Pinocchio al Circolo dei Lettori / Il Paese senza Balocchi

16 Gennaio 2019

Sabato 19 gennaio al Circolo dei Lettori di Torino Carissimo Pinocchio, una giornata nel paese dei Balocchi. Pubblichiamo, come anticipazione ai tanti incontri di questa giornata dedicata al burattino, l'introduzione di Stefano Bartezzaghi all'edizione Einaudi del 2014.

 

Pinocchio de' Pinocchi

È stato chiamato uno, bino, trino ma il sospetto è che su Pinocchio ci avesse visto giusto, e fin da subito, Carlo Collodi. Fa dire a Geppetto:

 

Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l'elemosina.

 

I commenti al passo in cui Pinocchio ottiene il suo bel nome si sono concentrati essenzialmente sull'ironia favolosa della battuta finale, trascurando una questione onomastica che tanto trascurabile invece non è. 

Il nome proprio è, o dovrebbe essere, indeclinabile. Con il burattino, che qui peraltro non era ancora nato, va diversamente: e si vede allora che Pinocchio non è tanto il nome proprio di un personaggio, quanto il nome comune di un genere. Forse è più preciso dire che si tratta, assieme, di nome e cognome: Pinocchio de' Pinocchi. 

I Pinocchi sono una gens caratterizzata non dalla discendenza comune, ma dal nome: e dalla povertà. Esiste dunque una regola, di cui il Pinocchio che sta per nascere sarà espressione. Ma che regola può definire l'appartenenza a una dinastia di "ricchi elemosinieri"? La regola degli ossimori e delle antifrasi, la norma delle ironie e dei paradossi, il codice delle aporie. La regola dei Pinocchi è fatta di una somma di eccezioni e trasgressioni, piena di ironie, trabocchetti, giravolte e vie di fuga: di questa regola il Pinocchio burattino sarà l'espressione più piena e (proprio per questo) la più estrema, l'esemplare più tipico e (proprio per questo) il caso-limite.

Noi siamo ampiamente postumi a Pinocchio: e sappiamo che oltre a questa gens originaria vi è una seconda folla di Pinocchi. Dopo Collodi, molti altri Geppetti si sono messi a fantasticare al loro banco di lavoro. Da Miles Davis al cardinal Biffi, da Walt Disney a Giorgio Manganelli, da Jacovitti a Carmelo Bene, la famiglia dei Pinocchi ha continuato a popolare il mondo: riprese, traduzioni, interpretazioni, riscritture, ispirazioni, un musical dei Pooh, un talk-show di Gad Lerner, un libro di giochi di Umberto Eco, un film di Roberto Benigni... 

Di cosa vanno in cerca tutti questi diversi Geppetti, tanto diversamente autorevoli? Che cosa hanno in mente, quando usano il nome di Pinocchio? 

 

Pinocchio prima di Pinocchio.

La materia di cui è fatto quel burattino, disse Croce, è la vita. L'origine lignea, vegetale di Pinocchio non ne viene messa in discussione, ma forse alle esistenze rispettive di Pinocchio e del pinocchiesco non basta la somma di legno e vita, vegetazione e animazione, oggetto e soggetto. 

Il testo di Collodi allude continuamente a una mitica fase antenatale, a qualcosa che c'era, e da cui il burattino è promanato. È uno strato di esistenza che non si saprebbe come collocare: spazialmente è certo un Altrove, ed è altrettanto certamente perduto; cronologicamente si sa che "viene prima", e anzi la sua sola caratteristica è questa indefinita precedenza. È il tempo in cui Pinocchio era il "fratellino" di Arlecchino e Pulcinella e delle altre marionette del teatro di Mangiafoco: se questa zona temporale mitica non fosse preesistita, come avrebbero potuto riconoscersi fra loro, burattini e marionette? E come avrebbe fatto il Grillo Parlante o il cane Alidoro a conoscere il nome di Pinocchio? 

Pinocchio, insomma, c'è già: percepisce l'ascia alzata di Mastro Ciliegia già prima di avere gli occhi, ascolta già prima di avere le sue controverse orecchie, conosce già il nomignolo monellesco di Geppetto ("Polendina!"), soprattutto ha già,  e per intero, il proprio carattere. 

Avere un carattere, almeno in letteratura, significa avere un programma d'azione, se non vogliamo chiamarlo destino. Pinocchio ha un solo carattere, ma è combattuto fra due programmi, fin dall'inizio delle sue avventure.

 

Il programma di Geppetto

Ambasciatore del regno dei legni da catasta e di tutte le altre cose inanimate, Pinocchio è annunciato dalla sua voce, o "vocina", che è sottile e dice: "Non mi picchiar tanto forte!" 

La prima cosa che Pinocchio fa è parlare, e la prima cosa che fa con la parola è un'implorazione. Seguiranno: un lamento ("Oh! tu m'hai fatto male!"), una risata ("Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!") e, a chiudere un repertorio pressoché completo degli atti linguistici pinocchieschi, un dispetto. Il dispetto è particolarmente importante, per molte ragioni. Le due ragioni principali sono: 1. che il dispetto è rivolto a colui che interpreterà il ruolo di padre di Pinocchio; e: 2. che la battuta arriverà a commentare il programma che Geppetto vuole assegnare al suo burattino, così come lo espone a Maestro Ciliegia:

 

- Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?

- Bravo Polendina! – gridò la solita vocina, che non si capiva di dove uscisse.

 

Pinocchio, insomma, nasce per essere un balocco: certo, non un balocco comune, ma "maraviglioso", quindi oggetto dell'altrui stupore. Non sappiamo se Geppetto pensi di manovrare personalmente il burattino. Geppetto è provvisto della metis di Dedalo, l'intelligenza astuta e ingegnosa degli artigiani, e quindi forse si propone di costruire un automa capace di eseguire in proprio passi di danza, tiri di scherma e acrobazie. Quelle erano epoche molto favorevoli agli automi, e in fondo non dispiacerebbe leggere una storia, un «Pinocchio divergente» (e non più «parallelo», come invece il manganelliano) in cui Geppetto riuscisse davvero a costruire il burattino che ha in mente e lo esibisse al pubblico. 

Le avventure di Geppetto non sono paragonabili a quelle del suo incontenibile figliolo, ma in ogni caso non stiamo parlando di una persona comune. Basta immaginarsi Geppetto che si procura tre pere uscendo di prigione, o che baratta la casacca di fustagno per l'Abbecedario, o che esplora il bastimento, dentro alla pancia del Pesce-cane... 

Ma con Pinocchio, e con Collodi, a Geppetto va male: non è lui, il protagonista di questo libro. Un libro dalla parte di Geppetto non c'è.

 

Il programma di Pinocchio.

L'identità di Pinocchio si manifesta assai precocemente, si può forse dire allo stato fetale, quando il legno di Pinocchio naviga ancora fra le amniotiche e insondabili linfe del legno da catasta che ne è incinto. È un'identità che si definisce proprio in opposizione al programma di Geppetto. "Che ve ne pare?" "Bravo, Polendina!". Pinocchio fa così litigare Geppetto e Maestro Ciliegia (a cui la domanda era rivolta), ma afferma anche assai chiaramente che a lui il programma di Geppetto non piace. Di più: Pinocchio sa già che questo programma non sarà realizzato.

Con Geppetto in galera e il Grillo Parlante sulla parete Pinocchio enuncerà poi il proprio programma di vita: "correre dietro alle farfalle" e "salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido", nonché "mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo".

Un programma che è alternativo a quello primario. Quest'ultimo in realtà è ormai cambiato. Non è più quello teatrale e diciamo "acrobatico-vegetale" che Geppetto aveva esposto a Maestro Ciliegia. Le vicende della nascita di Pinocchio hanno infatti reso chiaro a tutti, a Geppetto in primo luogo e ai lettori in secondo, che non si tratta di burattino (sia pur "maraviglioso") ma di burattino-ragazzo. Di danza e scherma non si parlerà più, ma si parlerà di scuola e di mestieri: in questa versione modificata, potremmo chiamarlo il programma del Grillo, ma Pinocchio se lo sentirà ricapitolare anche dalla Fata – quando si proporrà a Pinocchio non più come sorella ma come madre.

 

"Facciamo che io ero..."

Geppetto non riuscirà dunque a fare di Pinocchio un balocco. Ma Pinocchio non riuscirà – finché resterà Pinocchio – a estirpare dal suo carattere l'originaria destinazione a giocattolo.

Del giocattolo Pinocchio ha molte caratteristiche. Non solo quelle esteriori: è un burattino, serve al divertimento di chi lo manovra o di chi ne ammira i movimenti. Quello che Pinocchio condivide con gli oggetti da gioco è proprio quella zona antenatale, quella precedenza non meglio indefinibile, l' "esserci già stato".

"Facciamo che io ero..." dicono i bambini, quando giocano a impersonare personaggi. Qual è il loro giocattolo, in questo caso? Il manico di scopa che fa da cavallo al cowboy o all'indiano è un giocattolo accessorio: ciò con cui il bambino gioca è direttamente la propria identità. Il corpo si fa corpo di cowboy e anche, già che c'è, corpo di cavallo. 

"Facciamo che io ero...": i programmi dell'infanzia non sono rivolti al futuro ma al passato.

Ha scritto Giorgio Agamben, in un testo intitolato "Il Paese dei Balocchi":

 

Uno sguardo al mondo dei giocattoli mostra che i bambini, questi robivecchi dell'umanità, giocano con qualunque anticaglia capiti loro fra le mani e che il. gioco conserva così oggetti e comportamenti profani che non esistono più. Tutto ciò che è vecchio, indipendentemente dalla sua origine sacrale, è suscettibile di diventare giocattolo.

 

E ancora:

 

Il carattere essenziale del giocattolo – l'unico, se ben si riflette, che possa distinguerlo dagli altri oggetti, - è qualcosa di singolare, che può essere colto solo nella dimensione temporale di un "una volta" e di un "ora non più".

 

Il Paese senza Balocchi

Pinocchio non gioca mai. Vive situazioni totali, che presuppongono l'oblio pressoché completo degli stadi precedenti. La sua dedizione alla causa del momento è completa. Uscito da casa di Geppetto, Geppetto è remotissimo, un poveruomo di cui dimenticarsi. 

L'impegno con cui Pinocchio "si lascia vivere" (come si direbbe nel gergo del neo-esistenzialismo vulgato dei nostri giorni) è tanto strenuo da far sospettare che si tratti di una manovra scaramantica per eludere il proprio destino primario. Essere o non essere un balocco? Per lui il dilemma è questione di vita e di morte. 

Fa bene a evitare giocattoli e balocchi, perché intuisce che non lo lascerebbero tranquillo. Se va a teatro vi trova le marionette che lo chiamano "fratellino" e Mangiafoco che lo tratta come il pezzo di legno da catasta (destinato alla stufa) che Pinocchio era appunto stato nella bottega di Maestro Ciliegia.

Anche nel famoso Paese dei Balocchi le cose vanno un po' stranamente:

 

Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici anni: i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade, un'allegria, un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno; questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria; chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l'ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: Viva i balocci (invece di balocchi): non voglamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l'aritmetica) e altri fiori consimili.

 

Illustrazione di Jérémie Almanza.


Il brano è giustamente famoso, per la sua capacità di evocare visivamente ciò che descrive, secondo i dettami retorici dell'ipotiposi. Più che un brano di libro pare un colpo d'occhio, e nell'impressione che lascia questo colpo d'occhio i balocchi appaiono tutto sommato assenti, o molto poco determinanti. È questo che pare strano.

Il cerchio, il velocipede e la mosca-cieca non sembrano essenziali al Paese dei Balocchi, e a quello che Pinocchio chiama "divertimento". Essenziali sono i decibel e gli erg devoluti dalla popolazione della città, perché le dominanti del brano sono di ordine energetico, e specialmente acustico. 

 

Giocare con, giocarsi di.

Rumore ed energia sono due caratteristiche dell'inferno, e non è un caso che due dei tre termini con cui Collodi tira le somme della sua descrizione del Paese dei Balocchi abbiano pertinenza infernale: "insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato... ".

Il gioco, che in Pinocchio si trova a non avere alcun rapporto dialettico con la vita, si trova ad averlo con la morte: tutti i giochi di Pinocchio finiscono male, giocare è mettersi in una posizione borderline.

I giocatori del Paese dei Balocchi, come tutti i giocatori in Collodi, non giocano l'uno con l'altro. Non giocano neppure l'uno contro l'altro: sia la dimensione collaborativa che quella agonistica del gioco sembrano assenti, ciò che ha fatto pensare a Giorgio Manganelli che si tratti perlopiù di giochi solitari.

L'elemento costruttivo della socialità è infatti assente. In Pinocchio e nei suoi giochi è casomai presente un elemento distruttivo: è frequente il "giocarsi di", il "prendersi gioco di". 

Pinocchio ne è altrettanto spesso oggetto e soggetto. Dopo aver ascoltato il suo programma, e subito prima di prendersi la martellata apparentemente fatale, il Grillo gli dice: "Ma non sia che, facendo così diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te?".

Il "giocarsi di" non è distruttivo solo della socialità del gioco, ma anche della persona. È una morte: la piccola morte sociale della canzonatura. E non solo perché il programma di Pinocchio, programma che il Grillo sta appunto commentando, consiste proprio nell'evitare di essere balocco. Ma anche perché il canzonato, tutti i canzonati, si sentono davvero morire, come a Pinocchio succede molte volte nel corso delle sue avventure.

 

Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo, dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso, egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera bestiola, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni volta! come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì, con occhi velati d’una irrevocabile tristezza, immalinconito da quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte.

 

Lo stesso Pinocchio è un grande canzonatore, a partire dalla scena teatrale della sua venuta al mondo, prima con la zizzania seminata tra Geppetto e Maestro Ciliegia e poi con i dispetti fatti mediante le membra del corpo, mano a mano che lo stesso Geppetto gliele costruiva. Nell'universo pinocchiesco il padrone si fa gioco dell'animale o del servitore, l'animale e il servitore si riscattano con una burla, come Pinocchio quando perde la sua identità asinina e si libera da colui che ne voleva fare pelle da tamburo. Ognuno è lo zimbello almeno potenziale dell'altro: non resta che fare scherno, o patirlo.

 

Play

Con le beffe che i suoi nuovi compagni di scuola si fanno di lui, Pinocchio si trova retrocesso allo stadio di burattino semplice (non "maraviglioso"). 

 

Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava l berretto di mano: chi gli tirava il giubbettino di dietro, chi si provava a fargli coll'inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli di fili ai piedi e alle mani, per farlo ballare.

 

Farlo ballare: è il programma di Geppetto, perché il secondo gioco inscritto nel codice genetico di Pinocchio è il gioco di esibizione. Che esibirsi sia un gioco, naturalmente, è materia su cui si potrebbe discutere, e non basta a chiudere la discussione la cuginanza semantica di gioco e recitazione, lessicalmente depositata in verbi come l'inglese to play o il francese jouer.

Nel testo di Collodi, però, i giochi che Roger Caillois avrebbe rubricato sotto la categoria della "mimicry" sono fra i più frequenti. Sono giochi di maschera, di metamorfosi, di impersonamento, di esibizione che ricorrono sia nella narrazione (il Pinocchio-cane, il Pinocchio-asino, il Pinocchio-ragazzo, le metamorfosi della Fata, i travestimenti del Gatto e della Volpe...) che nei giochi veri e propri: nel Paese dei Balocchi i ragazzi recitano, impersonano generali e galline, e ovunque si esibiscono in salti, capriole, giravolte, tecniche del corpo, esibizioni spontanee in cui non c'è confine tra platea e spettatori.

Nei Paese dei Balocchi questo avviene liberamente, per gioia di vivere e gioia di giocare. Ma noi, oggi, sappiamo che l'Omino di Burro aspetta ciò che non può non avvenire: la trasformazione dei ragazzi in ciuchi. La libertà era illusoria, il tempo dell'economia e del commercio ricomincerà a scorrere dopo la sospensione del gioco.

In un libro tanto teatrale, il teatro vero e proprio è sempre una macchina coercitiva: lo è per le marionette di Mangiafoco, ma lo è anche per lo stesso Pinocchio. Pinocchio non riuscirà a evitare del tutto il programma di Geppetto: solo che non sarà più un gioco, appunto, ma una costrizione. Quando diventa un somaro, il direttore del circo gli dice:

 

- Vieni con me nel Circo e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro.

Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dové imparar tutte queste bellissime cose; ma per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni e molte frustate da levare il pelo.

 

Illustrazione di Jérémie Almanza.


L'esibizione diventa subito umiliante: vi assiste, in veste di signora, la Fatina e subito il ciuco addestrato vuole parlarle, ma raglia, fa ridere il pubblico, viene frustato, si umilia: "si sentì come morire". 

Altra esibizione mortifera: quando Pinocchio si trova in stato di arresto per la presunta morte del maligno Eugenio il problema non è l'ingiustizia patita ma l'essere visto: "il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito morire". 

Il gioco dell'esibizione esce presto dai confini del gioco, e diventa un essere giocato, che confina con la morte.

 

"Tutta l'educazione è fisica"

Se in Pinocchio il gioco strutturato è raro (per non dire assente) domina il campo il gioco corporeo, che articola il corpo ligneo del burattino dando plasticità ai suoi gesti agili, affettività ai suoi toccamenti di volta in volta allegri o stizziti. Il tatto è il primo segno della sua corporeità: ancora allo stadio di legno da catasta, prende la parola per evitare un colpo, o per denunciare le tormentose delizie del solletico.

Anche nella scena del teatro dei burattini, la festa consiste nella serie degli "abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell'amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza" e poi, scongiurata la condanna a morte da parte del burattinaio, in salti e balli che durano tutta la notte.

"Tutta l'educazione è fisica", sentenzia un singolare libro sul gioco, lo sport e il corpo. Pinocchio non fa che ribadirlo.

 

Corsa.

Vedere un bambino che corre per la strada è normale. Vedere correre un adolescente è meno normale, del tutto anomala la corsa dell'adulto, se non ha gli apparati esteriori richiesti dal jogging, e se non c'è un mezzo pubblico che sta per partire e giustifica l'affanno. Dunque nella vita di ogni individuo c'è un momento prima del quale non stupisce vederlo correre, e dopo il quale la stessa attitudine parrebbe invece un'anomalia, segno certo di urgenza, e magari emergenza. La corsa che non è una rincorsa né un esercizio agli adulti non è familiare e non riesce per niente bene.

Perché i bambini corrono? All'improvviso, magari dopo aver lamentato di dover camminare, scattano in una corsa senza pensieri. Camminare stanca, correre no. Giocano a rincorrersi, a prendersi, a chi arriva primo. Corrono da soli, anche senza gareggiare: non sempre per fare prima, spesso per fuga, o anche per gioia, esuberanza, imbarazzo, scarico di energia. Si corre come si parla, si ride, o altro, senza progetto: si corre per una decisione estemporanea. 

L'unico, grande gioco di Pinocchio è la corsa. Esce dalla casa di Geppetto, per andare a scuola e cammina. Ma quando decide di deviare per inseguire il suono di pifferi che lo porterà da Mangiafoco non cammina più:

 

Detto fatto, infilò giù per la strada traversa, e cominciò a correre a gambe.

 

Corre di capitolo in capitolo, per ore, come lepre, bàrbero (ovvero cavallo da corsa), capretto, leprottino, cane da caccia, can levriero, capriolo, palla di fucile.

Minuto e solido, corre imbattibilmente:

 

Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi. 

 

Gioca a correre e si gioca di chi corre meno di lui, cioè tutti:

 

Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore.

 

Corre non solo in terra, ma anche, nuotando, per mare:

 

Fatto sta che in un batter d'occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell'acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di buon'umore.

 

Corre per fuggire, corre per arrivare, corre per giocare. 

Ultimo e più compiuto esponente della dinastia ossimorica dei ricchi elemosinieri, corre. Corre perché è ipercinetico (Giovanni Jervis), corre come il fulmine perché è sempre preso fra due polarità opposte e la differenza di tensione genera la scarica di energia. 

Corre perché è bipolare egli stesso.

Corre perché non può più tornare.

Corre per non andare a scuola, corre per non stare, corre per correre. 

 

Voglia di correre

Che gioco è correre? 

Tutto il gioco, o meglio tutto il giocare, seguendo Caillois, si trova compreso fra due polarità. Il primo polo è definibile come 

 

un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome di paidia.

 

Alla "natura anarchica della paidia" si oppone il tentativo di piegarla a convenzioni arbitrarie: questo tentativo è il gioco regolato, che Caillois chiama ludus). 

La corsa di Pinocchio è tutta dal lato della paidia: è una corsa panica, l'unico premio che prevede è la possibilità di dileggiare i compagni che restano indietro, l'unica punizione è la morte.

Inoltrandosi fra le categorie di Roger Caillois, nella corsa di Pinocchio non c'è maschera o simulazione (peraltro ben presente nel libro, come si è visto), ma le altre costanti del gioco ci sono tutte. Della pulsione all'agonismo si è detto. Pinocchio corre da solo, ma spesso anche per scappare a inseguitori e almeno una volta (andando a vedere il Pesce-cane alla spiaggia) per giocare a distanziare i suoi malfidati compagni. 

La sfida al caso: il bambino che corre, corre in braccio agli imprevisti. Ci dicevano spaventosamente le nonne che "Chi va piano, va sano e va lontano, chi va forte va alla morte": quel nesso tra forte e morte si rivelerà profondissimo, capace di organizzare l'intero campo semantico della velocità e di sostenere una mitologia del moderno come folata che imprime accelerazione e toglie stabilità, mitologia che non pare intaccata da ciò da cui il moderno è stato oltrepassato.

Ma qui più del caso a cui la corsa si consegna, la dea di coloro che corrono, e che tengono Pinocchio come nume tutelare, è Ilinx: la vertigine. 

Ragion d'essere delle altalene, del bungee-jumping, ma anche delle danze turbinose, la vertigine è l'elemento più sorprendente del libro di Caillois sul gioco.

Non bisogna fare della corsa una banalizzazione della fuga: non tutte le corse sono fughe, non tutte le fughe avvengono di corsa. Chi corre forse non sta scappando da nulla, se non dalla stabilità, dall'orrore della stasi e dell'essere inanimato. Né ha alcuna fretta, se non quella di non arrivare.

La corsa a rotta di collo è invece certamente una ricerca di vertigine: si perde la possibilità di frenarsi, l'equilibrio e il controllo sono precari. Il mondo ci scivola vicino, la percezione che ne abbiamo è parziale e imprendibile, noi corriamo in avanti e il mondo corre all'indietro.

Questa è l'ebbrezza ricercata da Pinocchio giocatore.

Pinocchio peraltro non ha mai detto di voler giocare: nel suo programma parla di "divertirsi", e ovviamente le parole gli forniscono l'inconscio di cui potrebbe anche non essere dotato. Il divertimento è una diversione, un bivio, la possibilità di cambiare la propria direzione. Ma, ammonisce Callois, dove regna Ilinx non c'è divertimento bensì spasmo, e la lettura adulta di Pinocchio coglie bene questo aspetto dolorosamente spasmodico della sua ricerca inarrestata di "divertimento", della voglia di uscire da sé e dallo smarrimento che si prova, e mette voglia di correre, far correre l'anima via dal corpo. Spasmo e vertigine, contraddizione e tensione, spinta vitale e trasgressione: sarà questo ciò che continuiamo a chiedere a Pinocchio, quando ci proponiamo di interpretarlo, commentarlo, impersonarlo, citarlo?

 

Explicit.

Pinocchio non finisce quando Pinocchio si trova trasformato in un ragazzo come si deve. Incomincia a finire quando Pinocchio si carica in spalla il padre e si butta in mare, sotto la luna, rischiando tutto nell'ultima corsa (natatoria) della sua vita. Di lì in poi scenderanno in campo i miracoli, quelli veri: lavori, guarigioni, dolci sogni, trasformazioni, zecchini non guadagnati. L'unico essere che correrà sarà la lumaca, che si trasformerà addirittura in lucertola per portare il più velocemente possibile i soldi di Pinocchio alla Fatina malata. 

All'ultimo suo bivio, nell'ultima fra le sue tante notti fatali, Pinocchio riuscirà finalmente a "divertirsi": non prenderà una sola strada, ma entrambe, scindendo la sua parte di ragazzo dalla sua parte di burattino.

"Com'ero buffo, quand'ero un burattino". Il commento è del ragazzo è spassionato. I due poli non sono più in relazione, la tensione spasmodica è caduta, entrambi gli esseri sono giustamente (si può dire: umanamente) inerti. 

Del ragazzo non sapremo più nulla. Il fantoccio inanimato lo ritroveremo sui libri e nelle camere dei ragazzi, in illustrazioni, gadget, giocattoli di legno.

Il "burattino maraviglioso" è davvero diventato un balocco. Non più capace di dispetti, ha finalmente ottenuto il passato mitico che spetta ai giocattoli, un passato fatto di corse, di sfide, di disobbedienze, di bugie, di struggimenti. Implorazioni, lamenti, risate, dispetti.

Se il giocattolo è sempre un oggetto che ha avuto un'anima (e l'ha perduta), le avventure di Pinocchio non sono quelle di un burattino che diventa ragazzo. Sono la storia di un esserino di legno, dotato di un passato imperscrutabile e di un'anima di ragazzo imprevista e imprevedibile, che finalmente riesce a trasformarsi in balocco e si offre al nostro gioco, alla nostra "maraviglia".

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