Triennale: l'architettura riduce le ineguaglianze?
Inequalities è il titolo della ventiquattresima edizione della Triennale di Milano che si è aperta il 13 maggio 2025. Sono dunque le disuguaglianze il tema scelto, dove la casa gioca un ruolo determinante, soprattutto quella sperimentale in contesti poveri. Come nella recente biennale di architettura di Venezia, torna il tema del cambiamento climatico ma in questo caso affrontato con la scienza. Il primo diritto per ridurre le disuguaglianze è la casa. Lo scriveva nel 1968 il filosofo francese Henry Lefebvre in Il diritto alla città. “Il punto chiave è che le disuguaglianze non sono un'esperienza materiale separata dalla cultura della città – scrive Richard Sennett nel catalogo – ma, al contrario, se non si interviene sulle modalità dell'attività politica ed economica, le persone non possono realizzarsi a pieno”. Se Lefebvre ritiene che sia l'architettura il problema, Sennet sostiene che invece sia proprio questa disciplina a far uscire le società dalla mancanza di diritti. “Spero – continua lo studioso – che si possano trovare modi per modellare fisicamente gli ambienti, modi in cui la progettazione faccia la differenza”. Se il 60% della popolazione mondiale vive in città e si presume che questo dato aumenti al 70% nei prossimi trent'anni, occorre capire in quali aree e in che modo viene abitata la città. Vivere ai margini nelle banlieu e nelle favelas non consente una emancipazione in tema di diritti, anzi si è vittime di abusi di ogni tipo. Bisogna sempre leggere attentamente i dati che i demografi e gli analisti mettono sul tavolo.
Questo dovrebbe aiutare le amministrazioni pubbliche a realizzare interventi adeguati e proporzionati alle problematiche da risolvere, in cui il ruolo dell'architettura è sempre più importante. La vita nei cosiddetti contesti informali, le baraccopoli, la cui presenza c'è anche da noi, basta uscire dai centri storici e attraversare gli anfratti naturali, a Roma come a Milano, pone la questione dell'accessibilità alla casa, ai servizi sanitari, elementi essenziali del vivere civile e democratico. Spesso queste condizioni base non sono garantite soprattutto nelle grandi città dove il senso di smarrimento e lo scollamento della comunità è più definito, rispetto ai piccoli paesi. Se a Venezia alla Biennale si discute caoticamente di capacità di adattamento degli umani e delle architetture al cambiamento climatico, a Milano si cerca di affrontare il tema della disuguaglianza mettendo insieme architettura, scienza e design. Un’operazione ambiziosa che appare ben strutturata e proietta la Triennale nella dimensione del centro di ricerca e non dello spazio museale asfittico. Questo lo poteva fare solo Stefano Boeri, per la sua storia con Multiplicity, l'agenzia di analisi dei fenomeni urbani, che troppo velocemente è stata dismessa. Questa Triennale mette al centro la scienza in dialogo con l'architettura fin dall'edizione di Broken Nature (2019) curata da Paola Antonelli, architetta e senior curator del Department of Architecture and Design del MoMA, e proseguita con Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries curata dall'astrofisica dell'ESA, Ersilia Vaudo.
Ad accogliere i visitatori, nel piano terra della Triennale, c'è un totem video in cui si parla della tragedia londinese dell'incendio della torre Grenfell, in cui persero la vita settantadue persone appartenenti in gran parte a minoranze etniche, emblema delle disuguaglianze. Lungo lo scalone centrale, dove nel 1973 Ugo La Pietra girava il suo film La grande occasione, oggi sottili strisce rosso sangue scendono dall'alto a sottolineare i morti provocati dalla guerra tra Israele e Palestina, mentre sul pavimento i dati delle perdite sottolineano come queste siano maggiori per i palestinesi. Sulle pareti fotografie aeree dei raid in cui si evidenziano le macerie e la distruzione provocata. Una presa di posizione netta della Triennale anche se formalmente i dati presentati non sono interpretati, lasciando al visitatore questa incombenza. Anche qui come alla Biennale si conferisce grande importanza all'analisi dei dati che tuttavia rappresentano un limite se poi non si riesce a introiettarli nel processo progettuale ma servono unicamente alle indagini sociologiche, che non generano certo architettura. Solo Rem Koolhaas riesce a interpretare i dati e trasformarli in architettura e le sue analisi sulle metropoli contemporanee lo dimostrano, di fatto lui rimane l'unico teorico della sua generazione. Le diseguaglianze espresse dai temi affrontati nella triennale milanese partono dalla città, ma non c'è solo il centro, bisognerebbe guardare anche ai bordi, ai piccoli centri periferici e poi anche alle aree poco urbanizzate, dove il disagio sociale e l'assenza di servizi pubblici determina, appunto, disuguaglianza. L'architettura può ridurre le disuguaglianze se gli architetti si impegnano maggiormente in progetti utili per le comunità, progettando spazi pubblici, unità abitative a basso costo, a patto che si strutturino politiche urbane efficaci. Invece, a parte rari casi, gli architetti preferiscono le residenze e i centri direzionali, espressione dei fondi immobiliari, piuttosto che sporcarsi le mani con progetti socialmente rivelanti che possano aiutare le fasce della popolazione in difficoltà. In questo senso il lavoro della Norman Foster Foundation è rilevante attraverso il progetto dell'architettura e l'istruzione.
Nell'esposizione vengono presentati progetti di trasformazione di una baraccopoli in India, il piano regolatore della città ucraina di Charkiv, soluzioni alternative alle tendopoli per l'accoglienza dei rifugiati, abitazioni a basso costo e sistemi di energia pulita. Una attitudine che Lord Norman Foster ha appreso dal suo “maestro” Richard Buckminster Fuller, di cui ha riprodotto la Dimaxion Car e altri prototipi per la mostra che il Centre Pompidou gli dedicò nel 2023. Differentemente da Renzo Piano che ha avuto in Frei Otto, Cedric Price, Marco Zanuso e Franco Albini i suoi maestri, Foster si è sempre ispirato all'inventore geniale Fuller. Un esempio sono l'Odisha Liveable Habitat e le Essential Homes. Nel primo progetto siamo in India ed è nato dalla collaborazione con l'industriale dell'automotive Ratan Tata. Lì Foster ha attivato un processo partecipativo con il riconoscimento delle proprietà delle terre agli abitanti della baraccopoli e attraverso laboratori e interviste si è elaborato il piano regolatore che tenesse in considerazione i loro bisogni. In Essential Homes, iniziato nel 2022 e tuttora in corso, Foster progetta unità abitative in sostituzione delle tende per i rifugiati. Nato da un workshop, si è posto fin dall'inizio l'obiettivo di dimostrare come l'uso delle tende fosse inadeguato a causa dell'invivibilità dello spazio abitativo. Viene così pensato, grazie alla ricerca sui materiali, un disegno che si è ispirato alla curva naturale definita dalla forza di gravità su una fune ruotata di 180° che forma, così un arco catenario. La parte strutturale è stata realizzata con un telaio in legno ricoperto di teli impregnati di cemento a basso contenuto di carbonio che si induriscono e tengono la forma in ventiquattro ore; in questo si risparmia il 70% delle emissioni di carbonio. Queste unità si possono assemblare e possono formare un isolato con spazi pubblici e percorsi. D'altronde la sostenibilità per Foster è stata, fin dall'inizio della sua carriera professionale, un obiettivo centrale della sua ricerca architettonica. Ma la Triennale esplora, sempre nell'ambito della sperimentazione, le potenzialità dei batteri nella trasformazione da minaccia a risorsa, affrontata in We the Bacteria a cura di Beatriz Colomina e Mark Wigley. In questo caso si analizza l'impatto dei batteri sulla nostra salute dimostrando come patologie quali allergie, autismo, obesità, diabete sono conseguenze di “una progressiva riduzione della diversità batterica”.
“We the Bacteria prova a immaginare cosa accadrebbe – scrivono Colomina e Wigley – se al centro della progettazione architettonica invece che l'uomo ci fossero i batteri [...] L'uomo non è un entità unica, bensì una complessa, interminabile e costantemente mutevole collaborazione trans-specie”.
L'architettura ha contribuito con i dispensari anti tubercolare e i sanatori a definire spazi asettici, bianchi come le regole del movimento moderno imponevano. Questa ricerca appare poco efficace quando assistiamo alla trasposizione dall'analisi storica e scientifica dei batteri per trasformarsi in elementi del progetto, ovvero le sperimentazioni di materiali da costruzione che nascono dai batteri. Un’operazione ideologica che lascia molto spazio alle premesse storiografiche, ma che non trova applicazioni in casi studi di architetture realizzate con quei materiali. Anche nell'analisi storica delle architetture per la salute Colomina e Wigley omettono uno dei più bravi architetti italiani che si sono confrontati con il tema dei sanatori: Ignazio Gardella. L'architetto milanese, di cui ricorre il 120 anno dalla nascita, progetta nel 1938 ad Alessandria il Dispensario Antitubercolare, un vero progetto rivoluzionario di genere. Pochi sanno che Gardella non rispettò le direttive fasciste per i dispensari che prevedevano la separazione tra uomini e donne negli spazi interni a causa delle maldicenze, secondo le quali i malati maschi di tubercolosi avevano eccessivi istinti sessuali.
Ad Alessandria l'architetto milanese rischiò di andare al confino per aver disegnato il suo Dispensario con spazi unici per donne e uomini come lui stesso affermava in una intervista al settimanale L'Europeo nel 1973: “studiai un edificio non solo molto luminoso e che rispondesse alle esigenze più innovatrici della medicina, ma che avesse una grande, unica, anticamera dove donne e uomini potessero attendere senza umilianti separazioni: un locale accogliente, molto umano”. In parallelo alle considerazioni sulla salute di una popolazione sempre più vecchia si colloca il lavoro di Nic Palmarini, professore di invecchiamento, politica e pianificazione presso l'Università di Newcastle, e Marco Sammicheli, curatore del museo del design della Triennale, dal titolo La Repubblica della Longevità. I curatori affermano che si pongono “le basi di una rivoluzione individuale e sociale per influenzare e indirizzare la nostra traiettoria di impegno e scelte verso gli umani che saremo”. La mostra viene pensata con una serie di ministeri: Ministry of Purpose, Ministry of Sleep Equality, Ministry of Food Democracy, Ministry of Physical Freedom, Ministry of Togetherness. In ognuno il design è protagonista dove ogni oggetto sopravvive all'usura dell'uso e del tempo diventando indispensabile. Tra questi i ministeri per la democrazia del cibo e dello stare insieme rappresentano l'aspetto politicamente più rilevante. Nel primo caso si analizzano i riti del cibo come “speculazioni mediche” e si evidenziano le ricerche di artisti come i tavoli imbanditi di Daniel Spoerri, mentre nel secondo caso ispirandosi alla spianata dei ministeri di Brasilia di Oscar Niemeyer con sedute e bandiere, Palmarini e Sammicheli assemblano giochi e arredi per enfatizzare l'essere comunità. In questo modo i curatori enfatizzano sapientemente come anche il design, insieme all'architettura, abbia un grande potenziale per definire i nostri comportamenti, incidendo positivamente sulla nostra quotidianità di abitanti del pianeta terra disuguale.
