Gaza: la cancellazione dell’altro

10 Settembre 2025

1. Givat Gobi è una collina nel Sud di Israele. Vi giungono ogni giorno israeliani che vogliono osservare dall’alto gli effetti dei bombardamenti: la guerra in diretta. Per scorgere le macerie sono in affitto binocoli.

Il rovescio della pietà: la distruzione fa spettacolo. L’orrore di uno sterminio in atto può essere neutralizzato dalla sua riduzione ad accadimento osservabile da lontano: come dagli spalti di una gradinata dello stadio, o dalla cavea di un antico teatro. Certo, dappertutto nel mondo giungono per via televisiva immagini della distruzione in atto. E molti possono essere i modi in cui sono percepite quelle immagini di efferata violenza, quelle raffigurazioni che testimoniano episodi quotidiani di un genocidio in atto (la parola genocidio, dopo che anche David Grossmann l’ha usata, è stata infine sottratta a una lunga e circospetta reticenza). Tra questi modi della percezione, l’indifferenza, l’assuefazione, l’addomesticamento dell’orrore. Oppure la superiore e rassicurante inscrizione di quel che accade nei diagrammi geopolitici. O ancora, il riporto delle stragi nella logica delle guerre, nella considerazione che da sempre le guerre appartengono alla conflittualità propria dell’essere in civiltà. Sono tutti sguardi che si distraggono dal vivente, dal corpo vivente, dalla sua singolarità senziente e desiderante. Sguardi che si rifugiano nell’ordine astratto della politica, dei rapporti politici. Dall’alto di questa pretesa arte della politica si osservano non le ferite ma le perdite e le conquiste, non le morti ma le relazioni tra territori, non il sentire dei singoli e delle moltitudini ma la sacralità immutabile dei confini. In questo ordine politico che astrae dai corpi viventi, può non destare orrore la rappresentazione di un progetto già illustrato negli Stati Uniti e ora ulteriormente rielaborato nei particolari, come ha rivelato il “Washington Post”: liberata Gaza dai suoi abitanti, la costa può essere trasformata in un’incantevole riviera per vacanze di ricchi. Al di qua della riva, sorgeranno grattacieli e resort, si apriranno grandi viali (sembra che gli autori del piano abbiano dichiarato di ispirarsi alla trasformazione urbanistica di Parigi voluta dal prefetto Haussmann, dopo il ’48, per impedire che le rivolte popolari erigessero barricate nelle strade: Walter Benjamin osserverà che dal proletariato ricacciato nella cintura nacque poi la Comune). Quello americano sulla striscia di Gaza è un beffardo disegno sventolato sui corpi dei bambini e delle donne e dei ragazzi che muoiono ogni giorno, vittime di un’implacabile, strategica violenza distruttiva. Nel frattempo è già avviato, con milizie di terra, il piano che intende occupare tutta la Striscia – dopo che già l’ottanta per cento del terreno abitato è stato sottoposto a devastazione – e dunque è già in atto un grande pogrom. Azione che non suscita se non pallide contrarietà da parte dei politici di alcuni Paesi: tenui condanne verbali prive di conseguenti atti, come potrebbero essere l’interruzione immediata della vendita di armi e la cessazione di ogni rapporto economico e commerciale.

2. Certo, in ogni guerra – in Ucraina, in Sudan e nelle altre in corso – è in atto la riduzione dell’altro a pura, inerte, cosa (su questa bellica riduzione dell’altro a cosa, limpide e decise le considerazioni di Simone Weil). E quel che vale per la guerra vale anche per il terrorismo: gli orribili massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023 al Festival Supernova, nei pressi del kibbutz di Re’im, muovevano anch’essi da questa preventiva, cieca nientificazione dell’altro.

A Gaza le forme di questa cancellazione dell’altro si sono dispiegate mostrando un altro aspetto della logica distruttiva: l’altro è ridotto a pura cosa perché abita la propria terra, coltiva un orto, frequenta una scuola, sta, malato o medico, in un ospedale, prega in un tempio, corre, stremato dalla fame, verso un punto di distribuzione del cibo, è rifugiato in un campo profughi. Essere palestinese è essere cosa. Per questo morire non è che la conferma di uno stato. È l’estensione radicale dell’affermazione, fatta propria da molti politici della destra israeliana al governo, che tutti i palestinesi sono terroristi. Affermazione che non è certo recente. Mi viene in mente un episodio che mi raccontava molti anni fa Edmond Jabés. Quando all’inaugurazione a Parigi del Centro culturale ebraico furono invitati a parlare lui e Lévinas, ad apertura prese la parola, non previsto e non concordato nel programma, un ministro israeliano, il quale a un certo punto affermò: tutti i palestinesi sono terroristi. Jabès, che era al tavolo in attesa di intervenire, prese l’impermeabile e uscì dall’aula. Fu seguito da tutto il pubblico, in gran parte composto da giovani. Fu poi convinto a tornare, quando il ministro, infuriato e impettito, se ne andò. Così, i due grandi intellettuali ebrei, uno laico, l’altro religioso, poterono prendere la parola. Nessuna relazione tra la loro visione dell’ebraismo e il nazionalismo di uno stato ebraico che non riconosceva, già allora, i diritti di altri popoli.

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Il genocidio in corso a Gaza non ha solo come obiettivo la cancellazione di un popolo, ma nei fatti, mascherando l’efferatezza distruttiva con i richiami a fonti bibliche, infligge grandi ferite all’ebraismo non sionista, uccide quello che era il cuore della cultura ebraica della diaspora, cioè il fare della condizione dello straniero, dell’essere straniero, un principio di conoscenza e di relazione con il mondo. Riaprire oggi alcuni dei libri di Jabès – il libro, appunto dedicato allo straniero, o Il libro del dialogo, o Il libro dell’ospitalità – significa di colpo percepire la siderale distanza dal truce mondo che presiede alle scelte sanguinarie dello stato di Israele, anzi la più radicale negazione di quel mondo. Riconoscere lo straniero che è in sé e da qui scoprire il ritmo della fraternità, considerare l’io come “il miracolo del tu”, fare dell’ospitalità, che è “crocevia di cammini”, una soglia di lettura del mondo: affermazioni di Jabès esattamente opposte ai principi che presiedono l’aggressione israeliana. Riapro Il Libro dell’ospitalità, e leggo: “Una parola di dieci lettere è il territorio dell’ospitalità. Proteggi ciascuna di quelle lettere. Poiché dappertutto, intorno, c’è l’inferno, il sangue, la morte”. Jabès negli ultimi suoi giorni mi diceva che il libro suo prossimo avrebbe voluto fosse dedicato alla responsabilità, intesa soprattutto come principio di accoglimento dell’altro.

3. I palestinesi abitano una terra che prima ancora del 1948, prima ancora dell’avvio della Nabka, della catastrofe, è stata destinata, per decisione di alcune potenze occidentali, a libere incursioni e appropriazioni. Il metodo, improntato alle strategie coloniali europee, consisteva, e ancora consiste, nell’insediamento violento di coloni, che hanno libertà di aggressione nei confronti dei residenti circostanti. Ancora attiva e condivisa la storica posizione di Golda Meir: occupare una terra assegnata da Dio è un’azione che non può essere giudicata con criteri di legittimità. Da questo punto di vista, i massacri e le stragi quotidiane che da mesi sono sotto i nostri occhi dovrebbero sfuggire a un giudizio d’ordine etico. Non solo è in atto la cancellazione dell’umano, ma anche la rivendicazione che quel che accade sta al di sopra di ogni legge. Anche al di sopra del diritto internazionale. È dispiegato quel fanatismo contro il quale invano si era battuto uno scrittore colmo di passione e di stile come Amos Oz. In nome della fede, e con la tutela di uno Stato religioso, l’esercizio della violenza replica antiche storie di spavalda e sanguinosa sopraffazione.

Il 23 luglio scorso la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato l’annessione della Cisgiordania: per legge uno Stato dichiara di estendere i propri territori con la violenza e l’occupazione. Una precedente decisione aveva dichiarato legale la presenza crescente dei coloni, delle loro famiglie, delle loro attività di annessione di terre e di aggressione costante alla popolazione circostante. Gli insediamenti dei coloni sono aumentati moltissimo in due anni, e con essi sono cresciute le violenze, le incursioni, gli assalti nei confronti degli abitanti dei villaggi vicini.

4. Le immagini che giungono ogni giorno da Gaza raccontano, dunque, l’orrore: ospedali bombardati, malati, medici e sanitari uccisi, la carestia usata come strumento bellico. Finora 240 giornalisti e reporter sono stati uccisi. Erano lì, in quei luoghi d’inferno, perché noi sapessimo, e vedessimo. Dietro ognuna di quelle immagini ci sono corpi reali, ci sono storie, affetti, attese. Non chiedono, quelle immagini, di essere neutralizzate nel repertorio astratto della cronaca, o della storia, o delle scelte politiche; chiedono di essere vissute per quello che sono, cioè una violentissima nientificazione di vite umane. Prima dello sguardo politico o del giudizio storico, c’è un altro sguardo, quello della prossimità ai singoli corpi uccisi e feriti. Leggere i nomi dei bambini uccisi a Gaza, come ha fatto il cardinal Zuppi a Sant’Anna di Stazzema, è un atto che invita a osservare il cuore del tragico, cioè la sparizione di umane esistenze. L’indignazione e la pietà, insieme, che muovono da questa prossimità sono una soglia che può permettere al giudizio politico e storico di difendersi dalla gelida e colpevole astrazione.

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