Politiche, 4 marzo 2018 / LeU: missione impossibile

6 Marzo 2018

Si potrebbe dire, un po' per celia in po' sul serio, che in politica l'ex magistrato candidato non porta bene. E men che meno l'ex presidente di una delle camere... Ma sarebbe ingeneroso per le persone, oltre che superficiale per la storia (e la politologia).

 

In realtà il pessimo risultato di LeU viene da lontano. Prescinde, almeno in parte, da errori di conduzione della campagna elettorale (che pure ci sono stati, in alcuni casi anche gravi, come la dichiarata disponibilità a partecipare a un "governo di scopo"). E affonda le radici nel modo tutto sommato meccanico, da fusione a freddo tra gruppi dirigenti, esente da emozioni e partecipazioni "di popolo", con cui la lista è nata (simmetrico, tutto sommato, alla solitudine da numeri primi che aveva accompagnato le fasi della scissione, anch'essa a freddo, lontana dai turbamenti passionali che in altri tempi avrebbero accompagnato un evento del genere). Scissione (e rilancio sul terreno elettorale), d'altra parte, tardivi, messi in atto quando ormai tutte le mucche se n'erano andate dalle stalle del Nazareno e dallo stesso corridoio (direbbe Bersani), e il tarlo renziano aveva consumato per intero il residuo rapporto tra quello che restava del Partito democratico e quello che avrebbe dovuto essere il suo naturale insediamento popolare, mondo del lavoro e ceto medio-basso, operai, impiegati soprattutto pubblici, insegnanti... Un cammino tutto sommato solitario di vecchi leader storici rimasti senza casa e di giovani leader senza storia aggrappati alle proprie casette. L'intera operazione è così apparsa a molti più un modo di metter su in fretta e furia un accampamento di fortuna per profughi dalle passioni spente che non un progetto appassionante di nuovo inizio.

Ma forse anche questo è un modo, impietoso (cioè privo di pietas) e frettoloso di liquidare una tragedia almeno in parte annunciata, consumata tra l'altro nel quadro della più ampia tragedia dell'intero nostro Paese in questa elezione di svolta sistemica. Ed è più indietro nel tempo, e più in largo nello spazio politico, che bisogna cercare. Nella crisi della sinistra – della sinistra tutta intera, non solo italiana ma europea, e occidentale, la famiglia allargata dei socialismi –, che non ha saputo sopravvivere alla mutazione di fine-secolo, e ha abbracciato acriticamente la globalizzazione neo-liberista come fosse l'Angelus novus della Provvidenza progressista. E dentro quella crisi "epocale", la crisi locale del Pd, in fondo nato morto, fin da quando Walter Veltroni gli fece da ostetrica dal palco del Lingotto, generando una creatura senz'anima, una formazione politica senza cultura politica perché ignara delle due culture che chiamava a fondersi, quella cattolica e quella social-comunista, più attenta a piacere alla gente che piace che a definire se stessa, più impegnata nella comunicazione che nella pratica sociale e nella rappresentanza. Quando è arrivato Matteo Renzi quel partito era già in coma, aveva già consumato tutte le proprie scissioni dal proprio popolo e dal popolo tout court (ricordate il governo dei tecnici chiamati a fare il lavoro sporco con delega mai negata?). Per questo lo acclamarono come fosse il salvatore della patria, e invece era Terminator, venuto con arroganza e retorica populista a chiudere la partita e liquidare il patrimonio.

 

È stata quella successione di atti compiuti o mancati, quel tormentato decennio che ci separa dal fatidico 2007, che ha definitivamente reso la parola sinistra odiosa al proprio ex-popolo, provocando quella secessione tipicamente populista del popolo dal proprio vecchio contenitore. E sarebbe stata davvero mission impossible far rientrare nel tubetto quel dentrifricio così ampiamente spremuto fuori. Si spiega così la ragione per cui dell'imponente emorragia subita dal corpo lacerato del Pd, solo una minima parte è stata intercettata da LeU: meno di un terzo, in molti casi meno di un quarto (in Piemonte dei 170.000 voti persi dal Pd Leu ne raccoglie solo 85.000, in Veneto 70.000 su 200.000, in Liguria 35.000 su 100.000, in Emilia Romagna 104.000 su 350.000, in Campania 81.000 su 300.000, in Sardegna 25.000 su 100.000! Il resto ha scavalcato la prima cintura e se n'è andato lontano, verso le bandiere gialle 5 stelle e quelle verdi di Salvini. Per questo temo che non siamo solo di fronte all’insabbiamento di un convoglio di profughi. Siamo di fronte all'implosione di un'intera galassia che si chiama, appunto, sinistra.

 

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