Il carteggio tra scienza e psicoanalisi / Jung e Pauli psiche e atomi

13 Giugno 2016

Tra il 1932 e il 1957, il futuro premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli e Carl Gustava Jung, padre della psicologia del profondo, intesserono un fittissimo carteggio alla ricerca di un terreno comune tra realtà fisica (Wirklichkeit) e realtà psichica (Realität) che si rivelò per entrambi estremamente fecondo per la chiarificazione e la ristematizzazione di alcuni concetti chiave al centro dei loro futuri lavori. Ce ne rende finalmente conto nella sua interezza l’edizione italiana a cura del fisico Antonio Sparzani e della psicoanalista junghiana Anna Panepucci, recentemente uscita per Moretti & Vitali: Jung e Pauli. Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e materia, pp. 392, euro 30. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, l’incontro tra i due non fu dovuto a questioni scientifiche ma a ragioni cliniche. Wolfgang Pauli, che nel 1932 era già riconosciuto come uno dei più eminenti rappresentanti della fisica meccanica e di cui Einstein aveva pubblicamente lodato “la comprensione psicologica dell’evoluzione delle idee, l’accuratezza delle deduzioni matematiche, la profonda intuizione, la capacità di presentazione del lavoro con sistematica lucidità, la completezza fattuale e l’infallibilità critica”, viveva infatti una profonda depressione che lo portava spesso ad ubriacarsi e a sfogare la rabbia in ripetute risse notturne nei caffè di Zurigo, città nella quale aveva ottenuto la prestigiosa cattedra di Fisica teorica al Politecnico.

 

Wolfgang Pauli. 

 

Pochi anni prima la madre si era suicidata e il padre non aveva perso tempo e si era unito in seconde nozze con una “cattiva matrigna” che aveva l’età del figlio, che invece aveva visto andare a pezzi, dopo appena pochi mesi, il suo matrimonio con una cantante notturna di cabaret. I rapporti “tra le donne e me”, scriveva all’amico Wentzel, “non funzionano affatto e probabilmente non mi riuscirà mai. (…) Ho paura che invecchiando mi sentirò sempre più solo”. Preoccupato per le sue condizioni di salute, e per la reputazione di entrambi, il padre di Pauli, collega di Jung all’Università di medicina di Zurigo, gli chiese di prendere in cura il figlio. 

Jung accettò ma quando ricevette Pauli restò stupefatto dai sogni di questo paziente che definì “stracolmi di materiale arcaico”. Pauli sembrava venuto apposta per confermare la teoria alla quale Jung stava lavorando in quegli anni: l’esistenza di un inconscio collettivo costellato di archetipi ricorrenti nelle diverse culture, che osservava soprattutto nei trattati di alchimia, con i quali egli stesso si era a lungo confrontato in quello che poi chiamerà il Libro Rosso e che ora ritrovava, finalmente, nei sogni di un’altra persona. Per non rischiare di influenzarne l’attività onirica Jung decise di inviarlo in terapia ad una giovane collega – più adatta per i suoi problemi con l’altro sesso, dirà a Paul – alla quale chiede di trascrivere minuziosamente tutti i sogni del paziente (saranno ben 1300) che dovrà poi consegnargli, come egli stesso racconta in una testimonianza con la quale, giustamente, si apre il libro. Tale materiale si rivelerà preziosissimo per lo studio jughiano su Psicologia e Alchimia, centrale nell’evoluzione della sua psicologia complessa; il loro incontro costituì un mero caso fortuito o fu un felice episodio di sincronicità?

 

Carl Gustava Jung. 

 

Quest’ultimo concetto, che giusto in quegli anni Jung stava formulando e che farà la sua prima apparizione proprio in un’opera scritta a due mani con Pauli (Naturerklarung und Psiche, 1952; tr. it. L’interpretazione della Natura e della Psiche, Adelphi, Milano, 2006), ipotizza l’esistenza di una relazione acausale tra eventi apparentemente indipendenti, non necessariamente simultanei, che tuttavia l’individuo avverte come in qualche modo collegati da un nesso significativo sul piano esistenziale, aprendo la strada alla possibilità che possa darsi un’intima corrispondenza tra il piano fisico e quello psichico della realtà. 

Secondo Pauli tale fenomeno, a lungo al centro del loro carteggio, assomiglia «ai diversi tipi di forme acausali olistiche presenti in natura e alle condizioni che accompagnano il loro attuarsi», che proprio in quegli anni la fisica quantistica stava portando alla luce. Ma era innanzitutto nella loro vita che Pauli e Jung potevano osservarli all’opera (o credere di osservarli): le corrispondenze tra realtà interna e realtà esterna in Pauli erano così frequenti che i suoi colleghi di università avevano coniato la definizione “effetto Pauli” per indicare il fenomeno per il quale, in sua presenza, alcuni esperimenti non riuscivano perché i macchinari si bloccavano o, addirittura, esplodevano – e simili relazioni si manifestavano anche fuori dai laboratori e lontano dai macchinari scientifici; quanto a Jung, è piuttosto famoso l’episodio che egli stesso cita in Sogni, Ricordi, sogni e riflessioni: durante un alterco con Freud nello studio viennese del padre della psicoanalisi, Jung, risentito per la scarsa apertura di questi alle sue ragioni, sentì il proprio diaframma arroventarsi come se fosse di ferro; contemporaneamente si udì uno schianto della libreria che Jung spiegò come un fenomeno di “esteriorizzazione catalitica”; Freud considerò il fatto del tutto fortuito e si sbrigò a rubricare l’interpretazione junghiana alla voce “emerita sciocchezza”, ma Jung rispose che si trattava invece di una corrispondenza tra i due piani di realtà e che si sarebbe ripetuta a breve, come effettivamente avvenne.

 

 

 

In una lettera successiva Freud cercherà di spiegare, e convincere Jung, che si trattava di rumori che venivano da un’altra stanza, che si verificavano anche in sua assenza e in maniera del tutto indipendente dai suoi pensieri, ma i due restarono delle rispettive convinzioni. 

Il carteggio tra Jung e Pauli – che per due anni fu anche suo paziente – non intendeva tuttavia, come alcuni hanno sostenuto, offrire basi scientifiche alla psicoanalisi; certo un certo riscontro nelle teorie della fisica permetteva a Jung, come scrive in una lettera del 24 ottobre 1953, di non “passare sempre per esoterico”, ma nella stessa lettera escludeva “un inquadramento della psicologia in una fisica teorica generale, come è avvenuto per la chimica” perché, “i processi psichici non sono misurabili, senza poi contare la difficoltà epistemologica”, di saperi così incommensurabili l’uno all’altro. A Jung, e a Pauli, stava piuttosto a cuore lo sforzo comune di ricercare, ma a livello puramente simbolico, l’archetipo della “coniunctio” che infatti, a detta di entrambi, governa il loro scambio. Da questo punto di vista interessantissime, anche se non sempre comprensibili a un non esperto del settore, le associazioni libere che, proprio sul piano di un’ermeneutica simbolica, compie Pauli in quelli che definisce i suoi “sogni di fisica”. La scoperta e la crescente familiarizzazione con i simboli dell’inconscio svelò a Pauli che la realtà che la fisica indagava costituiva “una sezione unidimensionale di un mondo bidimensionale dotato di senso, la cui seconda dimensione non poteva che essere costituita dall’inconscio e dagli archetipi”, e gli permise di prendere in esame i vantaggi di una prospettiva che “sacrifica l’obiettività” in favore della “completezza”, stimolando tesi che discusse con Bohr e Einstein e che poi lo condurranno alla formulazione di quel “principio di esclusione” che gli varrà il Nobel 1945.

 

 

 

Analogamente Jung si sentì enormemente arricchito da uno scambio che, come scrisse, aveva dato “un cuore nuovo” alle sue intuizioni e alla sua ricerca. Particolarmente “illuminante” gli apparve l’idea che “nella fisica quantistica l’archetipo vada ricercato nel concetto di probabilità (matematica), cioè nella concordanza di fatto tra il risultato atteso, calcolato con l’aiuto di questo concetto, e le frequenze misurate empiricamente” esattamente come, osserva Jung, in chiave psicoanalitica “l’archetipo non rappresenta altro se non la probabilità dell’accadere psichico. In una certa misura, è il risultato, anticipato per immagini, di una statistica psichica” (lettera 49). Troverà geniale la metafora, del Sé come un "nucleo radiattivo" e il concetto fisico di “campo”, “all’interno del quale qualsiasi variazione in ogni punto si tira dietro una variazione in tutti gli altri punti”, come particolarmente calzante per la relazione analitica e farà proprio, con crescente convinzione, il costante invito di Pauli ad estendere la psicoanalisi ben oltre la sfera clinica.

 

Va inoltre sottolineato come Pauli, divenuto direttore del comitato scientifico dell’Istituto Carl G. Jung di Zurigo, si sia battuto (appendice 9) affinché gli psicoanalisti si sottoponessero a loro volta a una terapia analitica, sottolineando un’esigenza che allora non trovò accoglienza ma che oggi costituisce un obbligo e una prassi consolidati.

 

Il loro confronto, che si spinge a toccare i vertici della filosofia, della teologia, della fisica e della psicologia del profondo, mostra quanto proficuo possa essere un dialogo che non miri a dimostrare, convincere o persuadere, ma si disponga, direi quasi con fare analitico, all’ascolto dell’altro da sé, alla comprensione delle sue specificità e alla ricerca di un terreno comune, che poi è l’umano incontro. Una strada che i nostri saperi, sempre più specialistici e parcellizzati, potrebbero faticare a ripercorrere ma che, proprio per questo, dovrebbero intraprendere.

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