Sogna Narciso sogna

8 Luglio 2024

Quando mi è stato proposto di recensire l’ennesimo libro sul Narcisismo sono stato un po’ scettico, anche se il fatto che uscisse come primo testo della collana della SPI, Società Psiconalitica Italiana, mi incuriosiva e mi sembrava meritasse attenzione. In effetti sono bastate le prime righe del primo contributo di questo testo collettaneo per sciogliere i miei dubbi perché poneva immediatamente la questione sotto una luce interessante e poco battuta. Nella sua introduzione Sarantis Thanopulos, Presidente della SPI, spiegava infatti che «Ci sono due forme di narcisismo e sono tra loro opposte, antagonistiche. La prima è pulsionale, origina dal legame tra corpo e psiche ed è espressione di vita. La seconda origina da un assetto psichico rigido che, trovandosi in condizioni di grande precarietà (perché non riesce a risolvere le tensioni destabilizzanti che lo ingombrano), si difende ritirando il suo investimento erotico dal mondo. Il ritiro limita drasticamente lo spazio delle relazioni vitali del soggetto e produce inerzia, “morte” psichica in presenza di un corpo biologico vivo. Sulla scena della nostra epoca la seconda forma del narcisismo sta eclissando la prima». Anche se la complessità delle forme che può assumere il narcisismo è stata oggetto di molti interessanti studi, molti dei quali recensiti o oggetto di discussione nelle pagine di questa rivista online, l’osservazione di Thanopulos mi è parsa particolarmente interessante per l’attenzione che pone alla possibilità di iscriverli in due orizzonti di senso opposto, a seconda della forma che assumono, ma di rivolgersi ad entrambi, a me pare, con compassione. Pensiamo infatti spesso alla categoria psicologica, prima che clinica, di narcisismo come ad un dito puntato sulla persona etichettata per la sua autoreferenzialità, ma dietro al narcisismo si cela sempre una ferita – e non sempre semplicemente narcisistica – e, come per ogni patologia, una responsabilità ambientale. Se il narcisismo interessa tanto la nostra società è perché è specchio di una tendenza che potremmo definire autoimmune, nel senso che appare caratterizzata da una logica operativa che, nel tentativo di difendersi da quanto teme, finisce in realtà per minare le nostre difese e porre le basi per una nostra futura impotenza e per una sicura infelicità. È di questa tendenza, di cui il narcisismo è una delle più evidenti espressioni, che occorre tornare ad occuparci, del sempre più diffuso ritiro dal mondo, in forme difensive peggiori del male che si vorrebbe evitare e che, per l’appunto, “produce morte psichica in presenza di un corpo biologico vivo”, nel tentativo di sollevare il soggetto dalla sua apparente fonte di sofferenza: la vita.

Nel suo L’io minimo, Christopher Lasch ne aveva parlato, tra i primi, come di una mentalità di “sopravvivenza psichica in tempi difficili” a sottolineare il contesto culturale che innervava questa tendenza e contribuiva ad alimentarla. Forme del Narcisismo. Teoria e clinica della contemporaneità, volume curato da Alfredo Lombardozzi, Elena Molinari e Roberto Musella e promosso dall’esecutivo della PSI e dalla redazione della Rivista di Psicoanalisi (Cortina, 2024, pp. 337) convoca ben 23 autori su questo tema, a partire, mi pare, da questa preoccupazione e dalla conseguente tendenza ad avvertire la necessità ad ampliare lo sguardo su un fenomeno tanto clinico quanto sociale. Per questo il testo si propone di far dialogare, a partire dalle differenze professionali, l’esperienza clinica, gli orizzonti teorici, le mitologie e le immagini della società attorno a questo tema divenuto ormai una categoria sociologica di cui vengono denunciate anche le responsabilità politiche. A Rachael Pelz, ad esempio, il Narciso odierno appare sintomo di soggetto esposto a una realtà sempre più caratterizzata da una perdita “di reti di protezione sociale, all’erosione della vita pubblica e alle molte minacce che ci opprimono mentre fronteggiamo le insicurezze della vita lavorativa, al mantenimento della salute, alla perdita di opportunità formative, alla risorse naturali disponibili e alla qualità calante di tali risorse, alla perdita di tutela e di opportunità per i nostri figli.

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Queste numerose perdite sono la conseguenza dell’aver concesso alle esigenze di mercato di prevalere sui bisogni della relazione”. Il narcisismo appare così l’esito di quello che, provocatoriamente ma efficacemente, Pelz, definisce “un dolore a cascata”, rifacendo il verso all’ultraliberista “economia a cascata” sviluppatasi negli USA negli anni Ottanta. Nelle sue intenzioni (ma c’è da crederci?) tale riforma avrebbe dovuto vedere i benefici fiscali concessi ai ricchi ricadere con un positivo effetto a cascata sull’intera popolazione, ma “determinando la devastazione di molti settori della società americana”, ha piuttosto dato vita a una sperequazione di risorse, privilegi e disparità senza precedenti per quell’ormai famoso 1% del mondo, con effetti disastrosi per il restante 99% che si è visto, in forme diverse, deprivato di risorse, possibilità, diritti e opportunità. Dopo una breve disanima delle possibili ricadute psicologiche di questo scellerato e squilibrato indirizzo politico, l’autore conclude con un’analogia, tanto calzante quanto inquietante, proposta da Donald Winnicott, tra quanto accade nell’ambiente familiare nei primissimi anni vita del bambino e quanto, con ogni probabilità, si riverbererà in futuro nell’ambiente più vasto del mondo sociale, com’è noto, nella sua prospettiva esito e calco di quello originario. Scrive Pelz: 

«le conseguenze della privazione di forniture ambientali necessarie al sostegno della famiglia, molto simili a quelle necessarie per il sostegno dei figli, ha preparato il terreno al realizzarsi dell’avvertimento profetico di Winnicott secondo il quale, in caso di assenza di fornitura sociale di cure attente e continue e di contenimento resiliente e responsivo, i bambini avrebbero sofferto e la loro sofferenza sarebbe esplosa una volta raggiunta l’età adulta suscitando, con le parole di Winnicott “la compulsione ad acquistare potere o il bisogno di essere controllati”. Potremmo semplicemente dire; e il resto è storia». 

La necessità di allargare lo sguardo oltre la relazione analitica per provare a comprenderla all’interno delle relazioni ben più ampie che la sottendono caratterizza anche il contributo di Laura Ambrosiano che la riconosce, di per sé, come una risorsa rispetto alle identificazioni adialettiche del narcisismo caratterizzato, com’è noto, da un vissuto di estraneità a tutto e a tutti, sostenuto da un’ideologia che invita a pensare l’essere umano come indipendente, irrelato dal contesto, capace di bastare a se stesso e di performare sempre meglio, possibilmente in competizione con gli altri. Serve piuttosto, come invita a comprendere Miguel Benasayag (Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, 2018) una clinica dei legami che ci aiuti a riconoscerli come risorse e non come ostacoli ma, ancora più radicalmente, una cultura della complessità (Edgar Morin) che riveli il carattere intrinsecamente relazionale di ogni forma di vita, sia sul piano interpersonale che su quello intrapersonale, che non può né essere compreso, né tanto meno realizzarsi, al di fuori di questa “tessitura del tessuto del mondo” che i buddhisti chiamano “Tantra”. 

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Un ulteriore effetto di ricaduta psichica individuale di quella che potremmo considerare una disfunzione politico-culturale, è dato dalla frenetica spinta alla performatività che, osserva ancora Thanopulos «accelera tutte le forme dei sentimenti, dei pensieri, delle azioni, delle comunicazioni e delle relazioni. Abbreviando le distanze non fa risparmiare tempo, ma lo consuma. Riduce drammaticamente il tempo libero o lo destina all’evasione dall’esperienza vissuta. Lo rende di fatto “tempo morto”, inerziale. Ciò che non è veramente vivo, l’essere umano conformato all’idea della macchina, non ha paura di morire, teme solo che il suo funzionamento si inceppi. Preso nelle maglie del narcisismo desoggettivante il rapporto con la realtà, l’essere umano diventa un “morto vivente”: morto in profondità [rispetto al proprio sentire anestetizzato], vivo artificialmente in superficie».

Di nuovo l’autore pone l’attenzione sulla relazione, centrale sin dalle intuizioni di Freud, tra narcisismo e lutto (Lutto e Melanconia, 1917) oggi amplificato da una cultura che ha cancellato la morte e più, in generale, il limite, al quale il libro, in una polifonia di voci, dedica alcune delle sue pagine più interessanti. La precarietà dell’elaborazione del lutto può cambiare il destino dell’amore e, in particolare, di quell’amore di sé che, sotto forma di narcisismo primario, è bene coltivare per potersi poi aprire a una sana capacità di amare gli altri ma che, inadeguatamente sostenuto, può sfociare in un “narcisismo di morte” (André Green, Narcisismo di vita, Narcisismo di morte, Cortina, 2018) che deprime l’eros e chiude l’individuo in un ritiro difensivo dal mondo delle relazioni, di cui il fenomeno dell’Hikikomori costituisce forse l’apice, ma che trova un’altra sua evidente manifestazione nel dilagante disinteresse giovanile per il sesso di coppia, a favore della masturbazione. Naturalmente l’autoerotismo di per sé non esclude la relazione intrapsichica e può anzi essere anche un modo per sentire e mantenere psichicamente viva la relazione a distanza, ma la masturbazione narcisistica appare slegata dal desiderio e piuttosto appiattita sul bisogno: “la scarica della tensione spiacevole che produce sollievo” dentro “un’inibizione radicale nei confronti del coinvolgimento erotico profondo” e una sterile concentrazione su di sé. E le cose non sembrano cambiare di senso nel caso del sesso con l’altro, caratterizzato dalla medesima “logica del bisogno distrugge la differenza dell’altro ridotto a strumento di liberazione da una tensione o percepito come tensione di cui liberarsi”. Non è difficile scorgere sotto queste dinamiche consumistiche della sessualità, spesso ossessionate o inibite dalla prestazionalità e caratterizzate da una sempre più diffusa anorgasmia, la difficoltà, quando non addirittura l’incapacità, di lasciarsi andare nella relazione con l’altro. 

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Per questo, una clinica psicoanalitica che intenda farsi carico di tali fenomeni, di cui riconosce la natura sociale, non può che pensarsi anche come “una sacca di resistenza contro l’inumanità del nuovo ordine economico mondiale (…) nella convinzione che ciò che succede oggi al mondo è sbagliato e che quello che spesso ne viene detto è una menzogna”. Sono parole dello scrittore John Berger che tuttavia Pelz fa sue. A indicare uno stato di salute mentale non contribuisce forse anche la capacità di effettuare un buon esame di realtà? In quest’ottica Laura Ambrosiano propone di considerare gli psicoanalisti come degli “eroi capovolti, capaci di passare accanto alle mentalità dominanti senza lasciarsene impregnare troppo, ponendosi come testimoni sospesi, inviati speciali dell’umanità”, individui capaci di cogliere “le molteplici e contraddittorie risonanze del contatto con la realtà, lasciandosi emozionare ogni volta”, specie grazie alla coltivazione della pratica del pensiero associativo e alla dialettica tra ordine e disordine, al centro, a suo dire, dell’esperienza analitica. È certamente una strada, anche se un po’ in odore di inflazione psichica. Un’altra è accogliere e interrogare ciò che, di questa cultura, alberga in noi, per operare un tentativo di decolonizzazione, nella consapevolezza però che, come diceva Jung, “nessuno resta fuori dall’Ombra del suo tempo”. 

Certo il sapere psicoanalitico, intendendo con questa espressione la consapevolezza che emerge dalla pratica dell’esperienza analitica e non dallo studio dei suoi testi, e neanche dalla loro applicazione agli scenari collettivi a mo’ di sociologia spicciola, può costituire un valido antidoto a quelle tre caratteristiche che secondo Green caratterizzerebbero il narcisismo di morte: 1. l’indifferenza affettiva, una sorta di anoressia psichica caratterizzata dalla perdita di investimenti oggettuali, che però non soddisfa, non fa sentire al sicuro nella fortezza della propria indipendenza, ma piuttosto fragili, in pericolo, soli; 2. la scissione della coscienza dalla percezione, che ne esce sconfessata da fenomeni di scissione psico-emotiva per tenersi lontano da quanto ci inquieta; 3: la psicofobia. Vengono in mente i profili normopatici descritti da Bollas, versione riveduta in termini psicologici di quelle che Heidegger definiva “esistenze inautentiche” impegnate a delegare ad altri la guida della loro vita, a pensare e sentire come Si pensa e Si sente, e a tenersi lontani da ogni tentazione di problematizzare ciò che superficialmente chiamano realtà. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a persone “anormalmente normali, totalmente disinteressate alla vita soggettiva, concentrate sulla realtà concreta o ai dati relativi a fenomeni concreti e tenacemente ostili a domande e riflessioni” (Chirstopher Bollas, L’ombra dell’oggetto, Cortina 2018). 

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Paesaggio montano con Narciso, Giacobbe Pynas © The National Gallery, London.

Occorrerebbe, piuttosto, divenire problemi a se stessi, come invitava a fare Agostino d’Ippona; meglio ancora, coltivare nel dialogo con gli altri quelle domande esistenziali senza le quali, secondo Socrate, nessuna vita potrebbe considerarsi degna di essere vissuta ma ricordandosi che per il filosofo ateniese, l’interrogazione doveva poi instradare verso uno stile di vita consapevole che le fosse più consonante; riconoscersi animali politici e irriducibilmente relazionali, come insegnava Aristotele; apprendere che posso sapere chi sono e non cosa sono solo nella relazione con l’altro, come ricorda Hannah Arendt e come appare con chiarezza da ogni filosofia dialettica; comprendere come il Sé che siamo sia costitutivamente abitato dall’Altro (Hegel ben prima di Rimbaud, Lacan e Girard) e come possa comprendersi solo come Altro (Ricoeur). Ma ancora di più comprendere l’essere umano come onnilaterale (Marx) e ripensarne l’essenza in termini di ricorsività grazie alla teoria della complessità di Morin, per comprendere che non si può capire il narcisismo isolando l’individuo dalla rete di relazioni che lo sostanziano e che non si può di conseguenza pensare neanche una clinica efficace che non faccia altrettanto. Per questo stupisce che il libro, che pure dichiara nelle sue prime pagine di aver voluto mettere insieme “psicoanalisti ed esperti di altre discipline”, veda contributi di psicoanalisti, psicologi, psichiatri, neuropsichiatri e medici, ma non filosofi, con l’unica eccezione di un’intervista al filosofo Salvatore Natoli, messa quasi a fine libro a mo’ di appendice. Se si vuole superare la frammentazione delle identificazioni parziali di cui il narcisismo è espressione occorre lavorare a un pensiero che superi gli specialismi per cercare di cooperare a una prospettiva multiforme e d’insieme. 

Un sogno? Può darsi; ma il sogno, come spiega Thanopulos, “mette in gioco il desiderio e spinge a ritrovarlo in altre modalità, in altre forme e implicazioni. Sognare toglie l’oggetto perduto dalla sua deperibilità, lo colloca nello spazio della potenzialità e lo rimette nel movimento trasformativo della vita” e in questo modo “riattiva la voglia di vivere che tutto rinnova e tutto ripara”. Coltivare un simile sogno può aiutarci a uscire dall’incubo del narcisismo e del contesto sociale di cui è figlio, prima ancora che specchio.

In copertina, Seguace di Giovanni Antonio Boltraffio, Narciso alla fonte, 1500 ca.,© The National Gallery, London.

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