Antropologia / Lévi-Strauss, Montaigne e il cazzotto

28 Febbraio 2020

Che cos’è un cazzotto? Secondo gli studiosi di preistoria non si trattava di un bestiale pugno in faccia, quanto semmai, più tecnicamente, di una specie di punzone, un blocco di silicio di forma ovoidale appuntito a un’estremità. Privo di manico, lo si teneva stretto con la mano chiusa (da cui l’omonimia) per battere o frantumare. Un arnese grezzissimo, la cui efficacia era assai limitata. Eppure era diffuso praticamente dovunque (dalla Francia alla Russia all’Africa), e lo rimase per ben 100.000 anni. Doveva essere qualcosa del genere:

 

 

Ora, se si calcola che lo sviluppo dell’uomo sulla terra conta all’incirca 125.000 anni, il cazzotto ha avuto una vita lunghissima, ed è stato l’unico utensile a disposizione degli esseri umani per quattro quinti della loro storia. Poi, improvvisamente, c’è stata un’accelerazione: dal blocco si è isolata una scaglia, ed è nato il coltello; di lì a poco il metallo, e gli strumenti relativi, con i quali ci si è assestati per quattromila anni; fino a che negli ultimi trecento arriva la scoperta del vapore e poi dell’elettricità, grazie a cui l’umanità ha compiuto salti più notevoli che non in tutto il periodo precedente. Altro che evoluzione continua della specie umana a imitazione dello sviluppo regolare di un bambino che passa, poco a poco, dall’infanzia alla maturità e infine alla vecchiaia: “L’umanità assomiglia molto di più a un vecchio di ottant’anni che fino ai settant’anni sarebbe rimasto nella condizione dell’infante, senza nemmeno conoscere l’alfabeto, e poi, dai settanta ai settantacinque anni, avrebbe terminato il programma delle elementari, e infine, dai settantacinque agli ottant’anni, il programma delle scuole secondarie e delle superiori”.

 

Parola di Claude Lévi-Strauss, che fa questo ragionamento nel gennaio 1937 (oggi vi avrebbe aggiunto quanto meno l’entrata in scena del digitale), durante una sorprendente conferenza dal titolo “Una scienza rivoluzionaria: l’etnografia”, tenuta nella sede parigina della Confédération Générale du Travail, il potente sindacato socialista francese. Ritrovato da poco fra le sue carte, il dattiloscritto di questa conferenza sembra sia il suo primo scritto organico in tema d’antropologia. Ben precedente al celebre libro sulle Strutture elementari della parentela (1948), sinora considerato il punto di partenza del suo pensiero. Lo troviamo adesso in Da Montaigne a Montaigne, un importante libretto che raccoglie anche il testo inedito di una seconda conferenza, intitolata “Ritorno a Montaigne”, tenuta alla Facoltà di Medicina di Parigi per iniziativa del Comité protestant d’éthique (probabilmente una delle sue ultime uscite pubbliche). Il volume, uscito in Francia nel 2016 per la cura di Emmanuel Désveaux, viene proposto adesso nella traduzione italiana di Carlo Monteleone dall’editore Raffaello Cortina (pp. 116, € 11). La presentazione di Désveaux situa questi due testi del grande antropologo francese nell’alveo della ricerca etnologica del Novecento, mentre la postfazione di Monteleone discute soprattutto la relazione fra Lévi-Strauss e Montaigne.

 

 

Non si tratta, diciamolo chiaramente, di una trovata editoriale, della classica lista della lavandaia del Grande Autore ripescata nel fondo un cassetto e pubblicata per puro marketing. Di un grande personaggio come Lévi-Strauss sappiamo certamente già tanto, ne conosciamo l’acume, la lucidità, l’erudizione, la straordinaria capacità di elaborare originali modelli di spiegazione dei fatti umani e sociali, la caparbia ostinazione nel coniugare la ricerca scientifica più avanzata con l’interpretazione filosofico-politica della società e della cultura attuali. I suoi libri, per chi ha avuto la pazienza e la fortuna di leggerli a fondo, hanno formato tre o quattro generazioni di 

antropologi nel senso lato del termine, ossia di studiosi e curiosi che sanno ritrovare nel dettaglio più minuto della quotidianità – si pensi ancora al punzone paleolitico – interi sistemi di pensiero, complesse configurazioni culturali. Questi due testi inediti arricchiscono ulteriormente la figura dell’autore di Antropologia strutturale, non solo perché ci danno, come dire, il punto d’avvio e quello di arrivo del suo percorso intellettuale, entrambi provvidenzialmente segnati dal nome di Montaigne, ma anche perché ben individuano alcuni dei suoi principali bersagli teorici: il materialismo dialettico (degenerazione di Marx), da una parte, l’evoluzionismo sociologico (degenerazione di Darwin), dall’altra. Permettendoci di mettere ancor meglio a fuoco la sua fisionomia intellettuale.

 

Torniamo al cazzotto. Quel che si ricava dalle ostinate vicende di questo arnese primitivo, s’è detto, è che non si dà alcuna linea evolutiva predeterminata nelle culture umane, poiché non esiste uno sviluppo lineare che va dal semplice al complesso, come dire dal selvaggio al civilizzato, dato che ogni cultura ha le proprie forme di sviluppo relativamente autonomo. La caccia, l’agricoltura, l’allevamento, ad esempio, non solo non si succedono mai secondo un criterio unico, ma non sono affatto le stesse nelle diverse comunità, nei vari paesi. Una cosa è cacciare piccoli animali per sfamarsi alla bisogna, altra cosa organizzare una battuta per catturare grandi mammiferi in gruppo e con lance ben acuminate adatte all’occasione. Come dire che il modello darwiniano dell’evoluzione naturale, applicato alle forme sociali, perde di efficacia esplicativa, irrigidendo le reali dinamiche antropologiche. E se questo vale per il tempo, vale anche per lo spazio. Lévi-Strauss insiste molto sull’idea che i vari fenomeni culturali – dalle tecnologie ai miti, dalle relazioni di parentela alle divinità e così via – non hanno un’unica origine geografica a partire da cui si sono via via irradiati nelle culture vicine. Non esistono cioè invenzioni uniche che progressivamente si diffondono nei territori limitrofi fino a prendere l’intero pianeta.

 

Ogni luogo ha le sue specificità, le sue istituzioni, le sue storie, il suo pantheon. Una società può prendere a prestito da una comunità adiacente un certo elemento culturale – un mascherone, un animale magico, l’ansa di un vaso – come può rifiutarlo, o ignorarlo, o invertirne i tratti espressivi e i significati rituali. Le varie componenti che fanno parte di una cultura, sostiene Lévi-Strauss, sono come gli elementi di una lingua: si costituiscono reciprocamente di modo che, alla fine, tutto si tiene. Non c’è nulla che determina nulla, nessuna struttura materiale che va a costituire sovrastrutture ideali (come appunto sostiene il marxismo volgare), poiché è solo nella relazione, nella reciprocità, nel contatto – sia esso di approvazione o di diniego – che le varie culture si costituiscono, si assestano, si trasformano. 

 

Da qui il carattere rivoluzionario dell’etnografia. Da un lato, ricorda Lévi-Strauss, se pure l’etnologo è innovatore a casa propria (auspicando il cambiamento delle strutture sociali oppressive nelle quali si trova ad abitare), è invece tradizionalista a proposito delle culture altre che si trova a studiare, sperando ardentemente che non cambino, che non cedano alle sirene mortifere dell’Occidente, di fatto suicidandosi. Ma questo gesto apparentemente conservatore è, a ben vedere, rivoluzionario, o quanto meno progressista, perché francamente rivendica le differenze culturali, le specificità d’ogni assetto antropologico, i diritti d’ogni singola cultura di vivere secondo i propri principi, i propri valori. 

Relativismo? Certo, ma non ingenuo. Esso non implica affatto (come molti sostengono) la giustificazione aprioristica di ogni valore, di ogni istituzione o comportamento. Poiché le culture esistono se e solo se mantengono un contatto diretto e costante fra di loro, ponendo in gioco se stesse, mettendosi in perenne discussione, misurando e soppesando il valore dei propri valori (ecco la lezione di Montaigne). Ne deriva, scrive Lévi-Strauss, che “il progresso sociale può essere mantenuto e sviluppato solo alla condizione che questi contatti fra i popoli continuino”. Il pericolo – politico oltre che culturale – è l’immobilismo, l’isolamento, la sclerotizzazione asfittica delle istituzioni sociali, dei fenomeni antropologici, in una parola delle tradizioni. Bella lezione di apertura mentale, utile ancora e soprattutto oggi, ingenuo periodo di riscoperta dei localismi etnici fini a se stessi.

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