Musei da vivere: Albini, BBPR, Bo Bardi, Scarpa

15 Ottobre 2022

Alzi la mano chi ha nostalgia della precedente collocazione della Pietà Rondanini nel Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano. 

Scommetto che le mani sarebbero numerose. 

Con tutto il rispetto per le buone intenzioni (di cui è sempre lastricata la strada dell'inferno) che hanno animato i suoi nuovi curatori ed allestitori, la disposizione 'chiesastica' della scultura da loro realizzata nel 2017 che la vede specialmente quale simulacro religioso innalzato su un altare e non più come opera d'arte assoluta, quale è, addirittura con le panche per gli oranti a fronteggiarla nell'immensa aula 'ecclesiale' dell'Ospedale degli Spagnoli, lascia assolutamente perplessi, per non dire sconcertati. 

Ohibò, vien da dire. 

Perché questa sua nuova collocazione, oltre a mancare totalmente di fascino ha anche privato l'opera del mistero del 'rinvenimento' che invece la connotava nel 'vecchio' sito, progettato dai BBPR. Là sì che si era invitati a scoprirla, sorpresa tra le sorprese, soltanto al termine del percorso museale e a disvelarla, giunti alla Sala degli Scarlioni, contenuta come era, a mo' di perla rara, entro la valva di quell'ostrica formata dal diaframma semicircolare della quinta che la circondava su tre lati, magistralmente concepita dai tetrarchi milanesi dell'architettura. Allora sì che al solo vederla dava il batticuore. Girandole attorno, piano, piano, poi, se ne scoprivano i dettagli. Si ammiravano le rudi, sublimi incompiutezze del 'non finito' michelangiolesco. Si contemplavano i segni delle sue energiche martellate che quasi ce ne facevano percepire la fatica e il sudore della fronte mentre le assestava in preda al noto furor

Pareva addirittura di vederlo, Michelangelo, all'opera. E ad accompagnarne il ritmato picchiare del martello sul marmo, a me sembrava persino di udirne la voce (che immaginavo simile a quella di Carmelo Bene, solo un poco più roca), volitiva e invasata, intenta ad esortare la forma ad uscire fuori dalla pietra da cui voleva liberarla, convinto che in essa fosse tenuta prigioniera fin dall'origine dei tempi. 

Quella roccia di cui è fatta la statua, infatti, è scheggia di Apuane, frammento di scaturigine, è memoria del suo esser stata materia pura prima di diventare quel che è per sortilegio delle maestre mani buonarrotiche.

E che dire del basamento su cui poggiava? 

Blocco di pietra scolpita nel rude medioevo bambino. Segno di continuità, anello di congiunzione fra l'antica classicità romana e questa rinascimentale, a significare che fra di esse non vi è mai stata cesura, ma un lento, inesorabile ritorno alla medesima armonia: di misura, di grazia, di bellezza, di pathos. 

Di tutto questo ci narrava l'allestimento dei BBPR (1947-1956) che, istruendoci, ci faceva sognare. 

Come non averne nostalgia? 

Come non sentirne la mancanza? 

Come non patirne la privazione?

Anche di quell'allestimento museale tratta il volume di Orietta Lanzarini, The Living Museums (Nero edizioni, pp. 272, € 25) insieme a quello di altri tre musei d'arte, progettati, rispettivamente, da Lina Bo Bardi (il MASP, 1957-1969), da Franco Albini (la Galleria di Palazzo Bianco di Genova, (1949-1951) e da Carlo Scarpa (la Gypsotheca Antonio Canova di Possagno, 1955-1957: a proposito di Canova va segnalata la mostra che gli dedicano  i Musei Civici di  Bassano del Grappa in occasione del bicentenario della sua morte, 13 ottobre 1822). 

Ad eccezione del MASP, che non ho visitato di persona, ma che ho studiato con passione, ho frequentato più volte gli altri tre luoghi espositivi: li ho amati e li ho prediletti in assoluto. 

Come ben sintetizza la prefazione al libro, a firma di Stefano Collicelli Cagol, fra questi quattro luoghi espositivi, al di là delle loro profonde differenze, vi è un minimo comun denominatore che ha indotto la studiosa italiana di architettura ad accostarli nel suo saggio.

Così Collicelli Cagol:

"In tutti e quattro i casi, gli autori disarticolano la relazione primaria di potere tra museo e ricerca storico-artistica. [... In essi] l'intento educativo all'arte non è mai nozionistico, come spesso accade nel caso dei musei, ma piuttosto di tipo morale: fare partecipe della gioia ma anche della raffinatezza chiunque si confronti con i valori estetici selezionati e sottolineati di volta in volta dagli allestimenti. [... Inoltre,] Lanzarini aggiorna la letteratura con un lavoro magistrale sulle fonti visive degli architetti oggetto di questo studio proponendone una lettura che si discosta dalle precedenti e facendo della Storia la grande protagonista del suo rapporto con il futuro. [...] Come sottolinea Lanzarini, è la vocazione educativa di riportare nel presente dei valori estetici universali, prodotti però nel passato, lo snodo grazie al quale i quattro progetti possono essere letti insieme."

Un altro elemento in comune fra questi quattro musei d'arte è il tempo storico e culturale in cui sono stati concepiti: gli anni cinquanta e sessanta del novecento, quando in Italia ferveva il dibattito sui beni culturali, animato da contributi critici di personalità della levatura di Giulio Carlo Argan, e dello stesso Ernesto Natan Rogers, arricchiti successivamente da quelli insostituibili di Andrea Emiliani.

Fu addirittura un testo di Ernesto Nathan Rogers, apparso su Casabella Continuità, ad ispirare l'intento didattico da cui dovevano essere informati i musei italiani nel piano del loro aggiornamento, avviato nel 1945 e protrattosi per circa un ventennio:

I musei devono essere "degli organismi architettonici concepiti per conservare i documenti dell'esperienza storica non come cose morte per sempre ma tali che, pur uscite dal ciclo attivo della vita, siano degne di essere mostrate e studiate ancora" affidando alle sopravvivenze storiche della cultura materiale un ruolo attivo anche nel presente.

E così Giulio Carlo Argan: "La tutela del patrimonio artistico non può in nessun caso ridursi a un caritatevole ricovero di opere d'arte senza casa."

Così, a proposito del ruolo del museo, scrive Emiliani in un suo famoso saggio:

"Sembra davvero che questo vecchio strumento, nato alla sua effettiva vita sociale sul finire del XVIII secolo, riacquisti oggi tutta l'importanza che decenni e decenni di disinteresse e anche di ignoranza avevano cancellato. Il museo è oggi, infatti, il luogo campione del lavoro culturale che pretende anche la sua incancellabile accezione produttiva. Il museo è insieme il punto forte, atletico di quella strategia di immagine che, una volta di più, le aree sociali e culturali del mondo, dal Giappone al Pacifico, dalla vecchia Europa ai paesi già dell'Est o addirittura della Cina, mettono a regime per affrontare il futuro: il futuro delle comunicazioni e delle relazioni, il futuro degli scambi e del turismo. il futuro, appunto, dell'immagine."

Tra i quattro musei d'arte esaminati da Lanzarini nel suo libro, il MASP è l'unico interamente progettato ex novo ed è anche il solo a non trovarsi in Italia, sebbene sia opera di una architettrice italiana (romana di nascita, milanese di formazione). 

Nel nostro paese, infatti, accade di sovente che i musei vengano ospitati in palazzi storici, come è per due degli altri tre censiti nel volume. Il Museo di Arte Antica di Milano, di cui si è detto, abita infatti nientemeno che gli appartamenti e il gabinetto di lavoro degli Sforza, signori di Milano, siti, appunto, nel castello che del loro casato porta ancora il nome. Un altro sta(va) invece nel nobiliare Palazzo Bianco di Genova. Mentre la Gypsotheca di Possagno occupa da sempre il fabbricato-laboratorio annesso alla casa natale dello scultore, dove volle collocarla suo fratello, Giovanni Battista Sartori, dopo la morte dell'artista, facendo trasferire lì anche tutti i modelli in gesso che si trovavano nel suo Studio romano. 

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Milano, Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco, Sala degli Scarlioni, Pietà Rondanini di Michelangelo nell’allestimento dei BBPR (1947-1956).
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Genova, Galleria di Palazzo Bianco, Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, nell’allestimento di Franco Albini (1949-1951).

Se si esclude la Nike di Paionios, non vi è nella Storia dell'Arte scultura più eterea e lieve dell'Elevatio animae di Margherita di Brabante, scolpita da Giovanni Pisano. (Qui su Doppiozero ).

Entrambe sono opere mutile, ma la grazia delle loro forme è impressa in ogni centimetro dei loro frammenti superstiti come fossero degli oggetti frattali. E ci voleva un poeta dell'architettura, un uomo colto e sensibile alla bellezza, in quanto capace di crearla a propria volta, quale fu Franco Albini per esaltare al massimo grado quella di Margherita veicolandola fino a noi.

Protesa, sospesa, lieve, eterea, Margherita di Brabante sta sul piedestallo che la sorregge concepito dal maestro milanese, protesa verso il cielo, sospesa dal suolo, lieve come marmo fattosi nuvola, eterea nel suo viaggio verso l'altrove.

"Operare sui vuoti con l'aria e con la luce, imprimere vibrazioni all'atmosfera" ha detto Albini in un convegno a proposito dell'architettura dei musei ed è proprio quello che egli ha fatto a Genova, in tutti e tre i suoi interventi museali (Galleria di Palazzo Bianco, Museo del Tesoro di San Lorenzo – con Franca Helg –, Museo di Sant'Agostino, con Franca Helg, Antonio Piva e Marco Albini). 

"Albini sposta il fuoco dall'opera d'arte – capace di esprimere autonomamente il proprio messaggio – allo spazio espositivo che accoglie colui che la osserva: ambientare il pubblico, entrando direttamente in rapporto con la sua sensibilità con la sua cultura con la sua mentalità diventa l'obiettivo che anima l'intera operazione di riordino dei musei genovesi a cominciare da palazzo Bianco", scrive Lanzarini nel suo libro (in corsivo le parole di Albini).

Se è l'aria a concorrere da protagonista agli allestimenti concepiti da Franco Albini, a presiedere quelli di Carlo Scarpa e di Lina Bo Bardi è invece soprattutto la luce, sebbene concepita in modi differenti: zenitale e laterale (da lui definita museale), quella di Scarpa, diffusa, avvolgente e naturale quella di Bo Bardi.

Ma insieme alla luce, i loro due musei qui esaminati hanno in comune anche il fatto che i loro autori non sono intervenuti soltanto nella parte espositiva, ma anche nell'architettura: Scarpa progettando l'Ala Nuova della Gypsoteca, in cui ha praticato i suoi famosi tagli nelle pareti, e Bo Bardi costruendo l'edificio del MASP dalle fondamenta.

A proposito dei suoi tagli di luce, così ne ha detto lo stesso Carlo Scarpa in una intervista del 1972:

"Nella sala grande [dell'ala nuova] immaginavo una luce che venisse dall'alto, ma non fatta dai lucernari soliti che normalmente sono difettosi, portano contributi negativi dal punto di vista delle piogge. E ho inventato questa finestra angolare che rientra dentro, per non avere la vetrata esterna. Invece di farne quattro simmetriche, perché qui sul lato opposto non avevo la medesima statura, ho pensato di fare quella cosa lassù [la coppia di finestre angolari a forma di cubo], in alto, che mi sembra piuttosto suggestiva. Il giorno dell'inaugurazione il cielo era azzurro bellissimo e sembrava – i cristalli erano molto tenersi ben puliti – che fosse tagliato a fette."

Quali complementi dell'allestimento della Gypsoteca, affinché i volumi delle sculture si stagliassero, netti, in tutta la loro bellezza, Scarpa non solo ha scelto la piena luce del sole, ma vi ha aggiunto il colore bianco delle pareti.

Per quanto riguarda la luce, così si è espresso lui stesso: 

"Le sculture non erano né di legno, né di marmo, ma erano tutte di gesso, materiale amorfo che soffre solo delle intemperie e dell'umidità e quindi poteva benissimo essere esposto al sole." (in Franca Semi, A lezione con Carlo Scarpa, pag. 189)

A me, poi, visitatrice appassionata, quel trionfo di bianco che domina in tutti gli ambienti del museo, tanto nei vecchi come nel nuovo, pare essere una citazione che l'architetto veneziano ha voluto fare del dettato del total white di Winckelmann a cui lo scultore trevigiano si era incondizionatamente votato. Un omaggio 'filologico' insomma del grande maestro moderno all'immenso maestro neoclassico suo corregionale. 

Almeno mi piace pensarlo.

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Possagno (Tv), Gypsoteca Canoviana, l’Ala Nuova progettata da Carlo Scarpa (1955-1957).
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São Paulo, Museu de Arte (MASP) progettato da Lina Bo Bardi tra il 1957 e il 1969.

Sull'Avenida Paulista di São Paulo, la nostra Lina Bo Bardi concepisce il suo museo come un grande parallelepipedo di calcestruzzo e vetro che sembra sospeso nel vuoto, sorretto come è da due giganteschi pilastri-trave rossi a forma di C. Una scatola di luce elevata dal suolo, insomma, collocata a mezza strada fra la terra e il cielo. Inoltre, a voler ben guardare, questo prisma reca in sé la memoria di un’antica stoà greca, quel luogo pubblico della polis dove gli artisti potevano mostrare a tutti le proprie opere, qui con tanto di agorà antistante (e sottostante), ancora oggi prediletta dal popolo paulista quale sede di eventi canori e di manifestazioni a carattere collettivo. Ma ricorda anche un monumentale altare arcaico, nel quale si celebra il rito laico dello scambio creativo tra gli umani. Quasi fosse un fratello moderno del mitico Altare di Pergamo, dove a fare le veci di Zeus Sotér, cui quello ellenistico è dedicato, c'è invece l'Arte intesa come salvatrice dell’umanità e al posto di Atena Nikephor, a portare la vittoria, non già sui Galati, ma sull’ignoranza e sull'isolamento, c’è la Cultura condivisa (cfr. qui su Doppiozero).

La luce presiede anche all'allestimento dei quadri esposti, che paiono galleggiare nell'aria, sopraelevati come sono dal suolo, appesi su lastre di cristallo sorrette dai famosi cubi di cemento. La loro collocazione non cronologia nell'unico, vasto, ambiente del museo, poi, dà vita a spazi ‘fluidi', aperti a possibilità di fruizione degli oggetti esposti non stabilite a priori ma fluttuanti, libere in uno spazio in grado di cambiarne la percezione a seconda della creatività di chi ne gode e non già in base a quella impostagli dal suo ideatore, come accade di solito nei musei.

Sebbene Lina Bo Bardi avesse lasciato l’Italia prima che avesse preso avvio il dibattito sull’aggiornamento dei musei patri, la sua formazione professionale alla scuola di Milano, i suoi contatti non interrotti con Rogers e con gli intellettuali romani (Argan) le hanno permesso di lavorare in sintonia gli assunti da loro sostenuti, facendo del MASP “uno straordinario laboratorio educativo che saprà dare risposte puntuali alle istanze culturali del pubblico brasiliano” (Lanzarini)

Di ognuno dei quattro luoghi espositivi analizzati nel libro, l’autrice ricostruisce la storia e poi la genesi dei relativi allestimenti. La dovizia di informazioni di cui li correda viene a costituire un fondamentale strumento per gli studiosi, gli studenti e gli appassionati. 

Il volume è poi completato da un'antologia di saggi a firma di Franco Albini, dei BBPR, di Lina Bo Bardi, di Carlo Scarpa e di Giulio Carlo Argan intorno al tema del museo.

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