Un romanzo giapponese / Kawamura Genki, Non dimenticare i fiori

25 Giugno 2021

In Se i gatti scomparissero dal mondo (Einaudi 2019, l’originale è del 2012), con un disincanto surreale che talvolta caratterizza la letteratura giapponese, dove si dà per scontato che i gatti parlino o che i sogni interferiscano con la realtà, Kawamura Genki ci sottopone una situazione drammatica che non possiamo che immaginare: come ci comporteremmo se, sapendo di dover morire a giorni, ci venisse proposto di decidere a cosa può rinunciare il mondo in cambio, ogni volta, di un giorno in più da vivere? Un gioco al massacro o una ricerca dell’essenzialità? A proporlo al protagonista del romanzo è nientemeno che il diavolo, peraltro presentandosi in abiti volutamente ridicoli – per un diavolo, si intende –, camicie hawaiane, bermuda, occhiali da sole, per questo soprannominato Aloha. Al gioco del diavolo è naturalmente sotteso, dichiarato anzi in apertura: come cambierebbe il mondo se io scomparissi? Domanda cruciale, che ognuno si è posto e si pone. Forse, sottinteso, ragione per cui si fanno cose come scrivere, dipingere, comporre.

Sembra dunque un gioco, non c’è traccia di tragicità, anzi all’inizio il protagonista sembra del tutto sciocco e superficiale. Ci si aspetterebbe ben altro. Kawamura è furbo, sa bene quello che sta facendo, per cui invita il suo interlocutore, e con lui il lettore, a cui il romanzo è indirizzato in forma di “lunga lettera”, a seguirlo “fino alla fine. Anche perché questa è la prima e l’ultima volta che ti scrivo una lettera. Sarà il mio testamento”.

 

Cosa fareste voi? A che cosa far rinunciare il mondo intero? Ripeto, Kawamura gioca con leggerezza, non si atteggia a metafisico. Prima proviamo a rinunciare al telefono cellulare. Un colpo basso per le ultime generazioni, e allusione all’ultima telefonata del condannato a morte. Proprio grazie alla scomparsa dei cellulari, al protagonista viene in mente il suo primo amore, che non vede da anni. Inizia così, in maniera imprevista, a scattare la dimensione della memoria, essenziale, evidentemente, in situazioni del genere, ma senza pesantezza né drammaticità, anzi ammantata dell’ammissione che, insomma, è vero che la colpa era stata sua, né ci aveva veramente mai pensato, figuriamoci sentirsene in colpa. Il tono è questo: “La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo”, gli dice un personaggio, e lui approva.

 

Poi è il diavolo Aloha a suggerire di far scomparire i film (ironia, perché Kawamura è anche regista e produttore di diversi film di successo), poi gli orologi... Qui entra in scena il gatto, che si chiama Cavolo, che naturalmente parla. Cavolo era subentrato a un altro gatto, Lattuga, amatissimo dalla madre e che aveva lasciato un vuoto enorme alla sua morte nell’animo di lei, che aveva però amato altrettanto anche Cavolo, ma lui, Cavolo, non se ne ricorda, non ha memoria. Poi il gatto muore, ma “pare che solo gli esseri umani abbiamo elaborato il concetto di morte” ed ecco finalmente esplicito il pensiero della morte: “Doveva essere per quello che seguitavamo a prenderci cura dei gatti, adesso mi sembrava finalmente di capire. Forse, gli esseri umani avevano cominciato ad allevare i gatti come animali domestici per arrivare a comprendere tutto quello che non sapevano di loro stessi: la loro forma, il loro futuro e anche la loro morte”. Così naturalmente non se la sente di far scomparire i gatti e rinuncia accettando di morire.

È dunque davvero l’ultimo giorno. Quale è dunque il pensiero finale? “Dicono che chi sa di morire l’indomani viva il presente al massimo delle sue possibilità. Io però non sono d’accordo.

 

Quando un uomo prende coscienza della sua morte, non può fare altro che mettersi il cuore in pace e poco alla volta creare un compromesso tra la speranza di poter vivere ancora e la certezza della vicinanza della fine. Il tutto mentre è attanagliato da piccoli rimorsi e sogni irrealizzati. A me che è stato concesso il privilegio di far scomparire qualcosa dal mondo in cambio di un ulteriore giorno di vita, quei rimorsi appaiono come un tesoro meraviglioso. Sono la testimonianza che ho vissuto. Non farò scomparire più nulla da questo mondo, né i gatti né qualsiasi altra cosa, non vorrei rimpiangerlo in punto di morte. Okay, forse un attimo prima di andarmene per sempre rimpiangerò di non averlo fatto, ma va bene così. Davvero. Del resto, la vita è piena di rimpianti. Avrei dovuto vivere assecondando le mie inclinazioni, invece non ne sono stato capace. Non ho mai nemmeno trovato il vero me stesso. Ho collezionato una quantità innumerevole di rimorsi, fallimenti e sogni infranti; posseggo una lista chilometrica di persone che avrei voluto incontrare, pietanze che avrei voluto assaggiare e luoghi che avrei voluto visitare. Morirò con tutte queste consapevolezze, e... va benissimo così. Sono contento di essere chi sono, di essere qui e non altrove”.

Dunque scrivere è questo?

 

 

La scena finale, che non svelo, sembra più un ricominciamento che una fine.

Il più recente romanzo di Kawamura, Non dimenticare i fiori (Einaudi 2021, originale del 2019), è ancora più bello, niente diavoli spiritosi, niente gatti che parlano. Anzi, una storia commovente e nostalgica fin da subito. All’inizio la protagonista sembra una madre, Yuriko, che ad apertura del libro sta correndo a casa per preparare il piatto preferito dal figlio Izumi, che sta per farle visita. Mentre si affretta per non arrivare in ritardo, si trova davanti a un piccolo parco giochi e a un’altalena arrugginita e d’un colpo parte con i ricordi in cui si perde completamente, perdendo il senso del tempo e della realtà. Izumi arriva a casa e l’aspetta a lungo invano, finché decide di uscire a cercarla e la trova nel parchetto immersa nei suoi pensieri. Ora il racconto oscilla tra i due protagonisti, a volte sembra lei, a volte lui, di fatto è il loro rapporto filtrato dall’uno o dall’altro. Il racconto è continuamente occasione di ricordi, sia dell’una che dell’altro, che si inseriscono nello svolgimento in modo naturale ma evidentemente insistente.

Il fatto è che, come si scopre, Yuriko comincia a soffrire di Alzheimer, pian piano si perde in ricordi lontani nel tempo, non riconosce più i luoghi, le persone, neppure il figlio. Quest’ultimo vive a Tokyo con la moglie e sta per avere un bambino. È cresciuto solo con la madre, mentre il padre è morto quando era troppo piccolo perfino per ricordarlo. Ora il fatto di diventare padre lo emoziona doppiamente, per così dire, ma lo intimorisce anche, perché si chiede se saprà esserlo, non avendone mai avuto uno.

 

Tutto il romanzo, senza calcare mai minimamente gli argomenti, si libra tutto su una struttura di rapporti simmetrici e opposti, intrecciati e in trasformazione: madri-figli, coniugi-amanti, passato-presente, infanzia-vecchiaia. Il racconto è bellissimo proprio perché tutto articolato sull’irruzione dei ricordi in chi, Yuriko, al tempo stesso sta perdendo la cognizione del presente e dunque non riesce a farli corrispondere a ciò che si trova davanti, o in chi, Izumi, sta pensando al futuro e si rende conto che a sua volta non può farli corrispondere a ciò che diventerà.

La tonalità del racconto è malinconica, con quegli alti e bassi che sono consustanziali alla malinconia e che ci catturano nella lettura che non vorrebbe fermarsi mai. Il romanzo pare molto diverso da Se i gatti scomparissero, ma si vede subito che in realtà gli argomenti sono gli stessi: che cosa fare di fronte all’arrivo implacabile della fine, che ruolo vi ha la memoria, quale i rapporti, perché scriverne e scrivere.

Al centro questa volta, in modo più evidente di come era nell’altro romanzo, ci sta un vuoto, un intero anno in cui la madre aveva abbandonato senza preavviso né rimorso il figlio per seguire un uomo di cui si era innamorata. Chiuso il rapporto, tornata a casa, non ne ha mai più fatto cenno. Questo segreto era come un incomprensibile ignoto al centro della vita di Izumi. Finché uno dei giorni in cui la madre si è persa e non la si trova più, Izumi trova nientemeno che un diario che la madre aveva scritto durante quel periodo e che viene riportato per intero al centro del romanzo, riempiendo inaspettatamente quel vuoto in un momento in cui si apre però quello della madre stessa.

 

La malattia infatti procede velocissima. Yuriko si perde sempre più spesso, il figlio deve accorrere, mentre la gravidanza della moglie si avvicina sempre più al termine. Un giorno Yuriko, come capita alle persone affette da simili malattie, si fissa di voler vedere i “fuochi d’artificio a metà” e non vuole sentire rifiuti. Si tratta di fuochi d’artificio esplosi sul bordo di una superficie d’acqua, fiume o lago, giocando sul riflesso che raddoppi la metà e ricostituisca delle figure intere. Metafora bellissima di tutta la situazione, vita e scrittura compresa, ne lascio scoprire al lettore la giustezza e il senso che Kawamura riesce a darle, insieme al racconto di ciò che accade la sera, evidentemente ultima, in cui si esaudisce il desiderio.

Anche i fuochi d’artificio a metà sono solo una metà, naturalmente, degli altri che madre e figlio avevano visto tanto tempo prima, quando erano soli. Ecco la rievocazione del momento irrompere nel racconto con un dialogo rivelatore: “– I fuochi d’artificio mettono malinconia. Voglio dire, uno se li dimentica appena finiscono, non ricorda più colore, forma o altro. No? – Sì, forse ci si dimentica la forma o il colore, ma non le emozioni provate durante lo spettacolo o la persona con cui li si è visti… Non trovi?”

Yuriko muore, Izumi diventa padre. Pura simmetria? No, come in Se i gatti scomparissero, non è così semplice, o forse sì: sì, perché la positività di Kawamura è trasparente; no, perché nella ricomposizione dell’unità delle due metà emerge una figura che non è quella del presente, bensì quella del passato. È il difetto ma anche il senso della memoria, al momento della morte però, non per sé stessa.

 

 

Questo è l’argomento che mi pare interessi in modo particolare dei due romanzi di Kawamura. In punta di morte la memoria non risponde più alla linearità e mescola e scambia e rovescia, riflette le metà l’una sull’altra. Il passato si confonde con il presente e già anticipa la realizzazione del futuro. La vita diventa già in un certo senso postuma, come cioè se la si stesse vedendo da dopo la morte. Kawamura ha solo 42 anni, ma ha la capacità di fare questo salto con grande equilibrio e pacatezza. Sicuramente attinge alla sua esperienza personale, ma l’originalità, ribadisco, è che non si tratta della sua situazione reale, nel senso che non sta realmente per morire, come è il caso di altri scrittori e artisti che ne hanno scritto o parlato, ma d’altro canto non la confonde con la pura paura della morte. “Postumo” indica appunto questo: il pensare dal dopo, invece che dal prima, il proiettarsi al di là e per questo non dalla paura ma dalla “figura” che si vede come completamento delle due metà. Che non è altro che la vita stessa, ma vista diversamente, come i gatti – ma non solo loro, anche certi artisti – forse ci insegnano.

 

Quando si parla di memoria non si può non pensare a Proust, ma chissà se qualcuno ha letto Alla ricerca del tempo perduto in questa chiave, di uno scrittore che stava per morire. Sicuramente, ma in che senso? Colgo lo spunto da un altro grande libro sulla memoria uscito di recente, dal titolo talmente efficace da apparire come lì da sempre e al tempo stesso da aprirsi a un’infinità di significati: Posseduto dalla memoria, di Harold Bloom (Rizzoli 2020). È un progetto incredibile che il grande teorico dell’ansietà dell’influenza e del misreading, uno dei più grandi studiosi di poesia, realizza appena prima di morire a quasi novant’anni, dopo una serie di complicate operazioni che, età a parte, gli danno la sicurezza che manca davvero poco. È un libro sorprendente di un uomo sorprendente, che ricorda a memoria una quantità inverosimile di versi, che sono appunto ciò che gli viene in mente possedendolo. Una sorta di opposto dell’Alzheimer, ma un’irruzione, una memoria non della vita ma della letteratura, uno deflusso poetico invece che sanguigno, un morire di poesia.

 

Sono 600 pagine di poesie ricordate e legate tra loro in un percorso che è come una vita rielaborata al presente. Si parte dalla Bibbia, si passa a Shakespeare, a Milton, ai romantici di lingua inglese, a Whitman, ai contemporanei americani del ‘900, per finire appunto con Proust, con rimandi e intrecci che svelano come anche lo studio, stavo per dire lo studium, era sempre stato dettato dalla riflessione personale, esistenziale, dal punctum. La memoria qui ha questo senso: Bloom costruisce il suo percorso seguendo la propria memoria, seguendone il corso poetico nel doppio senso dell’espressione, che ha la poesia come argomento e che è a sua volta a suo modo poetico. Ebbene, limitiamoci per concludere alle ultime battute su Proust che fanno al caso nostro: “Pur essendo morto a cinquant’anni circa, Proust non abbandonò mai gli occhi dell’infanzia”. La memoria cioè non è il ricordo dell’infanzia, ma i suoi, dell’infanzia, occhi, il loro ritrovamento; o gli occhi della poesia, l’esserne posseduto. Come l’insegnamento dei gatti, come l’altra metà dei fuochi in Kawamura.

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