La yerba mate che non ti aspetti

11 Dicembre 2022

Con il passare degli anni ci piacciono di meno le novità. Tendiamo a consolidare vecchie amicizie, a frequentare gli stessi posti, a mangiare gli stessi alimenti. 

A mia nonna piaceva vivere da sola nella sua vecchia casa, attardarsi nelle faccende che lei riteneva più opportune, distendersi e levarsi secondo le sue abitudini e infine mangiare quel che le pareva più adatto. 

La mensa, per lei, doveva essere prima di tutto formata da prodotti del suo orto, della sua terra, delle sue bestie. Al limite si potevano accogliere sulla méisa, pietanze provenienti da vicini o parenti, gente conosciuta e nota per livello di igiene e grado di onestà nella coltivazione o nella preparazione di un alimento.

Disdicevoli erano i prodotti della bottega, fatto salvo lo zucchero, il caffè, la pasta per il brodo, il sale. Deplorevoli tutti i prodotti inutili, come gallette, affettati, scatolette. 

Surgelati, creme, intingoli già pronti, dolciumi elaborati e liquori erano, semplicemente, vitiperi, sostanze immonde, da non accettare non dico come nutrimento, ma neppure in casa.

Da bambino passavo buona parte dell’estate con lei facendola ammattire, come i bimbi usano con le nonne. La seguivo nei vari mestieri di casa, mangiavo con lei e talvolta la osservavo mentre la sera, un po’ appesantita da un pasto più ricco del dovuto, si apparecchiava un mat.

Un pentolino d’acqua sul fuoco della stufa (ad agosto, la stufa? Alla sera ci vuole!) poi un bicchiere dove porre una cannuccia metallica, poscia un buon cucchiaio di erba secca tritata, un poco di zucchero. Quindi si vuotava l’acqua bollente e si attendeva. Il nonno suo marito, buonanima, metteva una nocciola di brace sullo zucchero, per caramellarlo e avere un aroma in più.

Conoscevo il rituale, era frequente in quella casa come in quelle dei parenti delle case vicine dove rovistando tra le stoviglie si poteva agevolmente trovare una bumbiggia, la caratteristica cannuccia metallica utilizzata per sorbire il mat dal bicchiere; si può dire che in tutte le case di Giusvalla ci fosse almeno una bumbiggia, e in ogni casa consumavano più o meno frequentemente il mat.

Lo davo per scontato, da bambino: quell’infuso doveva essere roba locale, prodotta in zona. Non mi avevano incuriosito, evidentemente, le scritte sulla confezione: “Yerba mate, Cruz del malta, desde 1874 con la misma calidad”. 

Ci sono voluti anni per incontrare un parente figlio di emigrati in Uruguay che mi svelasse un’evidenza nota al resto del mondo: il mate è bevanda caratteristica sudamericana, è un infuso di foglie di arbusto essiccate. La pianta si chiama ilex paraguaiensis, si beve per via, in casa e al lavoro, tenendo sotto il braccio un thermos di acqua calda, da integrare il consumo.

Non è difficile trovare fotografie di grandi personalità mentre bevono il mate: da Gardel a Che Guevara, fino a papa Bergoglio, tutti personaggi che hanno a che fare con il Sudamerica. 

Ma mia nonna cosa aveva a che fare con l’America latina? Come poteva un alimento tanto esotico entrare nel novero dei prodotti ‘suoi’, quasi fosse un prodotto del suo orto?

Giusvalla è un paese dell’entroterra di Savona. Poche centinaia di abitanti, sparsi fra i boschi che circondano le quattro case e la chiesa. Non è mai stata terra ricca: come tutto l’Appennino savonese si sconta la vicinanza al mare, senza averne la vista o l’accesso diretto. Le cime, alte fino agli Ottocento metri, raccolgono la gran massa d’aria umida del Tirreno che si scontra con le masse continentali, provocando un clima umido, con inverni freddi e lunghi. I boschi sono una risorsa importante: a poca distanza c’erano le ferriere, le vetrerie. La campagna è povera: non ci sono pascoli. Ogni cascina inventava giorno per giorno le strategie adatte per sopravvivere mescolando orto, legna, lavoro ‘a giornata’, brevi migrazioni interne per inseguire le stagioni delle olive, della cavatura delle fasce in Riviera, della mietitura del grano in Piemonte. 

Dopo la Francia, che si può raggiungere anche a piedi, qualcuno scopre l’emigrazione d’oltreoceano. L’America è una grande terra piena di possibilità, e il sogno che si va formando è quello di emigrare, raccogliere una grande fortuna e tornare, per vivere da padrone sulla propria terra. Gli esempi non mancano: nella stessa chiesa parrocchiale, all’ingresso, c’è una piccola lapide che ricorda l’acquisto dei banchi da parte di un cittadino di Giusvalla emigrato a Montevideo, così i contadini recandosi a messa avevano davanti agli occhi il segno tangibile della fortuna fatta da un concittadino. 

Pochi anni dopo il sacerdote Pietro Massimelli annotava sul registro parrocchiale:

“Vi è molta emigrazione a Montevideo e a Buenos Aires. La sola famiglia Salvo (12 membri) emigrò in massa a Rosario Santa Fè. È la famiglia che per voto ha fatto costruire e ha ornato la cappella dedicata a N.S. di Lourdes nella chiesa parrocchiale. […] Tornando all’emigrazione nell’ultimo censimento si contavano circa una novantina di Giusvallini residenti all’estero. Una trentina sarà emigrata nell’ultimo triennio”.

Resta da comprendere come una consuetudine alimentare abbia seguito i migranti sulla strada del ritorno. Il prezzo, la conservabilità e la facilità di preparazione devono essere stati alla base della diffusione di questa bevanda. In effetti per i contadini le erbe selvatiche erano da sempre una risorsa supplementare: soprattutto in Liguria c’è un largo uso di erbaggi nelle ricette di Quaresima, quando ormai non ci sono quasi più scorte, e nell’orto cominciano le semine. Ovvero le erbe sono utili anche per curare, gli infusi in acqua calda diventano un sistema per ammollare pane o gallette troppo secche per essere consumate senza denti.

Ma non basta ancora: deve esserci un valore superiore, intrinseco, in quel rituale di preparazione, in quella cannuccia, nella possibilità di aggiungere a piacere acqua calda e sorbire quel nuovo sapore. Il gusto del mate doveva riportare ad esperienze esotiche, al gusto di una giovinezza giocata per mare e in terre sconosciute, ricche di lavoro, cibo e possibilità.

Paola Corti in un articolo per la Storia d’Italia Einaudi riporta un memoriale di un piemontese emigrante in Argentina nel 1907: “Fui assunto nella fattoria dei Siciliani, gente molto allegra amante delle feste. Ogni domenica per pranzo veniva arrostito un maiale, un agnello e un vitello. (…) Il tutto era annaffiato di “mate”, bevuto alla bombigia secondo l’usanza argentina.”

Eccolo, il mate, comparire nel contesto del lavoro e dell’abbondanza. Ricordiamo che la dieta quotidiana dei contadini era monotona e costituita da polenta, castagne e pane. La carne era cibo delle feste o per malati gravi. Passare quindi da un’alimentazione tanto povera di proteine a una così ricca deve aver lasciato il segno, un segno che valeva la pena ricordare tanto nelle parole, da ripetere come storie la sera in veglia, intorno al focolare, quanto nelle consuetudini, perlomeno quelle che si potevano permettere e che anzi si ritrovavano gradite e fruibili anche da coloro i quali non erano stati in Sudamerica.

La storia degli uomini e dei sapori che si spostano con loro non è finita: quali saranno i gusti che si inseriranno nella nostra storia, nelle nostre tradizioni? Forse pietanze e condimenti dal mondo arabo, dall’Asia, nuovamente dall’America Latina. Quali dall’Italia si trasferiranno, volontariamente o meno, all’estero e seguendo quali meccanismi?

Oggi tutto è reso velocissimo dalla Rete. Una ricetta, un metodo di preparazione o conservazione di un cibo viaggia alla velocità della luce attraverso il globo, pronto ad essere contaminato e riscritto in migliaia di modi diversi. Però gli uomini non hanno smesso di viaggiare, portando con loro poche cose, lo stretto indispensabile. Recando dentro di loro il bagaglio di conoscenze ed esperienze che servono per mantenere un legame profondo, saldo, con la propria patria: la speranza di un ritorno, il valore dell’identità.

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