L'astronauta alieno e il Castello di Rivoli

18 Luglio 2022

La “Manica lunga” del Castello di Rivoli è come un enorme dirigibile squadrato di oltre centoquaranta metri, atterrato sopra la collina accanto al castello. Lo fece costruire nel Seicento Carlo Emanuele I, per metterci la sua pinacoteca. Oggi, dopo secolari traversie, racchiude lo spazio espositivo più insolito del Museo. E in questi mesi concentra il nucleo più esplosivo della mostra Espressioni con frazioni, ideata dalla direttrice Carolyn Christov-Bakargiev, una curatrice di grande autorevolezza, che nel 2019 ha vinto l’Audrey Irmas Award, il più importante premio alla carriera curatoriale a livello mondiale.

La mostra, che fa parte di una serie accomunata dal termine “espressioni”, è quasi impossibile da definire, tanto che sarebbe stato più appropriato un titolo come “Espressioni con-fusioni” (dove “confusione”, come vedremo, non ha necessariamente un significato negativo). Questa confusione creativa e disorientante sembra accordarsi con l'idea di un'estetica “inclusiva”, teorizzata dall'ultimo libro di quel geniale imbonitore di idee alla moda che è Nicolas Bourriaud: Inclusioni. Estetica del capitalocene (Postmedia, 2020): un'arte, cioè, che detronizza il soggetto e mette in evidenza un ecosistema creativo e rizomaticamente disperso, solidale e sostenibile, una nuova alleanza tra culture tecnologiche e “primitive”, tra antropologia, biologia e geologia che riesca a compensare la logica di sopraffazione dell'Antropocene.

Di quest'arte inclusiva ci sono notevoli esempi in questa mostra, come i lavori di Agnieszka Kurant riuniti in Crowd Crystal (che risuonano con quelli di Anicka Yi in Metaspore, esposti all'Hangar Bicocca di Milano), nei quali l'interesse visivo si accompagna a una notevole ricerca concettuale; sorprendenti ad esempio le due sculture ottenute levigando in alcuni punti grossi grumi “fossili” di materiali di scarto, contenenti strati di vernici. Ma ci sono anche opere di più immediato impatto emotivo come ad esempio l'intensa installazione di Grada Kilomba, ispirata alla tragedia della tratta degli schiavi; o quella, diversissima, di Ed Atkins a Villa Cerruti, che fonde immagini virtuali ed emozioni realissime.

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®andreaguermani.it

Ci sono poi interessanti sotto-mostre come quella dedicata a un'inedita storia della Street Art; oltre ai capolavori della collezione permanente, come la splendida sala di Sol LeWitt o quella con l'equino Novecento di Cattelan. Ogni opera richiederebbe tempo e attenzione perché possa diventare una ghianda che rinasce in uno spettatore che si fa terra, per parafrasare la poesia di Mariangela Gualtieri diventata installazione sonora in una loggia all'entrata del Castello.

Non è di queste opere, però, che intendo parlare, ma di quel nucleo esplosivo in cui la confusione arriva alla deflagrazione. Qui, accanto e dentro la Manica Lunga, sono infatti messe insieme tre opere che hanno l'effetto dei tre ingredienti della polvere da sparo: se cerchi di farle interagire – in un'idea di arte che aspiri a una qualche coerenza – fanno saltare in aria tutto.

La prima è una baracca di legno e lamiere costruita nel prato accanto al dirigibile. È la ricostruzione della casa dove l'artista aborigeno Richard Bell, presente anche nell'edizione di dOCUMENTA in corso in questi mesi a Kassel, viveva da ragazzo fino al 1967, quando fu demolita col bulldozer mandato dall'amministrazione bianca. Dentro la baracca c'è un video in cui un ragazzo cerca di fermare il bulldozer, anticipando il gesto del giovane davanti al carro armato in piazza Tienanmen, e un altro in cui l'artista psicoanalizza ironicamente una donna bianca australiana. Come confermano le altre opere dell'artista, si tratta di un'arte schiettamente politica, di un “artivista” che, più che all'arte, mi sembra interessato all'attivismo creativo e alla contestazione politico-culturale – scelta legittima, data la storia e realtà drammatica i cui vivono gli aborigeni.

Per vedere le altre due opere, salgo sulla struttura esterna trasparente, che comprende le scale e l'ascensore, ed entro a un'estremità di un lunghissimo corridoio. Mi trovo subito di fronte a un imponente dipinto astratto, opera di Julie Mehretu, prestigiosa pittrice etiope-americana: è un caos di segni gestuali neri molto aggressivi dal quale emergono schegge di colori saturi e acidi che sembrano un'esplosione di immagini digitali lo-fi; il tutto attraversato da ombre scure, fumi che emergono da macerie, forse le tracce molto sfocate di fotografie di attualità che la pittrice spesso usa come punto di partenza per le sue composizioni moderniste, realizzate con una fitta stratificazione di materiali e tecniche molto diverse. L'accostamento, sulla parete di fronte, al dipinto futurista di Giacomo Balla (Velocità astratta, 1913), conferma la sostanziale appartenenza della pittrice cinquantenne al paradigma moderno delle grandi avanguardie novecentesche.

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Beeple (Mike Winkelmann), Human ONe, 2021.

La violenza espressiva del dipinto fa pensare all'attuale guerra, anche se il titolo e la data – Orient (after D. Cherry, post Irma and summer) 2017-2020 – suggeriscono piuttosto riferimenti ai conflitti nel medioriente. Tuttavia quello che più mi colpisce è l'ibridazione, stridente come un'unghiata sulla lavagna, di quei segni neri, così materiali e reali, con i brandelli cromatici del mondo digitale: una vera e propria collisione tra un gesto da graffitista e un'incursione da hacker.

Non so se questo era l'intento di Christov-Bakargiev, ma il paesaggio ibrido e infranto di Mehretu, e l'effetto alligante che mi ha provocato, potrebbe essere un'opportuna introduzione alla terza opera, quella più spettacolare e detonante.

Mi giro e mi incammino dentro lo scafo del dirigibile. Il corridoione, con molte delle finestre oscurate e il soffitto ritmato da costole metalliche, mi appare ora come l'interno di una balena che ha inghiottito un unico, strano oggetto luminoso. Sembra una teca di vetro, grande come una vecchia cabina telefonica. Dentro c'è un uomo con casco e tuta argentata da astronauta, che cammina con un leggero effetto ralenti mentre la cabina gira lentamente su se stessa. La rotazione fa sì che lo sguardo giri attorno all'astronauta mentre questo continua a marciare imperterrito, col suo passo cadenzato e risoluto.

Mi avvicino, attratto dallo strano oggetto, e per un po' il suo fascino ipnotico mi sembra frutto di effetti speciali da fiera tecnologica: uno spettacolo fine a se stesso. Poi mi rendo conto di una cosa del tutto anomala: la cabina è dentro il nostro mondo, ma l'uomo dentro la cabina cammina in un altro mondo. Da fuori sembra chiuso in gabbia e costretto a marciare su un tapis roulant, ma il paesaggio alle sue spalle, come il suolo che calpesta, cambia continuamente. Cambia davvero, senza ripetizioni: si può guardarlo per tutto il tempo che si vuole, senza rivedere lo stesso ambiente e senza notare alcun loop perché, a quanto pare, l'autore lo aggiorna continuamente e continuerà ad aggiornarlo per sempre.

Inoltre, altro aspetto importante, se da una certa distanza l'immagine sembra tridimensionale, avvicinandosi ci si accorge che quell'uomo vive sulle superfici bidimensionali delle pareti, che sono quattro schermi sincronizzati ad altissima risoluzione. Per questo mi vien da pensare che il parallelepipedo luminoso ruotante che sto guardando sia un ibrido ancora più stridente di quello suggerito dal dipinto di Mehretu; o meglio, sia quel luogo ibrido per eccellenza che è la soglia.

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Beeple (Mike Winkelmann), Human ONe, 2021.

In questo caso, la soglia tra il nostro mondo e il mondo virtuale con cui ormai tutti viviamo parzialmente in simbiosi, quasi senza accorgercene; e forse anche – ma è una cosa ancora tutta da capire – la soglia tra il Primo Mondo dell'arte, quello che abbiamo conosciuto finora, e un Altro Mondo in cui l'arte può esser fatta di codici, algoritmi e immagini fantasma capaci di comporsi e ricomporsi ovunque, e perfino di trasformarsi ed evolvere all'infinito.

Così, pian piano, lo spettacolo da baraccone hi-tech lascia emergere interrogativi impegnativi e stimolanti. E la cabina con l'argenteo esploratore del mondo alieno comincia a irradiare sottili riverberi metaforici, che girano per la mente come i riflessi geometrici degli spigoli metallici girano sulle pareti del ventre della balena.

La prima domanda, ovvia ma inevitabile dato il contesto, è: questo esemplare fisico di un’opera virtuale certificata ufficialmente nei modi che vedremo tra poco, esposto per la prima volta in un museo, è un'opera d'arte? Di certo ha un autore, Beeple, un titolo, Human One, e una data, 2021. E chi segue le cronache del mondo dell'arte sa che l'anno scorso è stata venduta all'asta da Christie's per quasi 29 milioni di dollari.

Beeple è lo pseudonimo di Mike Winkelmann, un quarantenne americano esperto di computer graphic che aveva già attirato i riflettori dei media con una vendita ancora più eclatante solo qualche mese prima: oltre 69 milioni di dollari per il suo lavoro digitale più rappresentativo, Everydays: The First 5000 Days, un lavoro meno spettacolare di questo, ma a suo modo eroico. L'opera nasce infatti il primo maggio del 2007, quando Winkelmann si impegna a produrre un'immagine al giorno per tutta la vita e pubblicarla sui social.

Le prime erano semplici disegni a mano, poi sono diventate elaborazioni sempre più complesse di computer graphic: utilizzando una tavolozza di stili e ingredienti visivi provenienti dai fumetti, dalla fantascienza e dall'horror, Beeple inventa ingegnose e accuratissime immagini surreali che fanno spesso riferimenti all'attualità e alla satira politica. L'anno scorso ha riunito le prime 5000 immagini col titolo citato sopra e ne ha fatto un NFT.

Quest'acronimo misterioso, che si affaccia sempre più insistentemente anche nel mondo reale, è la parola magica per entrare nell'Altro Mondo dell'arte: quello dove cammina l'astronauta nella cabina-soglia, venduto anch'esso come NFT; e quello dove un'immagine digitale può raggiungere cifre che solo artisti viventi e già ampiamente storicizzati e “auratizzati” come Koons finora avevano visto.

Cyprien Gaillard, L'ange du foyeur, 2019
Cyprien Gaillard, L'ange du foyeur, 2019.

NFT sta per Non-fungible Token, letteralmente “gettone non interscambiabile”; in concreto, una certificazione digitale che identifica in maniera univoca la proprietà di un certo oggetto virtuale grazie alla sua registrazione criptata in strutture di dati chiamate blockchain (le stesse usate per le criptovalute, che però sono tutt'altra cosa). A essere comprate e vendute sono queste certificazioni che garantiscono la “proprietà” virtuale dell'oggetto, in genere un'immagine digitale di una banalità sconcertante: animaletti stilizzati, figurine buffe, spesso realizzate in molte varianti tra le quali le più rare sono anche le più ricercate e costose. La compravendita avviene di frequente in criptovalute (ma Winkelmann ha incassato dollari).

Torniamo al punto: perché l'autore delle versioni più costose e sofisticate di queste bizzarre figure virtuali è stato scelto da una delle più raffinate curatrici internazionali, che ha deciso di portare in un importante istituzione del Primo Mondo dell'arte la sua figura ibrida, con un piede nel Primo e un piede nell'Altro Mondo?

Nelle lunghe conversazioni videotelefoniche che Carolyn Christov-Bakargiev ha tenuto l'anno scorso con Winkelmann-Beeple (pubblicate sul sito del Castello di Rivoli), la curatrice suggerisce un'audace analogia tra il clamoroso exploit del grafico digitale americano e quello di un altro outsider che emerse anch'esso, all'improvviso, dal mondo della grafica, a quei tempi tutta analogica: Andy Warhol.

Per quanto appropriata per alcuni aspetti, mi sembra che l'analogia non regga. La metamorfosi di Warhol da grafico ad artista avvenne passando attraverso un paradossale punto di catastrofe. Il Warhol-grafico partiva da un materiale grezzo, la merce, alla quale applicava i suoi “maquillage” grafici, i tipici visual fatti con dot-line graziosamente retrò.

Poi, all'improvviso, con la bottiglia di Coca-Cola e con le prime Campbell Soup esposte in galleria a Los Angeles, il Warhol-artista eliminò il maquillage e lasciò nuda la faccia della merce, isolata sulla tela come un'icona: è la vita quotidiana del consumismo mediatico esposta come pura superficie, la minestra in scatola, e poi la locandina di Marilyn, che diventano pure immagine bizantine, eteree e senza tempo.

Beeple invece continua a produrre immagini e video che, per quanto sorprendenti, splatter e surreali, sono stilisticamente indistinguibili da quelle che gli vengono commissionate per i suoi lavori di grafico (come, in fondo, sono anche i tre video realizzati per Madonna e venduti come NFT a scopo benefico). Cosa dobbiamo dunque cercare nel lavoro di Beeple per trovare la potenza metaforica ed emotiva che chiamiamo “arte”?

L'audace accostamento col dipinto di Francis Bacon, Study for Portait IX, 1956-7, esposto dietro la cabina semovente non ci aiuta: non basta l'analogia superficiale con la gabbia di linee bianche che Bacon tracciava per imprigionare le sue figure; e nemmeno l'ipotesi che gli esseri umani disfatti che appaiono nei suoi quadri siano esemplari del “postumano” come lo è l'astronauta ibrido di Beeple.

Walter De Maria, Art by telephone, 1967.jpg
Walter De Maria, Art by telephone, 1967.

Per il critico apocalittico la risposta è fin troppo facile: è soltanto un effetto del clamore suscitato dall'asta milionaria, ulteriore conferma della deprecabile equazione che inquina il sistema oligarchico dell'arte: valore economico = valore artistico. Ma sarebbe ingiusto nei confronti di Christov-Bakargiev, che sicuramente detesta il mondo dei mercanti d'aura quanto il critico apocalittico e che mi sembra molto più vicina al mondo delle passioni irrazionali di Harald Szeemann.

Certo, non è facile trovare un senso, una direzione, in una scelta critica che mette insieme la pittura paritale preistorica (ci sono belle foto, in mostra, assieme al documentario di Herzog), la capanna “politica” dell'aborigeno Bell, il dipinto “novecentesco” di Mehretu e la “Cosa” di Beeple. Eppure, non posso fare a meno di pensare a quanto Enrique Vila-Matas (in Kassel non invita alla logica, Feltrinelli, 2015) scriveva di Carolyn Christov-Bakargiev, incaricata di curare la dOCUMENTA del 2013: «riteneva che nell'arte la confusione fosse una cosa veramente meravigliosa».

La meravigliosa “confusione” e la curiosità senza preclusioni della direttrice del Museo di Rivoli si vede bene anche in questa mostra, come si vede nella conversazione col giovane ruspante grafico americano. Ed è proprio in quel dialogo che, secondo me, emerge la vera novità che Human One potrebbe rappresentare: un nuovo medium e, forse, un nuovo paradigma per l'arte.

A un certo punto, infatti, Beeple accenna all'idea di fare con le sue immagini digitali un'opera materiale, una versione oggettuale che tuttavia mantenga il carattere di compito infinito che egli aveva adottato per il progetto Everydays: una specie di quadro o scultura che continui a modificarsi nel tempo grazie all'intervento ripetuto dell'autore, quasi come un essere vivente.

Human One incarna embrionalmente questa idea: ci mostra il primo essere umano che è riuscito ad oltrepassare la soglia e che comincia ad esplorare l'Altro Mondo, quello in cui l'arte forse troverà nuovi medium e inedite espressioni. Mi vengono in mente analogie di fanta-arte che mi lasciano incerto e confuso tra il pessimismo di una barnumizzazione ipertecnologia e l'entusiasmo per una futura “opera d'arte nell'epoca della creaturalità tecnica”. Penso al piccolo ologramma, visto alla Biennale del 2019, con cui Cyprien Gaillard faceva ballare l'Angelo del focolare di Max Ernst, e lo immagino trasformato in una “intelligenza artificiale olografica” come la fidanzata virtuale del Bladerunner di Villeneuve: una scultura vivente con cui interagire, il sogno di Pigmalione che si avvera.

Mentre guardo il paesaggio dietro l'astronauta argentato, che ora sembra una città bombardata immersa nella notte e attraversata da silhouette luminose di uomini armati, mi immagino Winkelmann davanti al suo computer che ha appena aggiornato la sua opera inserendo suggestioni dalla guerra in Ucraina. E mi viene in mente un'opera d'arte che ha saputo evocare, senza bisogno di costosissime apparecchiature high tech, un simile contatto potenzialmente ininterrotto tra autore e osservatore nell'istante della presenza davanti all'opera: Art by Telephone di De Maria (1967), esposto nella mitica mostra When Attitudes become Forms di Szeemann nel 1969, un semplice telefono sul pavimento con la scritta: «Se questo telefono squilla, puoi rispondere. Walter De Maria è in linea e vorrebbe parlare con te».

Eppure, a pensarci bene, anche se in un futuro forse non troppo lontano l'argenteo astronauta uscirà dalla sua cabina e mi tenderà la mano dicendo: «Hi, I'm Mike. How are you doing?», dubito che riuscirà ad avere la stessa potenza immaginativa dell'installazione “povera” di De Maria. A quel punto, infatti, saremo tutti così assuefatti che l'effetto sarà annullato. E allora, probabilmente, ci toccherà tornare a pensare cosa può essere l'arte. E a cercare altre vie per esplorare la sua meravigliosa confusione.

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