Non solo Putin / Guerra: la logica della potenza

18 Marzo 2022

La geopolitica ci insegna sostanzialmente due cose. La prima appare poco più di un’ovvietà: la logica degli imperi è la logica della potenza. La seconda, infinitamente più inquietante della prima, è che gli imperi, che osservano la logica della potenza, non dispongono della potenza ma ne sono disposti. Siamo soliti rappresentarci l’impero come una volontà tirannica, spesso incarnata nelle bizze di un uomo solo al comando, ma non è così. È la logica della potenza che tira le fila del gioco. Non ci sono scelte da parte degli esecutivi ma qualcosa che assomiglia alla rigida osservanza di un destino manifesto, un dover essere e un dover fare piuttosto che un libero agire. Gli imperi non godono del privilegio del libero arbitrio. Sono stretti nella morsa di un non poter fare altrimenti quello che fanno. Ciò che eventualmente li può portare alla sconfitta è allora soltanto un errore di calcolo consistente nel non aver avuto chiara consapevolezza del proprio destino. 

 

Non c’è nulla di nuovo in questa idea di potenza. Nel V secolo a.C., come storico delle Guerre del Pelopponeso, Tucidide l’ha espressa in modo compiuto raccontando la tragica vicenda della piccola isola dei Meli assediata dall’imponente flotta ateniese. Alle proteste degli abitanti della città che invocavano il diritto naturale all’autodeterminazione e che si appellavano a una giustizia divina superiore, gli ambasciatori ateniesi replicavano freddamente che è per una necessità di natura che ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone. Le cose umane non fanno eccezione alla natura. Dunque in mancanza di una resa incondizionata i Meli non avrebbero dovuto aspettarsi pietà alcuna (che, in effetti, non ci fu). Secondo gli ambasciatori ateniesi, che appaiono molto ferrati in filosofia, una potenza che sia svincolata dal suo esercizio sarebbe infatti solo una impotenza. 

 

La natura della potenza è finita. Nessuna potenza, nemmeno quella degli dei, è una potenza infinita. Questa sarebbe infatti una contraddizione in termini: senza l’attrito dell’aria nessuna colomba, diceva Kant, potrebbe volteggiare in cielo. Se si dice potenza si dice rapporto di forze, si dice gerarchia e struttura. Ogni potenza implica insomma un ordine. Su tale finitezza strutturale della potenza fa affidamento anche chi vorrebbe arginarla. Tuttavia, contrariamente a quanto credono gli idealisti, a limitare la potenza non è il diritto o un principio di giustizia astratto. La potenza è limitata solo da se stessa: un impero è attivamente i suoi confini nel senso che esso si estende fin dove può estendersi. Dove si arresta cessa di essere o comincia ad essere minacciato (Ucraina significa “confine”).

 

Nel limite la potenza non incontra allora il suo altro ma fa esperienza della sua stessa natura finita. Si conosce, per così dire, per quello che è. Quella degli Ateniesi era tale per cui i Melii non potevano che essere distrutti.

Una considerazione realistica della nostra attuale situazione deve prendere le mosse da questa visione oggettiva della potenza. Ad essa si attengono le varie cancellerie la cui azione politica alla ricerca di una soluzione negoziale consiste in un “calcolo”, talvolta azzardato, delle “potenze” in atto sul “campo”. Ricordo che la stessa nozione di “campo”, di cui il “campo di battaglia” è solo una specie tra le altre, rinvia a un rapporto tra potenze: il “campo” è un differenziale di forze “in atto” che ripartisce e articola un insieme. Un campo non è una composizione di parti. Le “parti”, ad esempio un polo positivo e un polo negativo in un campo magnetico, sono effetti del campo, che non sussistono come tali indipendentemente da esso. 

 

Da tale realismo consegue una indifferenza di principio per ogni lettura “morale” degli eventi. È il boccone più indigesto da mandar giù per chi assiste quotidianamente a violazioni dei più elementari principi di umanità. Ma è un boccone che bisogna ingoiare. Nella logica sovrana della potenza non ci sono “buoni” e “cattivi” perché c’è solo un campo unificato da un rapporto di forze. “Aggressori” e “aggrediti” sono le funzioni di un gioco che, come tale, non può essere che “innocente”, perché “al di là del bene e del male”. Non ci sono nemmeno dittatori che manipolano masse ingenue. Non ci sono, almeno, se non come perversione momentanea del sistema oggettivo della potenza, un “errore” che il sistema presto rettificherà eliminando il dittatore.

 

 

Un “dittatore”, dopotutto, è solo l’intrusione arbitraria di una volontà umana nel gioco della potenza. Un uomo vorrebbe farsi padrone del corso degli eventi. Fintantoché, da bravo surfista, sarà in grado di assecondare la tendenza, interpretandola e rilanciandola, resterà saldo al suo posto, ma sarà scalzato non appena la vorrà piegare all’arbitrio della sua volontà individuale. La potenza, sola padrona di questo mondo, è anonima, impersonale, oggettiva. La volontà umana ne è un’appendice, rilevante solo in quanto “operatrice” della macchina. I realisti sono filosofi hegeliani: in Napoleone che, vittorioso, sfila a cavallo dopo la battaglia di Jena scorgono un fantoccio al servizio dello spirito del mondo.

 

Questo indifferentismo morale è incompatibile con il discorso pubblico sulla guerra e difficilmente può essere comunicato. I media pretendono infatti che la storia sia fatta da soggetti responsabili e imputabili. Vogliono colpevoli e innocenti. Vogliono il dramma borghese quando invece la logica tucididea della potenza porta nei paraggi della tragedia. Espressione di questa difficoltà è l’imbarazzo in cui si trova il geopolitico quando è chiamato a dire la sua in una qualche trasmissione televisiva. Incalzato dal conduttore di turno, egli accoglierà l’invito a prendere partito per gli aggrediti, perché non vuole apparire un mostro, ma lo farà alla prima persona nella forma dell’auspicio e della personale speranza. Come scienziato, cioè alla terza persona, si riserverà il diritto alla spregiudicatezza senza la quale la logica della potenza non può essere compresa.

Diametralmente opposta alla posizione del realista sembra essere la posizione del pacifista intransigente. Non è forse l’alfiere dell’utopia, il paladino della “pace perpetua”, il profeta di una giustizia trascendente? Tuttavia, se consideriamo le dinamiche più sottili del pacifismo troviamo ben più di una analogia con la posizione del realista radicale. 

 

Nel “pacifismo” il senso comune sospetta sempre un “non detto” complice con il male che il pacifista vorrebbe combattere. Il pacifismo è infatti pacifismo autentico solo se è radicale cioè perfettamente equidistante, come l’asino di Buridano, tra le ragioni dell’una e dell’altra parte. Il pacifista non prende posizione perché l’origine della violenza consiste per lui nella presa di posizione quale essa sia. Per questa ragione un “coerente” pacifismo oggi non solo contesta l’invio di armi ai resistenti ma perfino le stesse sanzioni economiche, dal momento che queste vengono usate come “armi” dalle cancellerie. Al pacifista non fa difetto il realismo, come gli viene spesso imputato. Tutt’altro.

 

Ne è talmente imbevuto, è così persuaso del dominio assoluto della forza in questo mondo, che soltanto nella non-azione, nella passività e, infine, nella rinuncia trova la sua autentica dimensione “etica”. Alla vigila della seconda guerra mondiale, al duro realismo di Tucidide, la “mistica” Simone Weil contrapponeva la soprannaturalità del Dio cristiano, il quale, a differenza degli dei greci, non esercita per necessità tutta la sua potenza, ma si svuota della sua onnipotenza, vi rinuncia fino a sacrificarsi sulla Croce. È questa una reale alternativa alla logica imperiale degli Ateniesi? C’è, credo, da dubitare della sua realtà, perché questa opzione per la trascendenza porta fuori dalla storia lasciando sul “campo” le cose immutate. Questo pacifismo ripete, insomma, il gesto di Ivan Karamazov che, dopo aver illustrato al devoto fratello Alioscia come è fatto veramente il mondo – nient’altro che il dominio della potenza – gli comunicava di voler semplicemente “restituire il biglietto”. 

 

Tuttavia il realista e il pacifista convergono su un punto essenziale che non va trascurato. Entrambi sono persuasi che non c’è altra logica che quella della potenza. Entrambi prendono congedo da una concezione “morale” della guerra. Entrambi smettono di “giudicare” il mondo. Entrambi mettono in questione l’antropologia filosofica che anima tutte le ideologie, vale a dire l’idea dell’uomo come di un soggetto libero e responsabile, padrone del possibile e principio delle proprie azioni. Entrambi fanno dell’uomo un’appendice del dispiegarsi della potenza, un mero operatore della macchina, anche se faticano ad ammetterlo pubblicamente (anche il pacifista, per sfuggire al pregiudizio, dovrà concedere all’intervistatore che ci sono i buoni e i cattivi…). Divergono, poi, nell’interpretazione metafisica della logica della potenza. I primi, infatti, si iscrivono alla scuola di Eraclito: nelle convulsioni della guerra scatenata dagli imperi scorgono il palpitare del tutto, il suo eterno agitarsi senza senso. I secondi, invece, optano per l’eleate Parmenide: nella potenza in atto vedono la decadenza, la degradazione e la corruzione del principio eterno, una corruzione per altro inevitabile alla quale non si può porre fine se non restituendo il biglietto e saltando fuori dal mondo. Ma quale che sia la metafisica, resta comune ad entrambi una lucida presa d’atto dello stato delle cose. 

 

Mi chiedo allora se da questa lucidità acquisita attraverso la disillusione non si possa ripartire per immaginare un pacifismo operativo, che, invece di “restituire il biglietto”, sappia misurarsi con la realtà della potenza. Ciò di cui abbiamo bisogno è una pace mondiale. L’apocalisse da tempo bussa alle nostre porte, soprattutto da quando la potenza, fattasi nucleare, ha ecceduto quei confini naturali a cui si riferivano gli ambasciatori ateniesi nel loro discorso ai Melii. Gli ambasciatori spiegavano che è la natura che vuole che la potenza si attui. Oggi il dispiegarsi della potenza mette in questione la sussistenza stessa della natura. Le grandi istituzioni sovranazionali create all’indomani delle catastrofi novecentesche (La Società delle Nazioni, l’ONU) sono sempre state pensate sul modello impolitico del tribunale e del giudizio morale. Per questo probabilmente non hanno funzionato.

 

Non è con il diritto che si imbriglia infatti la potenza. Lo abbiamo visto. Ma questo non significa assistere passivamente all’apocalisse. La potenza, sola regina di questo mondo, la si può “governare”, “per quanto è possibile” (una formula che ritorna ossessivamente nella filosofia greca classica), con la “virtù politica”. Questa è l’ambizione di un pacifismo che operi su scala mondiale nell’epoca nucleare. Sua metafora è l’arte “cibernetica” del pilota che governa, come può, la nave in un mare in tempesta. Fintantoché la “pace” sarà considerata un “valore” contrapposto al dispiegarsi della potenza non vi sarà per la pace alcuna chance. Vi saranno soltanto delle tregue momentanee. Ma le cose possono cambiare se la pace diventa per il mondo intero il destino al quale non ci si può sottrarre, ciò che non si può non perseguire, proprio come fanno gli imperi con le loro politiche di espansione.

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