Biennale Architettura: ci salveranno le macchine?
Può il mondo essere salvato dalla tecnologia e dalle macchine? Per Carlo Ratti, curatore della diciannovesima edizione della Biennale di Architettura di Venezia, la risposta è si. Ma questa domanda prima di lui se l'erano posta nel dopoguerra figure come Richard Buckminster Fuller, Yona Friedman e tutto il movimento della neo-avanguardia dell'architettura, nota come architettura radicale, tra i quali spiccano gli inglesi Archigram e gli italiani Archizoom, Superstudio, UFO, Ugo La Pietra e 9999. Ognuno di questi gruppi ha teorizzato, attraverso i fotomontaggi di Archigram, Superstudio, 9999 e le invenzioni tecnologiche di Ugo La Pietra, la fiducia nella tecnologia disegnando nuovi immaginari. Un approccio simile a quello che, solo nelle intenzioni, voleva definire anche Ratti enfatizzando il ruolo delle macchine come ausilio alle nostre vite. Ma una eccessiva fiducia nella macchina non nasconde le difficoltà dell'architettura nel tentare una trasposizione dei dati analitici dei nostri comportamenti, di cui Ratti è un esperto, in progetti concreti. Questo è il limite della Biennale veneziana. Attraverso il progetto curatoriale si è cercato di riesumare l'architettura parametrica, quella che ha avuto come precursori Patrick Schumacher, Zaha Hadid, Greg Lynn, Hani Rashid, François Roche, attiva tra la metà degli anni novanta del XX secolo e i primi anni del XXI secolo. Questo ritorno di fiamma, come in quegli amori che non finiscono mai, dimostra quanto sia profonda la crisi dell'architettura e quanto la sperimentazione sia affidata a campi separati: i materiali da una parte, le forme dall'altra. In tutto questo le funzioni sono escluse. Nel movimento moderno si teorizzava che la forma dovesse seguire la funzione, oggi la forma segue se stessa, d'altronde questa tendenza è ben rappresentata dalle architetture della Hadid, dal museo romano MAXXI alle residenze di City Life a Milano.
Se la prima Biennale del 1980 ideata da Paolo Portoghesi dal titolo Strada Novissima, con il chiaro omaggio alla Strada Nova veneziana, riproponeva la facciata come manifesto teorico dell'architettura, sperimentata con le facciate in scala reale, progettate dagli architetti invitati, la “visione” di Ratti adotta la densità come rappresentazione della complessità. Tuttavia questa scelta genera affollamento di pensieri diversi sconnessi gli uni dagli altri, in una densità spaziale dell'Arsenale che obbliga il visitatore a un continuo slalom, come in un gioco di sopravvivenza, tra pannelli, plastici, robot umanoidi, visioni satellitari. Una Biennale che ricorda una fiera della tecnologia piuttosto che una mostra di architettura, dove poter vedere le sperimentazioni in atto nei diversi contesti geografici. Invece sono sempre le aree povere e marginali dell'Africa e dell'Asia a essere sacrificate sull'altare dell'efficacia dei metodi costruttivi sostenibili, ovvero costruzioni con materiali naturali e tecnologie dal basso impatto energetico, difficilmente applicabili negli altri continenti. C'è dunque una questione urgente che riguarda la relazione tra l'architettura e il potere, perché nonostante la buona volontà degli architetti, ogni progetto innovativo, con un uso più o meno invasivo delle macchine, deve passare dalla condivisione con la politica, il vero attore del cambiamento delle regole che portano a una diversa idea di città e dei modi di abitarla. Ogni edizione della Biennale genera una grande aspettativa, indipendentemente dai proclami del curatore invitato. Ma occorre soffermarci proprio sul significato di essere curatore. Troppo spesso assistiamo alla selezione di figure, in prevalenza architetti, che sono chiamati a presentare il proprio pensiero critico, ma sovente la riflessione teorica non esiste.
Non tutti gli architetti che hanno diretto la Biennale hanno fallito, due sono stati significativi: Alejandro Aravena e Rem Koolhaas. Aravena ha lavorato sulla dimensione sociale dell'architettura, che lui aveva applicato nella sua professione con il progetto Elemental Cile. Una serie di case popolari dove gli abitanti potevano modificarne le parti seguendo le loro esigenze. La sua Biennale ha messo in evidenza il ruolo politico dell'architettura, lontano dalle sirene del mercato neoliberista e vicino alle popolazioni più povere eleggendo l'architettura come un servizio civico ed etico. Koolhaas, invece, ha proposto un vocabolario dell'architettura che era evidente nel titolo Fundamentals, a ricordarci che l'architettura è fatta di elementi imprescindibili “una delle solite applicazioni del metodo paranoico-critico surrealista tanto caro all'olandese – scriveva Alessandro Lanzetta nel 2014 recensendone la mostra – utile a riportare al centro del dibattito le concrete viscere dell'architettura: pavimenti, porte, muri, tetti, soffitti, toilette, scale, rampe, balconi”. Allo stesso modo Ratti ha tentato di scrivere un suo vocabolario con al centro l'intelligenza artificiale. Il mondo è in crisi, il genere umano rischia la giusta estinzione, allora siamo sicuri che la tecnologia ci salverà? Quella stessa tecnologia che controlla ogni nostra azione ogni giorno, così ben raccontata dal cinema, da The End of Violence di Wenders, a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, da Truman Show di Peter Weir a Matrix delle sorelle Wachowski. Ma la tecnologia è oggi l'arma più potente delle guerre in atto, dunque occorre muoversi con cautela nella sua esaltazione. Questa biennale non si pone in modo critico sull'uso della tecnologia ma la elegge a pratica salvifica. Il grande sperimentatore Richard Buckminster Fuller, collaboratore della NASA e dell'US Army, padre delle sperimentazioni tra scienza e architettura e ignorato da Ratti, ha teorizzato e poi realizzato i suoi geodi come nuovi habitat per consentire, ad esempio, ai newyorchesi di salvarsi dall'inquinamento nella famosa cupola per Manhattan, larga tre chilometri e alta uno e mezzo.
“Dal basso, la cupola apparirebbe come una pellicola – afferma Fuller – traslucida attraverso cui si vedrebbero cielo, nubi e stelle. Ridurrebbe le perdite d'energia, sia per il riscaldamento invernale che l'aria condizionata estiva, a solo 1/85 di quelle attuali. Ciò ripagherebbe la cupola in 10 anni. Riscaldando la superficie della cupola con resistenze elettriche, si manterrebbe una temperatura sufficiente a fondere neve e ghiaccio. L'acqua fusa della neve e la pioggia correrebbero verso una grondaia, da dove fluirebbero in grandi serbatoi di raccolta”. Negli ultimi sessant'anni nessuno come lui. Siamo invasi da dati di tutti i tipi, sul nostro modo di abitare, lavorare, passare il tempo libero che costituiscono un notevole insieme di informazioni che aspettano di essere interpretati dagli architetti. Invece gli architetti sono aggrovigliati in posture da sociologi e antropologi, incapaci a fare architettura. Proprio Fuller ci dimostra quanto la scienza, la tecnologia e l'architettura siano connessi tra loro. Occorre uscire fuori dalle zone confortevoli dell'abitudine professionale delle residenze, esito di speculazioni, cambiare la scala dei progetti, avvicinarsi alle piccole comunità, dentro e fuori le metropoli, quelle più bisognose di spazi, dalle case ai luoghi dell'incontro, per fare ed essere comunità. Osservando in profondità questa biennale sono scomparse quelle pratiche dal basso dei collettivi di architetti che basano la loro azione sull'autocostruzione, ma anche i piccoli progetti alla scala dei paesi, il cui unico esempio in mostra è rappresentato dal caso di Ostana, nella provincia di Cuneo.
Lì un gruppo di architetti ha riqualificato questo paese soggetto allo spopolamento attivando un processo di recupero che può essere replicato in altri contesti, proprio perché è nato da una forte progettualità politica. Nel visitare la Biennale, nella sede dei Giardini, sono pochi i padiglioni che seguono Ratti e con esiti poco convincenti come Germania, Gran Bretagna, Paesi Nordici, Olanda, Giappone, tutti impegnati tra decolonizzazione e dati, in cui, ancora una volta, la grande assente è l'architettura. La fascinazione esotica della giuria della Biennale premia il Bahrain, uno stato ricco dove i diritti fanno fatica ad essere rispettati. Una menzione la meritava il padiglione americano che rappresenta ancora le politiche dell'amministrazione Biden e che, attraverso il tema del portico, rappresentativo della casa americana. I curatori progettano un portino in legno, un vero e proprio spazio pubblico alterando l'architettura palladiana del padiglione, un dito nell'occhio a Trump come ha scritto The Guardian, in una piacevole e ironica review della Biennale scritta da Oliver Wainwright dal titolo “Can robots make the perfect Aperol Spritz?” È la dimensione politica a mancare in questa biennale, nel senso che il tema proposto da Ratti, una sintesi tra intelligenze naturali e artificiali, prende le parti esclusivamente della tecnologia, ma da sola senza la sua applicazione nell'architettura e senza il coinvolgimento del potere politico rimane un esercizio sterile e inefficace.
L'Italia in questa situazione rappresenta, con il suo padiglione, lo stato comatoso in cui versa l'architettura sempre più invischiata nelle nostalgie dell'architettura radicale senza quella ironia necessaria a tracciare nuove domande. Il tema del cambiamento climatico è assente, si riflette sul rapporto con l'acqua ma l'allestimento poco felice non aiuta nella comprensione. Un altro elemento che emerge da questa biennale è il fallimento della call, ovvero l'invito a inviare idee e progetti, come pratica fintamente democratica per selezionare i progetti. In questo c'è uniformità tra la biennale internazionale e il padiglione italiano. Tutti i materiali che sono stati inviati da architetti, filmmaker e fotografi sono stati presi e formano un caotico e confuso atlante troppo vasto per capirne a fondo il significato. Non avere a disposizione il padiglione centrale ai Giardini aveva fatto presupporre che Ratti riuscisse a sintetizzare all'Arsenale il suo progetto curatoriale con una selezione ponderata. Tuttavia la mostra Diagrams di Rem Koolhaas, nella sede veneziana della Fondazione Prada, sembra un richiamo a Ratti, come a dire attento che i dati li ho usati molto tempo io per primo. In effetti da SMLXL (1995) Koolhaas fino alla ricerca su Lagos, i dati per l'architetto olandese sono stati usati per spiegare fenomeni che poi sono stati incanalati nei suoi progetti architettonici. In fondo questa Biennale di Architettura lascia, più di altre edizioni, una sensazione di insicurezza sul futuro dell'architettura e di conseguenza del pianeta che abitiamo.
