I cancelli dell'acqua / Il pendolo di Zygmunt Bauman

9 Dicembre 2018

Modernità liquida, ovvero il mondo sottosopra

 

La canzone di Peter Gabriel Downside Up, dell'album Ovo, costituisce, secondo me, una sintesi appropriata dell'incessante lavoro di decostruzione e ricostruzione effettuato da Bauman in tutta la sua lunga avventura intellettuale e contiene in nuce le caratteristiche salienti della modernità liquida. Gabriel esprime nel testo il senso di straniamento al cospetto di un mondo che si trasforma fino a rovesciarsi: l'edificio più alto e l'impressione che stia crollando, un equilibrio interno che si polverizza, la percezione che tutto si stia muovendo attorno, uno scenario di cose stabili e solide che si sfilacciano, si frantumano, mentre qualunque cosa su cui si poteva contare svanisce. E mentre il corpo si svuota del suo peso e viene attratto dal cielo, scivolando nell'ignoto, chi era straniero ci appare familiare, mentre quel che davamo per acquisito assume un aspetto minaccioso, e l'unica costante di cui possiamo essere certi è un'accelerazione inarrestabile del cambiamento. Vi ritrovo l'eco delle parole di Bodei nel suo saggio sul sociologo da Bauman più amato, Georg Simmel: “la meraviglia che si avverte dinanzi al realizzarsi di possibilità ritenute remote e il fascino che promana dall'osservare come, con doppio movimento, i nostri interessi e desideri, in precedenza emarginati, si spostano verso il centro, proprio mentre la nostra vita abituale retrocede verso la periferia” (Remo Bodei, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 174.). 

 

Ho sempre considerato Peter Gabriel un artista “sociologico”, oltreché uno splendido artista tout court, perché trascorreva regolarmente alcuni mesi ogni anno a esplorare i talenti musicali dell'Africa e dell'Oriente: imparava da loro (basta pensare all'ineguagliabile ricchezza percussiva dei suoi brani) e li strappava all'oblio facendoli conoscere al ricco Occidente. Era vorace, oltreché creativo. Si applicava di buona lena per poi mettere in discussione ciò che sarebbe potuto sembrare intangibile e incontestabile. Allo stesso modo, Bauman studiava in continuazione, era assetato di conoscenza, leggeva almeno cento libri all'anno e poi, indugiando sugli aspetti più popolari che altri sociologi trascurano, osservando da vicino le persone, fermandosi a parlare con loro, annusando i cambiamenti che erano sotto gli occhi benché in boccio o in filigrana, scopriva i fili più decisivi e meno visibili della vita in cui era immerso.

Provo ammirazione per l'autore inglese Mark Fisher e per il suo libro Realismo capitalista (Milano, Nero, 2018). Questo versatile filosofo che si occupava di punk (il suo blog era K-Punk) e di cinematografia allo scopo di gettare luce sulla contemporaneità, era convinto che quel che i pazienti ci portano in analisi non sia limitato a un disagio squisitamente individuale ma dipenda dallo Zeitgeist, dallo spirito del tempo, da qualcosa di più vasto, diffuso, capillare, che investe l'insieme delle persone: un paradigma individualizzato, cinico, narcisista, un destino comune gravido di tristezza, cupezza, preoccupazione livorosa, risentimento canalizzato indebitamente verso il colpevole sbagliato. Non è un caso che le patologie psichiche più diffuse siano oggi gli attacchi di panico e le depressioni, come era stato antivisto da Deleuze e Guattari in Capitalismo e schizofrenia. Mark Fisher soffriva di depressione e si tolse la vita l'anno scorso, non aveva ancora cinquant'anni ed era troppo fragile per resistere all'onda d'urto di questo tempo. Ma le parole che ci ha lasciato sono di speranza e di resistenza.

Bauman invece, seppur sottile come un giunco sormontato dal ciuffo a sua volta esile di capelli bianchissimi, era fortissimo. Aveva compreso fin dalla più tenera età l'irriducibile prismaticità del mondo, l'incancellabilità del dolore, la vulnerabilità della condizione umana. 

 

Dalla modernità liquida alla retrotopia

 

A me preme in questa sede smentire i detrattori – spesso fintamente amabili, spesso sotto mentite spoglie – che hanno cercato di ridurre Bauman al conio di “modernità liquida”, ridotto a uno slogan e ripreso da chicchessia negli adattamenti più svariati, che è solo un tassello della sua grande costruzione. Mi è capitato con sgomento di sentir dire: “Ormai Bauman ha fatto il suo tempo, ormai il mondo si sta solidificando nuovamente, rinascono gli Stati nazione più forti di prima, gli arroccamenti più strenui e severi che mai”, dimenticando che questo nuovo assetto parziale del mondo Bauman ha iniziato a illustrarlo da anni e a preconizzarlo ancor prima che si manifestasse quando insisteva sulla fase di interregno che stiamo vivendo e sul pendolo che oscilla fra libertà e sicurezza, due necessità umane che non possono trovare entrambe piena soddisfazione. Si assiste così a un desiderio sempre più intenso di libertà allorché viene garantita la sicurezza ma viene impedita la libera espressione di sé, e senza scomodare l'ancien régime basta ricordare il pugno di ferro del padre o della scuola prima del Sessantotto per averne la percezione e la testimonianza. Una volta ottenuta una libertà assolutamente inedita nei costumi e nelle scelte come quella di cui godiamo oggi, non possiamo però non accorgerci che alla celebrazione dell'individuo “libero” si accompagna la sua sempre più estrema fragilità e l'erosione della sua capacità di coalizzarsi, di solidarizzare, di fare gruppo o partito anziché sciame, di riuscire a dare delle risposte sociali che salvino la cittadinanza oltreché il singolo individuo, che garantiscano welfare e propositività e non solo la facoltà di continuare a cambiare identità e a ubriacarsi di novità. Consideriamo l'indebolimento della situazione individuale, tanto ingigantita nelle potenzialità e nella libertà d'azione quanto scompaginata, angosciata e deprivata nei conseguimenti oggettivamente negativi della ricaduta sociale. È infatti avvenuta una retrocessione da una classe media solida, florida e stabile a uno scivolare incessante in una sottoclasse pauperizzata, privata del lavoro, confluita nella nuova legione tremante che ospita in sé la classe media e il proletariato: questa nuova classe ha nome “precariato”. In tutto questo si manifesta “la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità” (Zygmunt Bauman, Retrotopia, Roma-Bari, Laterza, 2018). La parola decisiva è “nostalgia”, definita da Svetlana Boym “un sentimento di perdita e spaesamento, ma anche una storia d'amore con la propria fantasia”, la “promessa di ricostruire una casa ideale” confondendo quella vera con quella immaginaria, una versione “restauratrice” della nostalgia tipica dei “risvegli nazionali e nazionalistici in corso in tutto il mondo, dediti alla mitizzazione della storia in chiave anti-moderna attraverso il recupero di simboli e miti nazionali” (Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, New York, Basic Books, 2001). Purtroppo però questa nostalgia è illusoria e rischia di diventare una trappola per topi.

 

C'era una sorta di prefigurazione della “nostalgia” in un libro del 2007 in cui Bauman parlava dell'essere blasé di Simmel a cui “tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco”, al cui sguardo le cose “galleggiano con l'inarrestabile peso specifico nell'inarrestabile corrente del denaro” (Consumo, dunque sono, Roma-Bari, Laterza, 2008)” e introduceva il concetto di “malinconia”: “Nel linguaggio di Simmel, quell'idea rappresenta la transitorietà intrinseca e la deliberata irrilevanza degli oggetti che vagano, affondano e riemergono  nella marea crescente degli stimoli. Tale irrilevanza si traduce, nel codice di comportamento dei consumatori, in ingordigia indiscriminata e onnivora: una forma radicale ed estrema di strategia esistenziale da ultima spiaggia che scommette su più tavoli”.

Accanto a questa “malinconia” che perdura, la nostalgia assume però un significato differente, un anelito a una riappropriazione dell'identità perduta, dell'Heimat smarrito, del riconoscimento di sé grazie a un'adesione rassicurante e salvifica. “La gente non vota necessariamente per il proprio interesse [...]. A volte può identificarsi con il proprio interesse, può succedere [...]. Ma tutti votano per la propria identità”. 

 

 

La nostalgia così come viene declinata negli Stati-nazione che più se ne imbevono, soprattutto la Russia di Putin, è l'utopia dell'età dell'oro di cui ha parlato Ágnes Heller nel saggio che abbiamo scritto insieme. “L'età dell'oro era tutto quel che l'età presente non era. Era l'incarnazione della soddisfazione di tutti i bisogni, di tutti i desideri. Un mondo libero da ogni male, odio, conflitti, dalla morte definitiva, dagli espedienti, la gelosia, l'inimicizia, la fame. Un mondo in cui gli umani vivevano in armonia sia con la natura sia fra di loro. In cui tutti gli alberi offrivano dolci frutti per ciascuno, bastava coglierli. In cui gli uomini e le donne non si vestivano in modo artificioso, in cui cantavano, danzavano e si amavano nudi” (Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo, Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell'immaginazione, Trento, Erickson, 2016). Il problema è che Le metamorfosi di Ovidio sono e resteranno vive e pulsanti come utopia rivolta a un passato mitico e mai esistito, insieme alle utopie rivolte al futuro che al momento sono azzerate perché oggigiorno non si riesce a immaginare il futuro se non in termini distopici.

Un'altra declinazione della nostalgia è quella menzionata a proposito del turismo nell'ultimo avvincente libro di Marco D'Eramo, dove la si descrive come una “malattia sociale” che “ha contagiato la modernità contemporanea al propagarsi del turismo. Nostalgia dell'autentico in un mondo inautentico, nostalgia del non alienato in un'epoca alienata. […] L'antitesi tra viaggiatore e turista è omologa a quella tra esperienza autentica e inautentica; tra comunità e società; tra solidarietà organica e meccanica” (Marco D'Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo, Milano, Feltrinelli, 2017). D'Eramo in questa sede in realtà intesse un panegirico dell'alienazione, di quell'alienazione “necessaria” “in cui il soggetto si realizza perdendosi, diviene altro per divenire la verità di se stesso”. Con coraggio coglie l'abbaglio di Hegel e soprattutto di Marx mostrando che in realtà l'alienazione è imprescindibile dal raggiungimento di un risultato eccellente quanto ambito, con la differenza che l'alienazione positiva coincide con il perseguimento del proprio desiderio, della propria vocazione, mentre Marx parlava dell'alienazione decisa dai datori di lavoro che assoggettavano l'operaio alla ripetizione dello stesso compito senza un obiettivo esorbitante dal mero pagamento della performance prestata: “Ovviamente tra l'alienazione della pianista che ripete ossessivamente le scale a lunghezza di giornate, mesi e anni, e quella dell'operaio nella catena di montaggio che avvita sempre la stessa vite c'è un abisso, anche se la ripetitività, la specializzazione estrema, è sempre la stessa. Ma è il baratro che separa l'alienazione scelta da quella subita”. Ed è proprio questo baratro che caratterizza l'alienazione della nostalgia delle masse eterodirette che abboccano alle lusinghe dei grandi pifferai alla Le Pen e alla Salvini, masse che si illudono di poter fare ritorno all'età dell'oro di quando non c'erano immigrati messaggeri di sventura nei nostri lidi, di quando tutto era perfettamente ordinato, e scandito, e salubre. 

 

Lo Stato-nazione di un tempo non esiste più, è un Leviatano difettoso e inane. In proposito, Bauman scrive: “Un Leviatano dai confini porosi e facilmente permeabili non può essere che una contraddizione in termini. Ma tale porosità e permeabilità dei confini, ormai, non è più solo un'anomalia locale contingente, ma la norma – o quasi – del nuovo (dis)ordine mondiale generato dalla progressiva globalizzazione del potere e, insieme, dal fatto che la politica conserva ancora una dimensione locale. […] La politica […] ha perso i denti che le avrebbero consentito di afferrare e maciullare forze turbolente e recalcitranti, mentre le protesi che avrebbero dovuto sostituirli si sono dimostrate deboli e facili a rompersi” (Zygmunt Bauman, Retrotopia, op. cit.). Trump, che aveva annunciato il suo sostanziale disimpegno in politica estera allo scopo di salvaguardare la sua “America First”, ha venduto 110 miliardi di dollari di armi all'Arabia Saudita. E, a proposito del pragmatismo anglosassone che dovrebbe proteggerci dalle derive del mondo, Bauman scrive: “Viviamo in un mondo in cui il pragmatismo è il massimo della razionalità: Un mondo dove 'posso, dunque devo e voglio'. Un mondo in cui la 'razionalità strumentale' di Max Weber è stata capovolta: anziché essere i fini alla ricerca dei mezzi più efficaci, ormai sono i mezzi a cercare (e di solito a trovare) le applicazioni appropriate”.

Vale la pena notare che le analogie fra il libro di D'Eramo e l'opus baumaniano sono molteplici giacché Bauman aveva più volte apparentato la figura dell'uomo della modernità liquida al turista, che fa incetta non solo di oggetti ma anche di “esperienze”, in un'ansia di inseguimento del capitale simbolico della classe immediatamente al di sopra della propria nei termini descritti da Pierre Bourdieu: se nel passato (in particolare dal Settecento) i figli dell'aristocrazia dovevano effettuare il grand tour, visitando con un precettore già edotto i luoghi che dovevano essere visti, dall'Ottocento sono i borghesi a inseguire i nobili andando a visitare (freneticamente) i luoghi d'elezione, e dal Novecento perfino gli operai, con particolare impulso dagli anni Novanta grazie ai voli low cost, si assoggettano a questa ingiunzione. Ricordiamo però che un conseguimento un tempo d'élite, una volta diventato di massa, viene svalorizzato, come la maturità classica che prima era un vessillo da tesaurizzare mentre oggigiorno neppure una laurea assicura un posto di lavoro decoroso.

 

D'Eramo comunque affronta anche un altro dei topoi baumaniani, il rovescio oscuro del turista cioè il migrante: “Un fantasma si aggira, evitato da tutti i discorsi sul turismo. E questo fantasma è il migrante. Non solo perché in prima istanza migrante e turista sono le due facce complementari, simmetriche del viaggio moderno: il turista è lo straniero che l'autoctono serve, mentre il migrante è lo straniero che viene a servire l'autoctono” (Marco D'Eramo, Il selfie del mondo, op. cit.). È senz'altro vero che l'Occidente sfrutta la manodopera a bassissimo costo degli immigrati ridotti spesso al ruolo di schiavi, e questa è una motivazione che viene addotta da taluni contrari all'approdo dei migranti nelle nostre terre. E però non si può dimenticare che proprio l'Occidente scatena le guerre per scopi economici in territori remoti da cui estrae materie prime, tesori che poi mette in viaggio per i nostri lidi, consentendo il viaggio alle merci ma non alle persone che si ritrovano senza risorse perché l'Uomo Bianco se le è portate via. Siamo al paradosso per cui si consente di viaggiare soltanto alle merci e a quegli individui del Sud del mondo che possono esserci utili: perché sono ricchi, o particolarmente intelligenti, o giovani e belli, mentre a tutti gli altri si intima di restare dove si trovano, fra conflitti e carestie.

 

Il ritorno a Hobbes, alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno

 

A un certo punto della Storia Hobbes identificò nel Leviatano l'unica possibilità di sottrarsi all'homo homini lupus, alla guerra di tutti contro tutti: lo Stato. Come abbiamo visto, però, lo Stato un tempo solerte, provvido, garante, ha oggi abbandonato i suoi sudditi ciascuno al proprio destino individualizzato, precipitandoli in una condizione di incertezza, paura, angoscia, impotenza. Le due modalità più tipiche di reagire a questo stato d'animo sono la depressione e la rabbia, il passaggio all'atto: “La morbosa forza d'attrazione esercitata dalla violenza sta nell'offrire un temporaneo sollievo al proprio umiliante senso d'inferiorità (debolezza, sventura, indolenza, irrilevanza)” (Zygmunt Bauman, Retrotopia, op. cit.). Ogni settimana in Italia leggiamo delle aggressioni di insegnanti da parte di genitori che li puniscono per essere stati ingiusti o “cattivi” con i loro figli, o di pazienti o loro familiari ai danni di medici, con una riproposizione del mondo che esisteva prima di Hobbes in cui ciascuno di noi è in guerra con tutti gli altri, in cui ci si coalizza solo temporaneamente, e “mentre gli americani non hanno ancora capito da dove piovono i colpi e chi è a infliggerli, i palestinesi hanno almeno la fortuna di poter ricondurre le loro sofferenze a un unico colpevole, denominatore comune di tutti i loro guai: l'occupazione israeliana”. 

Assistiamo alla rinascita delle tribù proprio in quanto la protezione dello Stato è venuta a mancare, e Bauman menziona in proposito Luc Boltanski a proposito del modello tribale francese caratterizzato da anticapitalismo, moralismo e xenofobia, sottolineando l'avversione di questi neoconservatori per l'État-providence troppo benevolo con gli stranieri.

La voragine di disuguaglianza che deriva dalla cancellazione progressiva di posti di lavoro trova in Bauman un sostenitore deciso della proposta avanzata dal giovane brillante Rutger Bregman del reddito universale di base, ovvero di dare direttamente il denaro a chi ne ha bisogno, poiché “i geni non si possono cancellare, ma la povertà sì”. 

 

L'ultimo disperato tentativo di “ritorno” è quello al grembo materno. Di fronte a tutti gli stimoli incessanti, le pressioni, le ingiunzioni prestazionali che si ricevono, aumenta la propensione a ricercare un proprio nirvana: “Nel buddhismo – da cui il termine deriva – 'nirvana' significa l'annullamento di aspirazioni, desideri, voglie e smanie, ma anche seccature, fastidi, assilli e tormenti: anzi, indica lo 'spegnersi' (come una candela) di tutti gli stimoli e le passioni, positivi o negativi, piacevoli o dolorosi, gratificanti o sconfortanti”. A parte l'aumento esponenziale di casi di anoressia, che consiste in un arroccamento, in una cementificazione rispetto a tutte le sollecitazioni da parte dell'esterno, è in atto un incremento significativo di persone che scelgono l'astinenza sessuale come barriera all'irrompere della sessualità tumultuosa, proteiforme e onnipresente di questo tempo.

Bauman conclude: “I fenomeni del 'ritorno alle tribù' e del 'ritorno al grembo materno' – due grandi affluenti del fiume in piena del 'ritorno a Hobbes' – sgorgano sostanzialmente dalla stessa fonte: dal terrore del futuro, incorporato nell'imprevedibile, esasperante e incerto presente. E si perdono nello stesso dedalo di vicoli ciechi. Non penso ci siano molte speranze di prosciugarli, a meno di riuscire a bloccare la sorgente da cui nascono, ossia di convincere, o costringere, l'Angelus Novus – l'angelo della storia – a voltarsi di nuovo”.

 

Questo saggio è la versione ridotta dell’Introduzione a AA: VV. “Zygmunt Bauman. I cancelli dell’acqua”, a cura di Riccardo Mazzeo, Franco Angeli Editore, 2018

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