L.A.W. (Live Arts Week) #2014

9 Giugno 2014

Quest'anno ho finalmente conosciuto Gianni Peng. Volutamente non ho cercato di comprendere i suoi intenti, convincendomi che l'importante fosse farsi trascinare e sommergere in quello che ogni anno porta a Bologna durante L.A.W. (Live Arts Week), il cui titolo indica già di che tipo di “contenitore” si tratti. Se si vuole chiamare Festival, può andar bene, il formato è quello, ma più che altro è proprio una settimana, cioè un tempo presente, in cui si susseguono, s'intrecciano, si conoscono artisti visivi, performers e sound designers di varia provenienza.

 

Uno degli obiettivi della direzione artistica è la volontà di collocarsi nell'utopia. Un'utopia, di nuovo, dichiaratamente del tempo presente, ma non necessariamente del “contemporaneo”, perché anche su questo concetto il dibattito è lasciato aperto. Una serie di eventi, dunque, quelli frequentati da e con Gianni Peng, che non vuole mettere punti, non vuole stabilire confini, non ha dettami. Semplicemente crea uno spazio di condivisione, unico filo rosso tra le performances che hanno abitato il pian terreno del Mambo di Bologna, le sale del Lumière e quelle della Biblioteca di Sala Borsa.

 

L'apertura è stata emblematica di tutto il resto che si sarebbe poi visto, sentito, provato nei cinque giorni successivi. L'introduzione ad una percezione necessariamente a 360° è stata affidata al pioniere del cinema d'avanguardia, Ken Jacobs, insieme ad uno degli ospiti più attesi e più coinvolti di L.A.W., il fotografo e compositore Aki Onda. Il primo crea The Nervous Magic Lantern (da programma definito 'happening multimediale'), il secondo vi s'inserisce con un intervento sonoro dal vivo. Le immagini proiettate restano sapientemente non codificabili. Ricordano i tessuti umani, la corteccia cerebrale, ma potrebbero anche essere immagini 'in macro' di elementi della natura, o di oggetti, che però ingranditi diventano quasi paesaggi lunari che vengono sparati nella testa dello spettatore, come da una mitragliatrice, attraverso il semplice uso di una sorta di elica davanti al proiettore che crea un effetto stroboscopico leggermente rallentato, pre-cinematografico.

 

The Nervous Magic Lantern, Ken JacobsThe Nervous Magic Lantern, Ken Jacobs

 

E così si spiega il titolo (che fa parte della serie Nervous System): è il nostro sistema nervoso che riceve direttamente, come per endovena, immagini e suoni, li immagazzina perché non può fare altro che trattenerli, in qualche parte dell'inconscio, forse. Personalmente, temo di non riuscire a togliermeli dalla testa una volta che mi troverò da sola, per strada, diretta a casa. Temo che si ripresentino in forma di reazione non voluta.

Questo il mio primo impatto (per quest'anno) con Gianni Peng che, ancora una volta, ha portato il lavoro di un artista il cui prodotto non ha un contenuto su cui l'osservatore è spinto a ragionare, direi. Piuttosto è l'atto artistico a muoversi verso i presenti, indipendente da suo fautore, quanto inesorabile. Partendo da questo presupposto, l'unica opzione mi sembra quella di farmi inglobare nelle opere audio/video/performance che vengono presentate.

 

Emblematico monito di questa predisposizione mentale era l'installazione Waiting Room di Daniel Löwenbrück: una grossa scatola di legno all'interno della quale lo spettatore, singolarmente, ha vissuto una breve esperienza che è poi rimasta depositata con segni ben tangibili sia nel luogo circoscritto, che evidentemente sul corpo o nella mente del diretto interessato (dreadlocks tagliati, bottiglie rotte, polaroid di volti apparentemente stravolti, o forse solo sovraesposti).

 

Waiting Room, Daniel LöwenbrückWaiting Room, Daniel Löwenbrück

 

A monte pare non esserci un progetto sulla piega che questi momenti debbano, o possano, prendere. Una volta che la porta si chiude alle nostre spalle quello che avviene è completamente indirizzato dalla complicità (o meno) tra l'artista e il partecipante. Pura esperienza del presente, seppur circoscritto spazio fuori dal tempo. Paradosso di un utopia che si manifesta nella sua realtà più violenta e perversa.

 

Sullo stesso tempo presente si orienta anche Mette Edvardsen, performer di origine norvegese che a Bologna è ormai di casa grazie al sostegno di Xing nelle sue produzioni. Edvardsen lavora sulla parola, con la parola. Praticamente solo con quella crea spazi e situazioni. Con No Title l'artista ha occupato la sala grande del Mambo, di solito riservata alle esposizioni temporanee. Attraverso le parole ha portato il pubblico in un universo a sé, creato completamente in privazione: pochi movimenti appartenenti alla quotidianità, frasi che definiscono tutti gli elementi che sono “andati” (“gone”). Perfino lo sguardo della performer veniva rimosso, sostituito però da grandi occhi disegnati che mantengono l'attenzione sugli osservatori anche quando vengono attaccati al muro, così che l'intero Museo ci stava a guardare. In questa assenza totale di tutto il centro diventiamo noi, gli spettatori. Sempre più attivi/ati.

 

La ricerca della Edvardsen coinvolge però anche il testo letterario, la parola scritta. La performer da un po' di anni gira l'Europa con Time has fallen asleep in an afternoon sunshine, un lavoro che abita le biblioteche, come luogo prediletto per l'atto d'immersione nella lettura, come tempio del sapere scritto accessibile a tutti. La Biblioteca di Sala Borsa è, a Bologna, proprio il simbolo di questa doppia valenza: la solitudine dell'approccio al testo, ma al contempo anche l'agorà cittadina, il luogo di ritrovo e scambio. Ed è li che abbiamo potuto ascoltare alcuni libri viventi e, come nella performance, estraniarci dal contesto e immergerci completamente in un mondo altro, un'utopia parallela. Grazie ad un minimalismo volutamente rigoroso, la scoperta è di quanto spazio e tempo riusciamo a concedere a concentrazione e immaginazione nonostante le distrazioni esterne, privilegiando invece l'incontro tra le nostre percezioni e la memoria riprodotta attraverso il linguaggio verbale.

 

Time HasFallen Asleep In The Afternoon Sunshine, Mette EdvardsenFallen Asleep In The Afternoon Sunshine, Mette Edvardsen

 

Di memoria convogliata in atti performativi, si avvale anche Aki Onda. Altro artista che ha rappresentato una costante di questa recente edizione di L.A.W. e che, oltre ad aver sonorizzato le suddette allucinazioni indotte di Ken Jacobs, ha proposto anche una sua ricerca raccolta in materiale racimolato nell'ultimo quarto di secolo: Cassette Spectacle, nelle versioni #1, #2, #3. Da notare che, anche in questo caso, il titolo riassume perfettamente tutto quello che contiene la performance: lo strumento di registrazione della memoria acustica, la cassetta, e la spettacolarizzazione del suo contenuto, che altrimenti rischierebbe di rimanere significativo solo per l'autore stesso. Viceversa, la scelta dell'elemento performativo e della location “ad hoc” aprono all'autore stesso e ai presenti la possibilità di ripercorrere uno o infiniti ricordi attraverso il suono, le cui potenzialità evocative sono amplificate, o annullate, o anche solo distorte attraverso l'uso della luce, dello spazio, del movimento, dello sguardo.

Cassette Spectacle, Aki OndaCassette Spectacle, Aki Onda

 

Così, la memoria si scopre essere uno dei collanti che si amalgamano nei materiali degli artisti che hanno animato L.A.W. 2014. La memoria personale, che si apre alla collettività per arricchirla ed arricchirsi. E quelle sonora e visiva, che si fondono alla performance live riuscendo così a sfuggire al passato per tuffarsi con prepotenza nel presente. La tensione che ne scaturisce è quella di entrare nell'atmosfera e appropriarsi del mezzo che l'ha creata.

 

Non c'è da sorprendersi, quindi, se il pubblico sente la pulsione irrefrenabile di provare di persona gli strumenti ideati dagli artisti, come è successo al termine di Time Blade – Liquid Hand del duo statunitense MSHR. Non è fuori luogo la messa all'asta delle insolite sedute per accomodare il pubblico che indugiava nella visione dell'installazione Processo al Mochi, collezione di video da Youtube di Canedicoda. Così, qualcuno ha potuto acquistare un pezzo di quella memoria personale e condivisa che ha rappresentato l'intervento di Gianni Peng per quest'anno.

 

E a livello d'immagini, che cosa ci portiamo a casa? Tra le altre, sicuramente, l'ipnotico 'pas de deux' in iFell2 di Marco Berrettini, onirica rappresentazione delle mutazioni dell'interazione umana, ma anche la caccia collaborativa, alla ricerca di un'impalpabile vittoria, di Victory Smoke di Barokthegreat.

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