture con la grazia di una compagna di corso piuttosto che con autorevolezza cattedratica. E questo, in un libro che si occupa di episodi storicamente importanti e che ci riguardano individualmente, perché il trascendere gli orizzonti illuministi del nostro scetticismo ci riguarda personalmente e di continuo, da quando ci innamoriamo a quando ci troviamo di fronte alla morte, è davvero importante.

L’immortalità e il divino sono intrecciate profondamente. Non è necessaria la religione per credere che l’affetto per una persona non avverta i limiti della finità, che tenti di esondare dal tempo storico in un’idea astratta e più ampia di eterno. Basta innamorarsi. Come dice l’Otello di Verdi nel primo duetto d’amore con Desdemona, tale è il gaudio dell’anima che temo che più non mi sarà concesso quest’attimo divino nell’ignoto avvenir del mio destino. O Nietzsche, che il piacere desidera l’eterno, o il pavor dissipationis et cupio dissolvi, o ancora la petite mort, riferita all’orgasmo. L’amore è da sempre e per sempre tirato di qua e di là dell’esperienza. E naturalmente, in modo quasi simmetrico, lo sgomento di fronte al cadavere di una persona che amiamo, o piuttosto che abbiamo amato e che non è più nel corpo morto che abbiamo di fronte (da cui tutte le diverse pratiche, dall’imbalsamazione al simulacrum che i romani costruivano in cera per l’imperatore, che la Subin descrive bene ma che è stato indagato anche più approfonditamente da Giorgio Agamben in Homo sacer, dove l’effigie in cera dell’imperatore veniva sciolta mentre un’aquila saliva in cielo). Ma per tenerci vicini alla bella prosa della Subin, è soprattutto lo spaesamento di fronte alla morte che segna così chiaramente l’inizio di un pensiero che trascende, quasi che la spinta affettiva con cui giungiamo a rendere omaggio a un morto lo superasse, andasse oltre, proprio come con l’amore non riusciamo a saziarci della finitezza dell’altro e tendiamo a superarlo.

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Tutto questo è il cuore del problema e Anna Della Subin non predica, racconta. Dapprima proprio la frontiera che sorge intorno al concilio di Nicea all’inizio del quarto secolo. Le divinità precristiane del mondo classico mediterraneo erano teologicamente poco impegnative. Non solo entravano ed uscivano dalla vita dei mortali con una discreta disinvoltura, ma partecipavano della nostra natura. Data la loro immmortalità dovremmo usare il presente, hanno le stesse debolezze, sono appena di un grado più astratto delle memorie che abbiamo delle persone care o dei trasalimenti erotici che ci portano oltre noi stessi. 

Qualcosa di simile sopravvive nel cristianesimo dei primi secoli, Cristo è l’incarnazione di Dio ma questa non è una novità per gli abitanti del mediterraneo, lo hanno fatto continuamente Giove e Atena, e i punti di contatto tra divino e terreno si ritrovano in molti punti, in Esiodo e in tanti altri e così intorno a Cristo nei numerosi vangeli apocrifi (in particolare, nella ricostruzione della Subin, quello di Filippo).

La vera novità è piuttosto la separazione tra la natura divina e quella umana, che è il nodo del contendere a Nicea e che arriva quando il cristianesimo assume funzioni politiche nell’Impero. L’asse si sposta decisamente verso la teocrazia. Cristo diventerà nel corso del medioevo il principio fondamentale dello stato, nel suo nome si pagheranno le poche tasse che i governi riescono a esigere, si faranno e soprattutto si faranno rispettare le leggi, si registreranno nascite, morti e matrimoni, si terrà attivo un centro istituzionale che subentrerà in modo piuttosto rapido al declino dell’autorità romana. 

Cosa ne è a questo punto del divino di cui parla Catullo (ille mihi par esse Deo videtur) o dello sguardo disperato di Didone nel IV libro dell’Eneide, o delle perorazioni di Atena alla corte di Zeus perché Odisseo possa tornare a Itaca? Cosa resta delle tante avventure e metamorfosi per cui si passa continuamente dall’umano al divino e viceversa nella letteratura classica? 

A questa trasformazione il libro di Anna Della Subin dedica alcune pagine molto belle e acute nelle primissime pagine, dedicate ai primi riti, dove individua le radici di una nostra sensibilità, o forse piuttosto della nostra perdita di sensibilità. Perché è con l’astrarsi dell’idea di Dio dall’esperienza fisica e sensuale del mondo, in San Paolo e Sant’Agostino, che si impone un’attenzione all’immaterialità del divino che assomiglia sempre più alla politica. Tanto che in molti esempi successivi, da Cristoforo Colombo al Ras Tafari etiope al generale McArthur in Giappone, la divinizzazione del vincitore, del colono, del conquistatore è tutt’uno con il potere che egli esercita. E quindi con un dominio.

Oggi potremmo dire, guardando alle guerre sparse sul pianeta, che dove naufraga la politica, la capacità degli umani di governarsi, la religione ritorna a egemonizzare le comunità. Dalla Siria a Gerusalemme, dai Talebani ai trumpiani. Ma l’organizzazione dell’immortalità in un sistema politico, che è uno degli aspetti centrali delle religioni, è un aspetto secondario del modo di scrivere della Subin. Molto più interessante, e a volte comico, è l’aspetto personale, come quando racconta la cerimonia allo stesso tempo sontuosa e farsesca del Ras Tafari, che la sera prima dell’incoronazione viene intravisto mentre ispeziona delle buche nella strada che vengono riempite prima del passaggio del corteo regale.

A questo proposito mi sono venuti in mente altri esempi: lungo la muraglia cinese ho visto un piccolo tempio dove si trovano i generali cinesi che sorvegliavano la frontiera, oppure a Venezia l’immagine di San Teodoro, che sovrasta una delle due colonne che si affacciano dalla Piazza verso il mare (a Venezia note come Marco e Todaro), che è in origine un generale bizantino, o le cappelle anglicane in Inghilterra, dove al posto dei nostri santi si trovano spesso generali con tanto di bandiere spiegate e breve descrizione dei massacri perpetrati in Africa o in India. La morte di tanti giovani in nome della patria porta evidentemente a una mitizzazione dello stato e a una divinizzazione dei generali. 

Per accogliere questa metafisica del potere, il cristianesimo man mano che l’impero romano si trasforma nella chiesa, si riempirà di funzioni amministrative. Solo dalla fine dell’illuminismo si tornerà a una separazione progressiva tra stato e chiesa, e man mano che lo stato ritorna a gestire legge, anagrafe e tassazione, la chiesa e la religione diventano una questione di fede, privata e personale, ormai lontana da quelle funzioni sociali che all’origine avevano fatto del Cristo il tramite tra la comunità e Dio.

Così alla Subin resta in mano uno strumento lucido e ben affilato per scarnare dall’idea del divino i contenuti politici di cui è portatore. Un Dio bianco in nome del quale l’evangelizzazione del pianeta ha coinciso con l’espansione coloniale e che si è affermato e continua ad affermarsi sulle tante altre idee ed etnie del divino come uno strumento finanziario, militare, teologico. 

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