Fame chef e umiltà / Ricette immateriali. Polenta di castagne

10 Ottobre 2018

“Rossa” come la farina di cui è fatta, era polenta comune lungo e attraverso l’Appennino Tosco-Emiliano. Per un tempo lunghissimo, una presenza quasi obbligatoria su terre dove il grano è sempre stato carente.

Ma più che una ricetta è stato innanzi tutto cibo essenziale, condiviso per generazioni e intere popolazioni, succedaneo del pane vero. Solo acqua, farina di castagne e sale, nient’altro.

È stato del resto proprio il castagno “l’albero del pane”, l’antidoto della fame e della carestia, almeno dove il Mediterraneo mostrava un clima più rigido, il suolo avaro e già impervio.

Polenta rossa anche per differenziarla da quella “gialla”, a base di farina di mais, altro succedano del pane, consumata al posto di quest’ultimo, e come tale accompagnata in piatti semplici con l’accostamento di pancetta, latte, ricotta, formaggi.

 

Una ricetta che non è importante certo per la gastronomia o la storia della cucina; siamo infatti nell’orizzonte alimentare fatto di sussistenza e sopravvivenza per un piatto che pur ha nella dolcezza una delle sue caratteristiche essenziali.

Ma quello che questo piatto può raccontarci va oltre la tradizione di un luogo o di una comunità, va oltre la cucina o la dietetica. Non racconta infatti storie di cui, attraverso le generazioni, ogni tradizione è portatrice, ma essa stessa è in fondo un racconto, nudo nella sua essenza, immobile come il tempo quando è guardato negli abissi che stanno dentro la storia. Questo alimento racconta infatti di qualcosa che abbraccia tutte le società dell’epoca preindustriale, e di ancor prima perché parla dell’urgenza primordiale, noi di fronte all’urgenza della vita. In un certo senso piatti come questi sono una tradizione prima di ogni tradizione, sono il loro originario perché. 

 

Nella ricerca per il benessere, il cibo è sempre stato la prima arma, quella essenziale. Ma nella storia della nostra specie, era un orizzonte esistenziale di breve termine quello con cui abbiamo spesso avuto a che fare, quando la sopravvivenza era tutto ciò di cui preoccuparsi e non andava oltre il domani. In alimentazione questo ha sempre significato la preoccupazione di riempire la pancia, di evitare la fame e la sua deleteria “fisiologia”, più che la preoccupazione di un nutrimento vero; erano dunque le calorie la prima esigenza, le farine e gli amidi (oggi diciamo carboidrati) il livello nutritivo più immediato ed essenziale da cui si era dominati e a cui bisognava comunque rispondere. Quella dimensione elementare del vivere è sempre stata lontana da ogni cultura alimentare che invece è presente quando la consapevolezza del benessere guarda avanti e abbraccia i giorni e le stagioni, quando si ha un’idea di se stessi oltre le necessità del momento, nella gioia e nel dolore, in tutte le possibilità che la vita può dare. Solo in questo senso, ogni ricetta e ogni dieta sono anche conoscenze per i giorni che verranno, sono un’idea di se stessi per un domani verso cui andare e a cui affidarsi.

 

La polenta di castagne, e tutti i piatti equivalenti nella loro essenzialità, non appartengono a questo orizzonte, non a quello in cui la cultura di una comunità si rivela e può dispiegarsi. È solo sopravvivenza dell’immediato, è la risposta alle urgenze della vita che sono solo presente: gli occhi bassi sui passi, uno a uno, sui morsi della fame e le sue risposte, su come arrivare solo al domani. 

Ma è proprio su questa dimensione dimenticata, lontano da ogni cultura alimentare, che riuscivamo ad avvertire tutta la fragilità della vita che attraversa il creato. Quella nuda consapevolezza della precarietà del vivere era anche un continuo insegnamento all’umiltà.

 

Oggi, nei giorni della perenne quotidiana abbondanza questa dimensione ci è preclusa, smarrita, sebbene il corpo di tutti abbia potuto dimenticare la fame. E allora la polenta rossa può essere non solo la curiosità gastronomica di un pranzo in montagna, non solo un antico succedaneo del pane o un residuo archeologico di una fisiologia non più necessaria ma – basta volerlo vedere – può anche essere un richiamo a quell’umiltà del vivere che ci è ormai sconosciuta.

È forse anche questa la sua dolcezza, oltre a quella del suo sapore, mille anni lontano dalla cucina gourmet, mille anni lontano da ogni chef.

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