Non siamo nati per leggere

18 Settembre 2012

Cosa cambia nella lettura con le tavolette digitali? Kindle, iPad o altro, succede spesso che si fatichi a ricordare quello che si è letto. Il libro tradizionale è tridimensionale, come noi stessi, la tavoletta invece bidimensionale (su questo tema rimando al mio precedente pezzo qui). Forse in qualche università americana ci sarà uno studioso che si sta già interrogando sui cambiamenti che la rivoluzione informatica degli ultimi vent’anni ha provocato e provocherà nella nostra attività di lettura.

 

Di sicuro l’ha fatto Maryanne Wolf in un libro molto interessante uscito qualche tempo fa: Proust e il calamaro (Vita e Pensiero). Non siamo nati per leggere, scrive la neuroscienziata cognitivista della Tufts University. Il nostro cervello non è fatto per aiutarci ad apprendere a leggere, e anche a scrivere. Per farlo deve imparare a realizzare nuovi circuiti collegando regioni preesistenti, la cui programmazione e il cui programma genetico ha altri scopi: dal riconoscimento degli oggetti alla denominazione.

 

Solo da poche migliaia di anni l’umanità legge; per farlo ha dovuto riciclare alcune zone del cervello con risultati notevoli. Ma è proprio grazie alla scrittura che il genere umano ha fatto notevoli passi in avanti, nonostante che molti secoli fa Socrate avesse messo in guardia i suoi contemporanei nel passaggio dall’oralità, fondata sulla memoria, alla scrittura sulle conseguenze nefaste di questo cambiamento. Ora che stiamo per varcare o, meglio, abbiamo già varcato, la soglia verso una cultura sempre più fondata sull’immagine, sulla vista, condizionata da enormi flussi d’informazioni digitali, cosa ne sarà della lettura la cui specificità non è per nulla iscritta nel nostro patrimonio genetico, ma il risultato di un allenamento cominciato coi Sumeri e gli Egizi?

 

Nel passaggio dal libro – la base della nostra cultura e dell’apprendimento da almeno sei secoli – all’ebook, al libro elettronico, cosa succederà? Continueremo a leggere? E come? Maryanne Wolf è una specialista della dislessia. Dislessico è suo figlio Ben, dislessici erano il suo bisnonno, commerciante di successo, e probabilmente anche gli antenati del marito, e forse qualche difficoltà deve averla avuta lei stessa, un po’ come Oliver Sacks, che è diventato studioso dei deficit del cervello a causa di suoi problemi, come ha rivelato nell’ultimo libro, L’occhio della mente (Adelphi).

 

La studiosa americana spiega che, se non esistono specifici “geni della lettura”, i dislessici non sarebbero persone con un deficit, bensì individui in cui il cervello propende per altre attività cognitive e di riconoscimento. Dal momento che i dislessici appaiano dotati di altre capacità – ad esempio, abilità di tipo spaziale che s’evidenziano nelle attività artistica –, nella società dell’immagine verso cui stiamo andando, queste persone probabilmente non soffriranno troppo. Un paradosso: prerogative del lato sinistro del cervello, che portano alla dislessia in società alfabetizzate, in altre, in cui prevale invece l’immagine, producono una spiccata superiorità.

 

Ben, molto dotato nel disegno, chiede a sua madre: Sono più creativo perché uso l’emisfero destro più delle altre persone? Per questo i dislessici vengono al mondo con un cervello più creativo? La madre lì per lì non sa rispondergli. Il principio alfabetico, sostiene, consiste nell’intuizione che ogni parola della lingua parlata – appresa presto dai bambini – è composta di un numero finito di singoli suoni rappresentabili con un numero finito di lettere. Normalmente nelle società contemporanee, quelle occidentali, fondate sull’alfabeto latino, s’impara a leggere in 2000 giorni, là dove, nelle scuole dei Sumeri, occorrevano anni e anni, per via dell’alfabeto logografico.

 

A metà dello scorso decennio uno studioso di tecnologia Edward Tenner si è chiesto in un articolo sul “New York Times” se Google non stesse diffondendo una sorta di analfabetismo dell’informazione e il modo di apprendere che ne divora non possa produrre conseguenze negative. Oggi possiamo rispondere che si legge e si scrive di più, ma in un modo diverso dal passato: per brevi segmenti, in modo rapido, impegnando sempre meno il corpo nell’atto della scrittura, i polpastrelli e non più le dita o la mano. Ciò che si è modificato negli ultimi duemila anni è stato il fattore tempo. Passando da sistemi di scrittura fondati sull’immagine grafica, come l’egizio, al sistema alfabetico, la lettura è diventata più agile, più veloce, e come sostengono alcuni studiosi, l’automatismo ha liberato il pensiero: ha più tempo, prima occupato nell’apprendimento.

 

Walter Ong, il gesuita collega di McLuhan sostiene in Oralità e scrittura (il Mulino), che la scrittura induce divisione e alienazione, ma anche una più salda unità, intensifica il senso dell’io e alimenta una interazione più consapevole tra gli individui, perciò alimenta la coscienza. Il contrario di quello che sosteneva Socrate.

 

Nelle conclusioni del suo studio sulla lettura Wolf si mostra cauta sul futuro. Tavolette o personal, i giovani lettori propendono sempre meno per un’analisi approfondita dei testi e per la ricerca di strati più profondi, come gli insegnanti riscontrano sempre più spesso, in ragione della immediatezza e dell’apparente completezza delle informazioni che appaiono oggi accessibili senza troppo sforzo. Armati di tablet e lavagne elettroniche, i nostri figli saranno destinati a una società di “decodificatori d’informazioni”, oltre che di dislessici creativi? Proust e il calamaro non risponde.

 

Settanta anni fa Walter Benjamin faceva la lode del copista, sostenendo che solo chi ricopia un testo scritto riesce ad afferrarne l’intimo significato, un po’ come chi va a piedi lungo una strada rispetto a chi la vede dall’alto da un aeroplano. E ora che viaggiamo su navi spaziali elettroniche cosa capiremo di ciò che leggiamo?

 

 

 

Questo articolo è uscito su “La Stampa”

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