La sfilata di moda tra sfinimento e languore

8 Agosto 2022

C’è un solo spazio al mondo dove possono coesistere una titolata marching band, dei globi incendiati sospesi a mezz’aria, ologrammi e teste mozzate: è itinerante e iterativo, assume diverse forme e denominazioni, e avviluppa chi lo attraversa in un’atmosfera di esclusività. Mi riferisco allo spazio trasformato dalla sfilata di moda, il cui intento è pubblicizzare le collezioni stagionali, ma anche convincere i compratori e i giornalisti della loro validità. 

La sfilata è un evento mediatico invasivo e pervasivo che ha un impatto potente sul senso impresso alla moda contemporanea, al pari dell’opera d’arte, la cui fruizione è vincolata a determinati luoghi e occasioni, come musei e mostre. Nell’ambito degli studi accademici sulla moda, ci si è sempre interrogati sulle caratteristiche della sfilata, ma senza mai adoperare una prospettiva sistemica, almeno in Italia. Claudio Calò, per Einaudi, colma questo vuoto editoriale e scientifico con il suo libro La sfilata di moda come opera d’arte, dove chiarisce che la sfilata è molto più complessa di “una parata di modelle che camminano avanti e indietro, letteralmente in fila davanti agli occhi dello spettatore, come sommariamente indicato dal termine italiano e dall’equivalente francese défilé” (p.119). Alla stregua degli altri neologismi/forestierismi della moda contemporanea, la designazione anglosassone fashion show rende intellegibile la natura di messa in scena delle produzioni di alcuni designer che spettacolarizzano capi e accessori, condensando modi di essere e situazioni d’uso.

In quanto attività di comunicazione, la sfilata contribuisce a costruire la rete di significati di una collezione e a esplicitarne il senso tramite le interazioni con gli oggetti di moda. La sfilata di moda ha sicuramente uno o più significati, contrariamente alla loro totale negazione paventata da René Célestin di OBO – creatore e produttore di fashion show – nella testimonianza riportata da Calò.

Per via dei suoi elementi caratterizzanti, la sfilata è un testo estetico che si estrinseca come pratica performativa ipercodificata e convenzionale. La performatività di moda significa perché investe l'atto di comunicare il sistema di valori di un brand, di stati di cose o rappresentazioni di date realtà, oppure di una singola identità, nel caso della moda portata nel quotidiano, che diventa socialmente ipercodificata dai dress code imposti dalle situazioni d'uso.

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Se la sfilata è un’opera d’arte allora anch’essa produce un’aura (quella benjaminiana) che può essere percepita al meglio solo in presenza e con tutti i sensi, senza che un medium, social o tradizionale, imponga punti di vista e posizioni d’intellegibilità. A questo punto Calò si interroga sulle modalità di fruizione del testo estetico sfilata, online e offline. Chi segue la sfilata a distanza è vincolato da tre sensi, tatto, udito e vista, e solo attraverso quest’ultima può esercitare la percezione aptica – la visione tattile – poiché non può avere esperienza diretta di testura e volumi. Ciò vale anche per tutti i video realizzati per presentare una collezione, che devono necessariamente sopperire alla distanza delegando alla vista gli altri campi sensoriali. 

In merito alla fruizione della sfilata e alla sua traduzione digitale, Calò fa giustamente notare che la pandemia di Covid-19 ha solo accelerato un futuro della moda già delineato nel secolo scorso grazie alle fortunate intuizioni non di una titolata maison, ma di un marchio di intimo come il controverso Victoria’s Secret (VS), attualmente impegnato in un’opera di restyling sostenibile dopo svariate polemiche sulla mancanza di attenzione alla body positivity. Per due decadi si sono celebrate la sacralità mediatica degli angeli VS, un gruppo di corpi modello che, una volta all’anno, usava officiare la liturgia del brand durante la sfilata di presentazione delle nuove collezioni.

Come ho scritto qualche anno fa qui, il primo Victoria’s Secret Fashion Show viene organizzato nel 1995 e trasmesso in diretta sulla televisione americana, rigorosamente in prima serata, rendendo la lingerie una forma di intrattenimento di massa. Forte del voyeurismo del pubblico, VS precorre i tempi e il 2 febbraio 1999 manda in onda la prima sfilata in live streaming, durata diciotto minuti, ricordata come uno dei grandi eventi dell’era di Internet che ha visto la partecipazione di un milione e mezzo di spettatori nonostante gli innumerevoli crash dei server.

A vent’anni dal primo live streaming, nel 2019, per il VS fashion show si consuma l’atto finale: il sistema della moda è cambiato, e alla celebrazione della perfezione ottenuta a suon di digiuni e workout si preferisce l’onnicomprensività di Savage x Fenty, la lingerie della cantante Rihanna, la cui sfilata viene pubblicata per la prima volta nello stesso anno sulla piattaforma di streaming Amazon Prime Video. Cambiano i canali di fruizione dei contenuti e i modi di intendere i corpi e la sfilata deve imparare dai suoi errori.

Assistere a una sfilata è un privilegio, un riconoscimento di autorevolezza nel sistema della moda, sia in fatto di competenza esperta che di influenza sui gusti del pubblico. Per tale ragione, i regimi di visibilità della sfilata di moda vanno oltre il semplice sfoggio della novità e si intrecciano con doveri e voleri ben precisi. Chi riceve l’invito delle case di moda ha il ruolo di informare il grande pubblico oltre lo schermo, e deve condividere i fashion moment più significativi, in cambio di voli su aerei privati e costosi soggiorni a cinque stelle. La posizione elitaria comporta l’ostentazione dell’accesso a uno spazio esclusivo tramite un invito che sottintende degli obblighi contrattuali di pubblicizzazione, dress code e un certo numero di esternazioni appassionate sui social.

Il totemismo dell’invito non solo configura l’esclusività dell’evento, ma anche la sua valenza rituale rafforzata dall’incasellamento spaziale e temporale ricorrente, che ricorda celebrazioni religiose del calibro di matrimoni e funerali, perché, come suggerisce Hanya Yanagihara, scrittrice e caporedattrice del T: The New York Times Style Magazine, è “necessario il permesso di partecipare”. In effetti è accaduto pure che una sfilata abbia coinciso con un estremo saluto, come il primo dicembre 2021 a Miami per la presentazione della collezione maschile SS 2022 di Louis Vuitton, firmata dal compianto Virgil Abloh.

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La grandiosità dell’allestimento ha commutato l’impronta lasciata nel sistema della moda dal designer, resa imperitura da una sua gigantesca statua con lo sguardo rivolto al cielo, dove dei droni hanno formato la frase “Virgil was here”, per celebrarne l’essenza immanente. Abloh, da tempo malato di cancro, probabilmente sapeva che il fashion show in questione con buone probabilità sarebbe stato postumo, e l’ha prodotto pensando a un indimenticabile commiato.

Chi configura la sfilata dietro le quinte e in “passerella” contribuisce alla rappresentazione di un certo modo di essere che si estrinseca nella forma assunta dai corpi. Le modelle devono trasmettere sicurezza e il sentirsi a proprio agio nei capi che indossano, difatti, come riporta Calò, vengono istruite sul portamento, sull'espressione del viso, e il modo di camminare. Nonostante sfilare equivalga a garantire la massima visibilità, modelle e modelli non devono mai guardare il pubblico sostanziando con il loro sguardo la teca di vetro che si erge attorno all’oggetto musealizzato, messo in mostra, vicino nello spazio e nel tempo, ma distante in quanto appartenente a una dimensione onirica, in bilico tra realtà e immaginazione.

La moda è sì un’espressione di questo mondo, ma la sua narrazione si esplica in un livello iperreale, superiore e sacralizzato rispetto al mondano inteso come vita terrena, quotidiana. La barriera invisibile viene attualizzata da corpi in movimento, da una camminata decisa e dalla gestualità, elementi che dimostrano la relazione simbiotica tra modella e oggetto di moda, perché è il corpo che performa il vestito e non viceversa. 

Certamente i corpi delle modelle sono materia plasmabile e mutevole, perché, relazionandosi con stili diversi interpretano altrettanti ruoli e sentimenti. Nel caso delle top model non si verifica una completa proiezione nel corpo ideale della collezione poiché le loro individualità sono sempre riconoscibili, strutturando la produzione e la fruizione del segmento di cui sono protagoniste, in genere l’apertura e la chiusura.

Nel gioco di ruoli e sguardi la prospettiva in prima persona delle modelle è sicuramente quella più di difficile accesso in quanto focalizzata direttamente sul sentire. Ciò non toglie che nel novero delle sfilate non ci sia anche un esempio di spettacolarizzazione dell’esperienza in prima persona come accaduto al museo Tate Modern di Londra il 17 febbraio 2013. Quel giorno si è tenuta la sfilata di presentazione della collezione Unique A/I 2012-13 del noto brand fast fashion britannico Topshop, che, forte della partnership con l’ormai estinto social network Google+, ha organizzato un live streaming per mostrare non solo gli abiti, ma anche la passerella vista con gli occhi delle top model coinvolte.

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Cara Delevingne, Jourdan Dunn, Rosie Tapner, Ashleigh Good sono state dotate di una model cam, una piccola telecamera inserita nei capi e negli accessori indossati per condividere con il pubblico la passerella, proiettandone il simulacro nel qui e ora della sfilata. La strategia transmediale ha dilatato il fashion show nei giorni precedenti e successivi, tramite contenuti di contorno per aumentare l’immersività dell’esperienza a distanza con l’obiettivo di riscrivere il futuro del fashion show insieme alla comunità web-based dei clienti.

Trattandosi di capi accessibili anche dal punto di vista economico si è puntato all’abbattimento quasi totale dei confini attoriali, spaziali e temporali, per rafforzare l’effetto di senso di interazione corporea con gli oggetti di moda.

L’attenzione per l’esperienza “a distanza” e la pluri-localizzazione della comunicazione di moda ha determinato le origini della settimana della moda, una creazione americana risalente al 1943, quando l’addetta stampa Eleanor Lambert l’idea per ovviare all’impossibilità di spostarsi a Parigi a causa della Seconda Guerra Mondiale. La Press Week di Lambert ha avuto il duplice merito di spostare il focus dalla supremazia delle maison parigine e di evitare il blocco dell’industria di moda, non auspicabile in tempo di crisi, riuscendo ad attirare l’attenzione di riviste legiferanti come Vogue America e Harper’s Bazaar, che smettono di occuparsi esclusivamente di made in France. Alla settimana della moda di New York segue quella di Parigi nel 1973, poi Milano nel 1979 e, infine, Londra nel 1984. Le quattro città sono ancora oggi denominate “Big Four” e il loro calendario di eventi si sussegue in un ordine cronologico prestabilito.

A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta anche altre città decidono di organizzare le proprie settimane della moda, ma è dal Duemila che tale pratica si instaura nella maggior parte del mondo, e, addirittura, alcune fashion week sono dedicate a categorie merceologiche specifiche, come i costumi da bagno a Miami e la moda ecologica a Portland. In Italia, la prima sfilata di moda collettiva al di fuori di una maison è attribuita a Giovan Battista Giorgini, nobile fiorentino, che il 12 febbraio 1951 raduna nella sua casa i più famosi stilisti italiani per il First Italian Fashion Show, organizzato per i compratori americani. L’anno successivo Giorgini replica al Grand Hotel e due anni dopo l’evento trova casa nella sala bianca di Palazzo Pitti, uno dei luoghi emblematici della moda italiana, dando vita a una tradizione ormai consolidata.

Risulta palese che la sfilata ha dei tratti invarianti trasversali a epoche e marchi, che Calò sintetizza con tre macrocomponenti: l’oggetto dell’esibizione, l’ambiente e il pubblico. Se oggetti di moda e pubblico costituiscono solo alcuni “dei molti veicoli della storia” che portano avanti una narrazione identitaria, ciò che veicola il messaggio è l’ambiente. Calò, argutamente, ci fa notare che in determinate sfilate la location è il messaggio, specialmente se si tratta di collezioni cruise o di grandi eventi poco sostenibili che richiedono uno spostamento massiccio di risorse e persone. Alessandro Michele per Gucci e Maria Grazia Chiuri per Dior spesso hanno scelto i luoghi dei fashion show per ragioni affettive, come nel 2019 i Musei Capitolini della natia Roma per il primo, o, nel 2021, la Puglia, terra delle origini per la seconda. 

A volte determinati luoghi diventano teatro di sfilate perché considerati di moda poiché origine di flussi culturali e mediatici come lo è attualmente la Corea del Sud dell’Hallyu con i BTS e Squid Game. È significativo vedere che nel giro di pochi mesi, tra fine 2021 e aprile 2022, si sono tenuti due grandi eventi firmati Burberry – all’isola di Jeju – e Dior, presso la Ewha Womans University di Seoul. 

Spazi e tempi di moda sono volatili e arbitrari, si avvicendano, inesorabili, fluidificando sensi, significati e generi. La moda risucchia risorse e spinge i consumi all’estremo (si veda il suo potere inquinante), sfasciando e sfiancando le idiosincrasie della società, come mostrato dalla sfilata “Deliverance” per la collezione SS04 di Alexander McQueen dove si cita la maratona di danza del film di Sydney Pollack They Shoot Horses, Don't They? (Non si uccidono così anche i cavalli?, 1969).

Facendo danzare sino allo sfinimento i suoi modelli McQueen afferra l’essenza della moda: effimerità che causa un continuo languore, causato da una opprimente sensazione di inadeguatezza (fisica, economica, sociale, affettiva…) da attenuare con oggetti che trasformano la materia imperfetta dell’essere umano, provocando un sollievo momentaneo, stagionale. 

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