Le avventure di una metropoli

29 Marzo 2013

Abbiamo incontrato Maurizio Nichetti ai Frigoriferi Milanesi, in occasione della presentazione di Milano, si gira!, volume fotografico realizzato “a dieci mani” da Mauro D’Avino, Lorenzo Rumori, Simone Pasquali, Roberto Giani e Andrea Martinenghi: una sorta di viaggio nel tempo, alla scoperta delle location (o di quel che ne rimane) che per oltre mezzo secolo il capoluogo lombardo ha fornito al cinema italiano.

Uomo di cinema riservato ma dallo sguardo acuto, Nichetti ha attraversato Milano in lungo e in largo; con i suoi film ne ha saputo cogliere in anticipo i mutamenti sociali e urbani; sulla scia di una gloriosa tradizione che va da Keaton a Laurel e Hardy fino a Tati, ha raccontato le battaglie quotidiane dell’individuo contro una società sempre più meccanicistica e massificata. Parlare con lui significa insomma guardare, attraverso il prisma deformante della comicità, le trasformazioni di una città durante l’ultimo trentennio.

 

 


 

All’epoca del tuo lungometraggio d’esordio, Ratataplan (1979), ti rendevi conto di descrivere una realtà metropolitana che stava cambiando?

 

Per tutti gli anni Settanta ho lavorato nella pubblicità: Milano stava per diventare la “Milano da Bere”, stava sviluppando tutta una serie di industrie, la moda, l’editoria, le televisioni private, che erano in grande espansione e in euforia. Però allo stesso tempo c’era una città povera, la Milano delle case di ringhiera, delle persone anziane, di quelli che queste tecnologie e queste novità non le riuscivano a cavalcare. Per cui, quando io sentivo parlare di Milano come della città del business, come di una città dove nessuno aveva problemi, mi faceva ridere, perché Milano è piena di gente che ha problemi! In Ratataplan, senza volere, ho raccontato questa città “sospesa” fra la casa di ringhiera e il grattacielo... Con l’unica differenza che oggi di grattacieli ne hanno costruiti molti di più, mentre la casa di ringhiera è rimasta uguale. Io ho girato alcune scene del film nel cortile di una casa di ringhiera in via De Castillia, a Porta Garibaldi, che adesso è chiusa tutt’intorno dai grattacieli del nuovo centro direzionale.

 

 

Pensi che questa attenzione per lo spazio urbano derivi dalla tua formazione di architetto?

 

Non lo so, diciamo che c’entra il fatto che fare una casa e fare un film ha dei parallelismi molto forti, tant’è vero che io mi sono laureato in architettura facendo tutti gli esami mentre lavoravo già nel cinema con Bozzetto. Tutto quello che riguardava la gestione del cantiere, il trasporto dei materiali e il lavoro di gruppo, lo osservavo in parallelo nel cinema. Quindi i macchinisti e gli elettricisti di un set cinematografico sono come i muratori e gli elettricisti di un cantiere, fare un progetto e scrivere una sceneggiatura è uguale, tirar su dei muri e montare un film è la stessa cosa: c’è una facciata e c’è un contenuto.

 

Nei tuoi primi tre film, fino a Domani si balla! (1982) Milano è molto presente: Ratataplan e Ho fatto splash (1980) sono impensabili ambientati altrove. Invece nei successivi, a cominciare da Ladri di Saponette (1989), sembra scomparire.

 

Più che scomparire, diventa città “europea”: Domani si balla! era girato tutto in architetture che in quel momento erano all’avanguardia, perché il quartiere Gallaratese, o il municipio di Segrate progettato da Guido Canella erano degli interventi architettonici che venivano studiati nelle università, e io le ho usate come scenografie di una storia di fantascienza, ambientata nel futuro. Con Ladri di Saponette, invece, ho cercato una Milano che sembrasse neorealista, per cui in via Espinasse (nel quartiere Villapizzone) oppure in via del Progresso (vicino a via Melchiorre Gioia) ho trovato delle zone molto “anni Quaranta” e che, stranamente, sono rimaste identiche. Per esempio, in via del Progresso se butti l’occhio vedi ancora quattro inquadrature del film: nonostante il nome è rimasta molto simile a com’era nel dopoguerra!

 

La Milano di Ladri di Saponette, però, esiste solo nel “film nel film” in bianco e nero, trasmesso alla televisione. Non esiste la città degli anni Ottanta. Così come in Luna e L’altra (1996)...

 

In Luna e l’altra c’è la Milano degli anni Cinquanta, tutta girata all’interno dell’ex macello di viale Molise, dove adesso c’è Macao... Milano è una città che a saperla utilizzare si presta a degli scorci meravigliosi. Pensa ai navigli, in Volere Volare: danno alle immagini delle mani-cartoon che volano una poesia che non ti aspetteresti. O quando, nello stesso film, Angela Finocchiaro e Mariella Valentini parlano in un bar alla Cassina de’ Pomm, sulla Martesana... Sono cose che chi ha in mente Milano come luogo comune deve scoprire, però ci sono! Milano è piena di angoli di verde, con i corsi d’acqua. L’unica cosa è che, siccome è una città del lavoro, di solito si pensa a laurà...

 

 

Il lavoro è uno dei temi del tuo ultimo film (per ora), Honolulu Baby (2001), dove nella prima parte imprigioni l’ingegner Colombo di Ratataplan in una metropoli che sembra uscita da un film di Tati.

 

Io ho sempre cercato di dire: “la Milano del lavoro è questa qui”, inutile negarlo: c’è una nevrosi del lavoro, una sorta di alienazione alla Playtime. Però accanto a questo ci sono anche i barboni di De Sica che volano via sulle scope, quelli che diventano cartoni animati e quelli che possono vivere una loro favola parallelamente a una realtà lavorativa molto frustrante, come in Honolulu Baby.

 

Del resto, anche per te, come per Tati, la città non è mai una semplice tela di sfondo.

 

L’ambiente urbano è una continua fonte di gag. Il bicchiere d’acqua di Ratataplan che attraversa la città e si contamina di schifezze, diventando una pozione miracolosa, è un po’ un paradosso alla Tati, come il cortile della casa ultramoderna di Mon Oncle, che diventa una trappola per tutti quelli che ci entrano, o l’ingorgo stradale di Playtime, che nella sua alienazione diventa una giostra. Si tratta di trovare la favola nella crudeltà del quotidiano.

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