Oratorio bizantino

3 Marzo 2011

Quanti libri politici escono ogni mese in Italia? Cinque, dieci, cinquanta? Forse meno, forse di più. Di certo nessuno somiglia a questo libro scritto da Franco Arminio: Oratorio bizantino (Ediesse). Nessuno possiede la forza e la verità di parola del paesologo di Bisaccia, Irpinia d’Oriente. Lo scrive Franco Cassano, filosofo meridionale, osservatore acuto del nostro Sud, quando ci spiega nella sua prefazione come il poeta irpino si opponga alla “planetaria fornicazione dei mediocri”, quella che incrementa al Sud come al Nord il bottino privato, arraffando dal pubblico secondo i propri interessi personali e di gruppo. Di più, da questa fornicazione procede la politica attuale, una politica non-politica, che trasforma tutto in affare, in carriera e compromessi, che presenta come sano senso della realtà la tecnica della spartizione del bottino: “Ecco perché domina la vigliaccheria, quella tara dell’anima su cui i politici hanno costruito il proprio dominio, ecco perché in tanti, salendo di rango, sono arrivati in cima, ma non sanno più dire nulla”. Quando si leggono queste parole – e quelle del poeta Arminio – ciascuno pensa subito ai politici che conosce, non solo quelli di sinistra, verso cui sembrano indirizzarsi queste parole, che contengono un forte richiamo alla moralità, ma anche e soprattutto a quel ceto politico che ha occupato i posti di governo e di sottogoverno, leghisti, centristi, populisti della libertà, che parlano in nome dell’antipolitica, ma intanto coltivano quella “tara dell’anima”. Oratorio bizantino è una boccata d’ossigeno per noi tutti. Arminio vi parla il linguaggio dell’anima, combatte i luoghi comuni, si appassiona e coinvolge i lettori con la sua poesia in prosa. Si tratta della raccolta dei suoi scritti politici, brevi, fulminanti, dolenti, acuti, personali, apparsi su giornali e riviste del Sud, e non solo, in siti web e piccole riviste. Qui si scaglia contro la lobby dei vittimisti; poi ci spiega perché il piccolo paese non è solo il luogo della disfatta, ma anche della rivincita; perché oggi c’è bisogno disperatamente dell’amore e della speranza. Arminio dice cose semplici, ma lo fa con una passione e uno stile inconsueto. Parte sempre da sé, ed è morale senza essere moralista; non tiene il dito alzato, ma ci esorta a sbarazzarci della nostra meschinità. Usa quel po’, o tanto, di follia che abita i poeti e li fa diversi da tutti gli altri: più saggi, e insieme più matti, elaborati e nello stesso tempo semplici ed efficaci. Se questo fosse un paese davvero anormale – quell’anormalità che è necessaria in certi momenti per cambiar vita, per mutar strada –, Armino dovrebbe scrivere le sue concioni appassionate sulla prima pagina dei quotidiani nazionali, dove invece si discute del futuro dell’Italia post-berlusconiana analizzando gli scenari possibili. Ma quali scenari? Trascrivo dalla quarta di copertina ciò che il visionario e realistico Arminio vede: “Oggi c’è un vento viscido e spinoso. I vecchi stanno davanti al fuoco. I depressi hanno preso la pastiglia del mattino. Gli alcolisti il primo bicchierino. Intanto, la politica continua nel vacuo vagare da una riunione all’altra: i politici hanno il sangue scuro, il culo piallato sulle sedie, lemuri di una stagione cupa e disfatta. Da ogni parte si tendono trabocchetti, tagliole. Manca il movimento, la forza propulsiva. L’augello è ostruito e il fuoco non arriva”. Leggete questo libro bellissimo, aiuta a sperare. 

[N. d. R.]
 



Anche in un piccolo paese è possibile una grande vita

 

Nei paesi è ancora possibile, ma non per molto, sottrarsi alla forza di gravità del pensiero
unico, alla mercificazione onnivora e onnipresente, al demenziale allineamento conformistico che ha reso l’Occidente un luogo triste e spiritualmente miserabile. Scansare questi pericoli non significa ricadere nell’antica melma dei propri vizi, indugiare coi ripetenti sotto il proprio campanile. C’è un feticismo dello sviluppo, ma c’è anche un feticismo della sofferenza e del fallire. I nostri paesi, al riguardo, sono dei veri e propri cataloghi. Vi si può trovare di tutto: chi rimanda al giorno dopo quello che doveva fare un anno prima, chi sputa veleno su ogni cosa, chi marcisce nella paranoia. Talvolta questa terra mi fa pensare a certi pazienti che quando li si vuole dimettere fanno resistenza, non vogliono lasciare la corsia, si sono abituati ad essere malati tra altri malati e a perdere l’aria viva e pungente del mondo esterno, la grazia del rischio e della bellezza.
Abbiate cura di andare nei paesi più lontani, quelli che ci vogliono mille curve per toccarli. Lì si può praticare una nuova forma di turismo, il turismo della clemenza. In questi paesi sicuramente incontrerete qualche impiegato nella più antica fabbrica del mondo, quella di passare il tempo. Ascolterete storie che non vuole sentire più nessuno, storie sicuramente più vere e più belle delle oscene vanità proposte dai soliti buffoni infilati nei palinsesti televisivi.
L’epoca impolitica ci vuole convenzionalmente disposti ad accudire le nostre cose e a lamentarci del mondo che si disfa. Invece bisogna accudire il mondo. E il nostro mondo è questo luogo. Qui deve e può accadere tutto. Bisogna spendere generosamente il proprio tempo, prendere la via della resistenza, farsi partigiani della buona vita, non virtualizzata, né omologata. Una vita che tiene insieme la muta lussuria di una rosa e la necessità di un discorso civile. La terra e l’aria, il silenzio e la luce. Non c’è bisogno di parlare di progresso, sviluppo, turismo. Piano piano qui ci si può sfilare dalla morte che accompagna l’Occidente. Le chiese, gli scalini, le logge, questo o quel sedile e il vecchio che ci sta sopra, sono cose da guardare quasi con stupore. Contemplare e agire. Guardare a lungo le nostre cose e difenderle con fervore. Le nostre erbe, il miele, la carne, le ceramiche, l’uncinetto: ogni cosa dev’essere messa nel futuro, con fiducia, con coraggio. Dobbiamo gettarci lontano dall’idea di esse- re poveri e morenti. E dobbiamo smetterla di mendicare. Basta coi lamenti. Noi possiamo diventare un luogo appartato e accogliente. Un luogo per ritrovare la vita, la vita che ormai palpita solo nelle pagine dei grandi libri.
Bisogna mettersi al capezzale di questi paesi, paesi delle mancanze, del vento che scompiglia e agita. Bisogna mettere a frutto i semi del loro perenne soffrire. Qui più che altrove non si può stare fermi. La morte è sullo sfondo, ovunque e comunque. La morte prenderà ognuno, ma non può prendere quello che mettiamo tra noi. Nessuno può uccidere le nostre fantasie di avvicinamento. Lasciamo circolare tra noi sogno e ragione. Spendiamo le nostre forze prima che il tempo ce le sottragga. Un piccolo paese può essere il luogo di una grande vita.

 

 

Contro la lobby dei vittimisti

 

Le parole sempre più spesso assomigliano a una truffa. Forse gli uomini sono morti. Per secoli, per millenni, la maggioranza delle persone ha vissuto in condizioni di grande povertà. Per la prima
volta si è realizzata nel pianeta una situazione grazie alla quale a centinaia di milioni di esseri umani è stato possibile vivere in condizioni di agiatezza materiale. Hanno case calde, possono lavarsi, non hanno problemi a procurarsi il cibo, eppure tutto ciò ha creato una spaventosa siccità morale, un’agonia dello spirito che si diffonde ogni giorno e trasforma le nostre giornate e i nostri incontri in una sorta di cimitero perenne. Fuori ci stanno i deliranti, gli smisurati, ci stanno quelli che non parlano mai, quelli che sanno guardare e farsi guardare negli occhi da un cane, da un mendicante.
Il mondo è sfinito, ma in alcune persone ancora si raccoglie misteriosamente qualche forza. Sono quelle incuranti del giudizio degli altri, non desiderose di consenso, non iscritte all’agonismo della notorietà. Oggi sembra che la bellezza appartenga solo a chi ha l’umiltà di sentirsi nessuno, a chi ha la follia di non appendere i propri incontri sui tralicci del disincanto concordato.
Difficile che persone di questo tipo possano fare i sindaci, i presidi, i preti, i primari. Sembra che questi ruoli arridano più facilmente ai de- voti del conformismo, ai luminari dell’ipocrisia, ai professionisti del calcolo costi/benefici. L’Occidente è morto e la mia Irpinia è ormai perfettamente allineata alla mestizia dominante. In queste condizioni di collasso a oltranza, di infinito svenimento non ha molto senso seguire le piccole beghe della politica locale o nazionale. Non ha senso farsi spettatori di manfrine inutili, di recite già viste mille volte. La politica è sempre di più l’arte della menzogna. Alle menzogne di chi ha il potere si contrappongono le menzogne di quelli che non ce l’hanno. Il risultato è una gran confusione in cui è difficile distinguere tra amici e nemici.
Io penso che non ci sono scorciatoie, bisogna attraversare il massacro di questa crisi, bisogna attraversarlo senza paura di ferirsi, andando a spezzare le lance piuttosto che pensare di schivarle. Ci vuole il coraggio di avere coraggio, avere la presunzione di dichiararsi felici quando la felicità ci arriva, senza annidarci nei soliti vittimismi buoni per tutti gli usi. Viviamo in una provincia che detiene il record mondiale del vittimismo. Lo succhiamo insieme al latte materno questo veleno che ci fa credere solo al male e al peggio.
La lobby dei vittimisti aumenta i suoi affiliati, ma in fondo anche questa è solo apparenza. Nel mondo e quindi anche in Irpinia c’è ancora bellezza e forza. Sono energie fatte apposta per perdersi, per non essere funzionali a nulla. Sono difficili da vedere, perché volontariamente e ostinatamente si nascondono. Allora diventa fondamentale imparare ad accorgersi della bellezza che ogni tanto ci viene incontro, stanandoci dai nostri antichi nascondigli, così rassicuranti e così ammuffiti. Bisogna andare fuori a prendere aria, cercare instancabilmente spiragli, fessure, punti in cui la rete del conformismo planetario è strappata. In ogni nostra giornata, se ci pensiamo bene, è possibile rischiare qualcosa, avere il coraggio di andare a fondo piuttosto che limitarsi a galleggiare.


 

Poetica del rancore

 

Sarebbe una buona cosa uscire in piazza e sentire gente che muove alti pensieri e scalpita e si appassiona a progettare il futuro. E invece spendiamo il tempo per cincischiare sulle nostre miserie. Ormai qui siamo tutti operai della vasta e ineffabile fabbrica del lamento. Il dispetto, il rancore, la diffidenza verso tutti e tutto sembrano l’unico modo rimasto per tenersi a galla. Litigano quelli che si oppongono alle pale, litigano i fedeli di padre Pio sull’ubicazione della statua, litigano quelli che hanno sostenuto l’amministrazione e quelli che l’avversano. L’unica cosa che è diminuita sono i litigi tra i vicini di casa, per il semplice motivo che ora la gente si è tutta sparpagliata.
Qui la passione dominante è l’interdizione, l’idea di stoppare gli entusiasmi, le aggregazioni. Se costruisci un gruppo che produce qualcosa di buono, subito viene fuori il dissenso, il ronzio di chi avanza riserve, cavilli. E chi non si mette di traverso in modo palese lo fa, vigliaccamente, in maniera obliqua, criptica. Più che il conflitto, l’irpino preferisce agire con l’indifferenza, il diniego, il far finta che il bene che fanno gli altri non esiste. Io sono rimasto qui per registrare questi movimenti. Ci sono delle giornate in cui certi atteggiamenti mi feriscono profondamente, poi però mi riprendo, in fondo questa avversione è il tonico che mi fa andare avanti, che mi impedisce di addormentarmi. Il Sud dei paesi sta morendo proprio perché è in mano alla lobby dei vigliacchi. Sono loro a tenere in mano le piazze, sono loro a decidere a chi dare la pensione, a chi togliere la multa, a chi consentire questo o quell’abuso. La loro abilità maggiore è nel far credere che siamo tutti uguali, che la vigliaccheria è nel cuore di tutti e invece è solo un’anomalia della maggioranza. Ci sono ancora i coraggiosi, gli eroi, a volte ci vengono vicino ma non sempre riusciamo a riconoscerli, magari proprio perché distratti a occuparci delle vigliaccherie che subiamo.
Questa è un’epoca che ha disperatamente bisogno del nostro amore, della nostra speranza, ha bisogno del coraggio di opporsi, di lottare contro la meschinità imperante. Il segreto per una giornata lietamente rivoluzionaria è riuscire a vedere che le montagne sono ancora piene di alberi e che ci sono cuori clementi agli angoli delle strade e ci sono albe e tramonti, c’è l’acqua del mare e il grano che cresce. Tuttavia, questa affezione per il mondo va sempre incrociata con una fortissima allergia al compromesso, all’intrallazzo. Bisogna unire la capacità di percepire la bellezza del mondo e di lottare contro chi ogni giorno tenta di impoverirla, di svilirla. È ora di tenere insieme la tensione politica e quella poetica, la contemplazione e il conflitto. I luminari del rancore ci vorrebbero rassegnati alle misere finzioni della vita sociale oppure chiusi nei freddi loculi del nostro io. No, questa è un’epoca da attraversare ad occhi aperti, con sguardi spericolati, mossi in ogni direzione. Il rancore alla lunga rende sterili, ci allena alla conservazione di ciò che non abbiamo. I rancorosi non conoscono la cordialità, la mitezza, non sanno usare il metro della clemenza. Infervorati come sono nelle loro accidie, nelle loro pretese, hanno interiorizzato il disagio, la disaffezione. La loro postura è fatta per claudicare, non per il passo spedito, il gesto aperto. La loro giornata è tutta trapuntata di inadempienze, di incomprensioni. Ognuno è scambiato per un altro, e in genere lo scambio avviene al ribasso. La vita dei rancorosi consiste in una perenne edificazione di muri, di cancelli. La loro poetica è stare lontani dall’orlo, accucciati a scambiarsi una pappina psichica che non serve a niente. Si tengono costantemente al riparo dalla vita. Rimangono contratti, sospettosi, come se l’universo fosse un cane che li punta e sta per morderli da un momento all’altro. Tuttalpiù procedono al piccolo trotto, in un traccheggio prolungato. Prevalgono le posizioni difensive, gli slanci millimetrati. Spendere il proprio tempo per gli altri è considerato quasi un segno di malattia, un gesto folle, sconsiderato, incomprensibile. Si lamentano per conformismo, per appartenere al gregge oppure per fingersi pastori. Forse quello che noi chiamiamo Sud avrà una speranza di salvezza se saprà mettere questa gente con le spalle al muro, se saprà amare i bizzarri, gli inventori, gli estrosi, i poeti e i cuori affamati di amore.

 

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