Lettere a Romeo Castellucci / L’infanzia del poeta

14 Febbraio 2014

Associo, a torto o a ragione, Raffaello Sanzio all’infanzia del poeta. Vera infanzia, s’intende, non simulata o letteraria. Con un senso naturale del gioco. Di tale sensazione nello stesso nome della Socìetas vedo un sintomo, anche se da poco sono arrivato a rendermi conto che mai m’ero interrogato sul motivo di quella loro scelta, quasi si trattasse d’un dato scontato. Forse pensavo che da ragazzi è facile dividersi in squadre e, se c’è da darsi un nome, si va diritti su quello di un numero uno.

 

Perdipiù, constatata la natura derisoriamente scolastica dell’apposizione latina, vedevo coincidere il personaggio da loro designato come simbolo con ricordi di mie passioni infantili: anche se poi ne ho diffidato, guardando io perfino con sciocca sufficienza per la perfezione che mi sembrava togliere ai suoi dipinti quel sapore che, crescendo nei decenni, sarei andato riscoprendo, per me Raffaello era rimasto un idolo dei giorni delle elementari, quando l’avevo amato in una biografia per ragazzi che esaltava il bel giovinetto urbinate prediletto da Giulio II, mentre caricava il bilioso Michelangelo della parte di cattivo.

 

Esitò un attimo Romeo, quando in un incontro tecnico per questo libro, mi sentì chiedergli imprevedibilmente le ragioni di quella denominazione, forse perché gliele avevano domandate troppe volte; ma anche perché gli restava l’incertezza su quale orientarsi tra le possibili risposte che era solito avvicendare: l’intento ironico, il gusto di andare controcorrente, o invece l'ammirazione per la coscienza della forma, sentimenti via via provati per essersi assunti, lui e tutti loro, un simbolo che non gli assomigliava, prima di trovarselo così stretto addosso da appartenervi.

 

Devo attribuire a un mio limite personale il fatto di non aver mai smesso di considerare i Raffaello dei simpatici ragazzacci? Simpatici e anche dolci, sotto una scorza di rigidezza tutta apparente. E certamente dotati di genio autentico. Lo garantisce il ricordo del loro irrompere sulla scena, di cui devo i primi segnali a Nico Garrone, in un 1981 ormai protetto dalle imbarazzanti nebbie dell’oblio, un inizio ludicamente intitolato a scontri pseudofilosofici o a immaginarie partite di calcio, da Diade incontro a Monade a Persia-Mondo 1 a 1. Io del resto li avrei visti la prima volta recitare in calzoni corti in Popolo zuppo, “spettacolo galoppante verso il panegirico delle forme e dei detti mondiali”, e poi tutti in kilt, nei Fuoriclasse della bontà, “primo spettacolo calmo”, configurare le vicende di un gruppo sardo trapiantato in Tirolo per allevare atomi di mucca, nutrendosi di succo di pioppo, destinato quindi a un gemellaggio con l’Opera di Pechino per chiudere con una rappresentazione del mitico incontro di Giotto e Cimabue. La simpatia era un corredo inevitabile della provocazione surreale compiuta con coraggio su arcadici sfondi sfigurati alla Cucchi, lasciando intuire la consapevolezza del pastiche insieme a una serietà a tutta prova, come il rigore severo che sovrintende il divertimento dei bambini.

 

Del resto anche oggi guardo con ammirato stupore Romeo svolgere da fratellone le sue funzioni paterne verso una nidiata di pargoli, significativamente inseriti nei suoi maggiori spettacoli, e in particolare negli episodi più rilevanti sul piano etico, come la ricostruzione di Auschwitz in Genesi. Non a caso una sezione non minore nell’attività della Socìetas è dedicata ai bambini, con messinscene di fiabe spogliate dagli abituali sentimentalismi e corsi teatrali per i piccolissimi spinti verso una reattiva libertà. A rendere così irresistibili nel ruolo di maestri non solo il citato Romeo, ma la sorella Claudia, teorica e titolare della scuola per “i grandi”, la moglie Chiara, preposta alla guida dell’infanzia, nonché della vocalità in generale, e il fratello di quest’ultima, Paolo (ora uscito dal gruppo, di cui è stato comunque una colonna), opera proprio l’innocenza con cui tutti assieme sono entrati nel mondo del teatro, senza dimenticare quello della scuola e dell’arte da cui provenivano, né le proiezioni verso la musica, la scienza, la poesia.

 

Invitati dal sottoscritto alla Biennale di Venezia nel 1984, i Raffaello vi portarono Kaputt necropolis, ovvero la peggiore delle loro creazioni, dove però, superati i duelli tra Claudia Virus e Chiara Interferon, o le gare di Romeo Pilota e Paolo Operaio, questi ultimi imprigionati nei sacchi, accadeva un fatto significativo. Veniva inventata una lingua, la “Generalissima”, che ambiva addirittura a proporsi come “alfabeto di tutti i pensieri possibili”, ma nella sua duplice natura di parodia di rituali scolastici e di ricerca di una chiave personale e segreta di comunicazione, conteneva un margine di verità, nella linea che avrebbe contraddistinto la compagnia: cimentarsi in giochi di sempre maggior audacia, ma crederci così fermamente da riuscire a imporre un’altra verità, che è quella del profondo, come accade d’altronde a ogni vero artista, condannato a superare le barriere del suo tempo, da Giotto a Pollock... O vogliamo citare Raffaello?

 

Da allora la traiettoria della compagnia, mai casuale, è proseguita linearmente infilandosi in cicli che non ignoravano la storia dell’umanità, né della cultura, e spostandosi di conseguenza verso Oriente, cercavano di riscriverla nella lingua del teatro. Conoscevano così la negazione della figuratività rappresentativa risalendo in Santa Sofia alla temperie iconoclasta, ma attraverso un sogno di Pol Pot che, nella perdurante ossessione di annullare le barriere temporali e geografiche, affratellava la Cambogia degli anni ‘80 alla Bisanzio di Leone l’Isaurico. E l’arte imponeva le sue ragioni alla vita, se è vero che alla primogenita di Romeo e Chiara sarebbe stato imposto il nome dell’imperatrice bizantina Teodora. Ma subito dopo quel fondamentale spettacolo, nei Miserabili i ragazzi avrebbero applicato il processo di Santa Sofia al linguaggio, minato e colpito nella fase di emissione dei suoni stravolgendo l’eloquio; e rimaneva memorabile la scena in cui il “masticatore di parole”, impiccato vivente, incarnato da Paolo Guidi, emetteva un lungo monologo costretto da un cappio alla gola, con una radicalità rispetto all’espressione di cui si vedono oggi le conseguenze, anche a livello d’immagine.

 

Ripassando all’adagio, la Raffaello accondiscende infine alla vocazione per la favola senza più cercarne travestimenti e la sviluppa su una duplice via apparentemente contrapposta. Negli spettacoli creati appositamente per bambini attinge alla novellistica a loro destinata dalla tradizione occidentale e la conduce dalla metafora a un realismo che può anche spaventare i più piccoli, tanto più che viene cancellato il diaframma difensivo del palcoscenico. Le rappresentazioni per adulti vanno invece alla ricerca di un mito da rappresentare e ipotizzano una convenzione nell’inseguimento borgesiano di un immaginario teatro sumero. Mentre la compagnia si fa tribù incamerando quietamente madri e zie, l’uno e l’altro mondo fiabesco si giovano di presenze sceniche animali, dal bove al babbuino, prima che due alani neri vengano messi al fianco (e non soltanto) dei protagonisti nudi e silenziosi, intenti a giocare con lignei feticci in Gilgamesh. E questo più che uno spettacolo è un arcaico mistero dove il ricorso alla fisicità non esclude il ritualismo e nel contempo prepara al travaglio così umano di un Amleto regredito, come l’impiccato che inghiottiva strozzandosi le proprie parole nei Miserabili già preludeva al discorso di Antonio messo in bocca a un laringectomizzato.

 

Arrivato ai classici, Romeo Castellucci - a questo punto va usata una prima persona che non scalfisce l’unità della Socìetas - affronta Eschilo o Shakespeare ma non dalla parte della tradizione, né della mera analisi della parola scritta, o della preoccupazione di interpretare e di aggiornare il senso. Al massimo si porta un livre de chevet che lo accompagni nella lettura di opere già assimilate e ripescate quindi dall’interno di una personale consapevolezza, ma che all’atto della realizzazione non mancheranno mai di dare il senso della scoperta, a conferma di quella spontaneità che ha contraddistinto fin da ragazzo il suo lavoro, e che vediamo in ognuna delle nuove prove cambiare di segno, anche se riemerge puntuale il rimando a Lewis Carroll.

 

L’approccio ai corpi è tattile, così come è sensitivo e quasi organico il mondo che sta dietro alla fabula. Ma i corpi sono materia, ridondante o asettica, straziati dalla malattia, resi espressivi dalle mancanze, ridotti anche a simulacri. Le battute sono asciugate, perché le parole non servono più: ad Amleto bastano dei mugolii per rivolgersi agli altri personaggi ridotti dal suo delirio a giocattoli, una ridda di scoppi per manifestarsi, dei segni alla lavagna per confessare un’identità mancata; l’ultima generazione degli Atridi è clonata in piccole macchine-giocattolo che spersonalizzano le vendette nella meccanicità dominante dentro al regno del suono computerizzato e del rumore ossessivo. E da ultimo Dio creò l’uomo; nella Genesi, che dei classici è il classico, Romeo di questo Dio assume il ruolo per raccontarcene l’assenza, mentre ne ipotizza e ripete per tenebrose immagini l’impresa di cui abbiamo già visto i risultati, consapevole di parlare anche autobiograficamente di sé come artista. Ma di tutto questo capitolo è stata la Raffaello stessa a parlarci nel volume che qui si chiude, nel nome di Caino. Il poeta, uscito dall’infanzia senza smettere di sognarla, guarda aldilà, innocente.

 



Franco Quadri, postfazione al libro Epopea della polvere, ubulibri 2011 (grazie a Valentina Bertolino e a Jacopo Quadri)

 




Quarto appuntamento per la rassegna dedicata dall’assessorato alla cultura del Comune di Bologna a Romeo Castellucci e alla Socìetas Raffaello Sanzio, E la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale, a cura di Piersandra Di Matteo.

 

Da venerdì 14 a domenica 16 febbraio negli spazi dell’ex Ospedale dei Bastardini di via D’Azeglio 41 a Bologna, in collaborazione con Xing, va in scena Uso umano di esseri umani. Si tratta di un esercizio in “Lingua Generalissima”, quella coniata dalla compagnia di Cesena per lo spettacolo Kaputt necropolis, presentato nell’ottobre del 1984 alla Biennale Teatro di Venezia diretta dal critico Franco Quadri (1936-2011), inventore del Patalogo e direttore della casa editrice Ubulibri, uno degli intellettuali che hanno seguito più da vicino il lavoro della Raffaello.
 

Per approfondire la conoscenza di questa straordinaria compagnia di creatori, nel catalogo ebook di doppiozero segnaliamo il prezioso saggio di Oliviero Ponte di Pino Romeo Castellucci & Socìetas Raffaello Sanzio.

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