Giacomo Sartori: l'odio, le battaglie
La ripubblicazione, da parte di TerraRossa, di Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori, che uscì in prima edizione nel 2005 per Sironi, è una buona notizia. Quel titolo della collana «Indicativo presente» diretta da Giulio Mozzi non passò inosservato, ma Sartori era già allora uno scrittore appartato, viveva da un po’ in Francia e quel romanzo, maggiore rispetto ad altri suoi lavori, non fu salutato dai critici più influenti. Negli anni successivi, nonostante l’ingresso nel collettivo di Nazione indiana, Sartori è rimasto ai margini del campo e ha avuto una sorte editoriale diseguale, passando da un piccolo editore all’altro, e a poco gli è servito approdare a un certo punto a NN con Sono Dio (2018), poi tradotto in tedesco e in inglese e pluripremiato negli Stati Uniti: in Italia Giacomo Sartori continua a essere un autore per pochi. Eppure, anche lasciando ora da parte gli altri suoi libri, questo Anatomia della battaglia è forse la migliore anamnesi che la letteratura italiana degli anni duemila ci abbia offerto intorno a quello che si potrebbe chiamare “fascismo esistenziale” e che oggi, con l’aria che tira, merita ancora più attenzione di vent’anni fa.

Il romanzo è narrato da un figlio. Il padre ha avuto un’educazione fascista e ha combattuto in guerra; il suo culto per la disciplina, poi travasatosi in una ferrea passione alpinistica, ha forgiato l’intero ambiente familiare trentino in cui il figlio è cresciuto. Da lì quest’ultimo si è poi solo apparentemente emancipato, prima approdando al controfascismo della lotta armata, poi uscendone e finendo a lavorare in un Centro di Lotta contro la Desertificazione in Africa. È durante questo suo periodo di magri bilanci provvisori che il padre si ammala di cancro: lui, che ignorava polemico le cautele dietetiche cui invitava il governo dopo il disastro di Chernobyl, si ritrova ad affrontare la malattia come un’ultima impervia scalata o battaglia. Ad essa assistono anche gli altri membri della famiglia, su tutti una madre incline alla rimozione e all’euforia, affamata di status. Ma è soprattutto il narratore ad assistere il padre, in un estremo tentativo di instaurare con lui un rapporto d’affetto.
Sartori sembra scrivere a partire da un vuoto, e non è il lutto a posteriori di chi narra. Il suo stile è dimesso e chiaro, come se muovesse dalla negazione della tronfia retorica del ventennio. Suonano un po’ come residui di quella le parole e le espressioni in stampatello maiuscolo che il narratore riproduce riecheggiando i dialoghi domestici, anch’essi insonorizzati in un dettato che in sé non contempla il discorso diretto. I trentasei capitoli equamente ripartiti nelle tre parti del romanzo sono fatti di capoversi separati l’uno dall’altro in cui risaltano solo, ma neanche tanto, questi paroloni in maiuscolo. Se c’è un modo in cui lavorano, è nel tessere un lessico famigliare connotato da pretese autoritarie, disprezzo, superiorità, nostalgia risentita e sarcasmo giudicante. Del resto per il padre tutto ciò che è presente è degradato, mentre guerra e fascismo sono i custodi perduti di una vita autentica; persino parole come fedeltà e devozione nel ventennio non erano state «vuote» come quelle di oggi, «molli come un pallone mezzo sgonfio». Si trattava forse, per l’autore, di esercitare il proprio sforzo stilistico a partire da qui.

Il racconto procede paziente e caparbio intorno ai personaggi e alle loro ambiguità, concedendo poco ai piaceri del plot, eppure catturando. Sul piano tematico, il contrasto è soprattutto tra una quotidianità storica su cui pende la sentenza di degrado e la condizione di pienezza presentificata che il padre ritrova in montagna. È una sorta di stato di grazia toccato anche dal narratore, seppur subito revocato, in una delle scene più belle del libro, durante una scalata con il padre già malato, ma è anche la stessa azione pura che la guerra, nei racconti del padre, aveva imposto all’esistenza di ciascuno. Il rapporto padre-figlio si apre così a significati sovrastorici: il fascismo paterno è un fenomeno esistenziale e linguistico oltre che politico in senso stretto; non è il semplice frutto di un’adesione ideologica, ma «un afflato ben più profondo e più insidioso», «una disciplina e uno stile di vita, una religione». È certo il prodotto di un’educazione in un ambiente e in un’epoca – la virilità stessa, sembra suggerirci Sartori, è tra gli esiti culturali più cari a un regime autoritario. È tuttavia un esito che nel corso del libro viene smascherato nella sua ambiguità dalla matrice biologica del rigido vitalismo che lo contraddistingue.
Se è possibile concepire il fascismo come categoria dell’umano, come possibilità esistenziale sempre presente nell’uomo e pronta a manifestarsi in determinate condizioni storiche e sociali, allora Sartori ha saputo esplorarlo. È un fascismo problematico, che sconta il proprio male politico senza impedire al personaggio del padre di apparire, grazie alla restituzione postuma del figlio, imperfetto anche nel rigore, sensibile anche nell’incapacità di amare. Dove però il narratore tratteggia una virtù per il padre, la stessa qualità è pronta a volgersi in tara quando parla di sé, quasi a scontare una subordinazione irredimibile. Le sue prime esperienze politiche, del resto, sono un modo di «difendersi» dalla guerra e dal fascismo, e il suo primo fidanzamento è un rifugio cercato al medesimo scopo; anche la sua omosessualità puberale sembra reagire alla coazione della virilità paterna, così come reagiscono alla durezza del paradigma bellico e al gelo dei sentimenti famigliari l’autoindulgenza e l’apparente remissività in cui egli dichiara di sentirsi a suo massimo agio. Ci sono però almeno due punti di convergenza tra padre e figlio: il primo è nella comune condizione di «reduci» e «sconfitti», il secondo nella condivisione di una sensibilità scomoda, rimossa dall’uno, causa di tormento per l’altro.
Alla fine della prima parte entrano in scena le due figure dei nonni, terzo snodo generazionale del romanzo. Se il silenzio del nonno materno, prematuramente scomparso, circoscrive il «luogo di confino», la pianura di ghiaccio entro la quale si spiega la freddezza dei rapporti interpersonali nella famiglia del narratore, il sospetto che il nonno paterno abbia avuto una parte nelle deportazioni naziste accompagna il lettore fino all’ultima pagina del libro, dove si sigillano con un’omissione tutti gli interrogativi irrisolti del secolo che le tre figure del nonno, del padre e del figlio hanno vissuto e incarnato. Prima, però, la seconda parte del romanzo racconta due malattie: quella fisica del padre, di cui si narrano il decorso implacabile e soprattutto la «resistenza» che l’uomo le oppone, e quella spirituale del figlio, vale a dire la sua deriva esistenziale prima nelle velleità rivoluzionarie della lotta armata, poi nel cimento insensato della lotta contro la desertificazione.
L’avanzamento del cancro conduce il padre a un sempre maggior «disprezzo» per l’inermità del proprio corpo malato e per la commiserazione che il suo «ruolo» di morente ingenera nei famigliari; questo sviluppo estremo del suo «coraggio», del suo «rigore» e della sua «disciplina» conduce a un rifiuto «scandaloso» della morte come fatto sociale. Questo rifiuto, a sua volta, da un lato inibisce la tentazione letteraria del figlio di dare un senso e una forma a questa «discesa agli inferi», pur consentendo così al romanzo di far emergere sempre più quella funzione della letteratura che si esprime compiutamente nella terza parte; dall’altro porta in luce ancora una volta uno scarto linguistico, giacché il padre non riconosce di «morire», bensì afferma di «crepare», e questo scarto trasforma adesso il «vitalismo» originario della sua formazione fascista in pura resistenza biologica, spogliando il fascismo stesso dalle sue determinazioni storiche, fino a ridurlo alla sua base animale: «Chi crepa dà per scontato che non andrà da nessuna parte, che non è servito a niente, che non gli interessa sopravvivere nel ricordo e nei pensieri degli altri. La sua morte riguarda solo lui, gli altri sono solo ostili spettatori, dei guardoni. Le sue sono occhiate volutamente minacciose di una bestia investita sul margine di una strada, ottenebrata dal dolore e dalla rabbia».
Se il merito principale di Anatomia della battaglia è quello di aver esplorato e rappresentato il fascismo come condizione complessa, come opzione naturale dell’umano pronta ad attuarsi storicamente ove se ne diano i presupposti sociali e politici, il suo approdo conoscitivo originale, che è anche il suo più significativo risvolto sul piano dell’intreccio, non è tanto la restituzione romanzesca di quella complessità attraverso il personaggio del padre – che pure, nella sua tornita ambiguità, rimane uno dei più bei personaggi della letteratura italiana recente –, quanto proprio la convergenza, nella terza parte del romanzo, dei tre nuclei oscuri del nonno, del padre e del figlio sotto un unico, breve fascio di luce. Peccato che sia una luce accecante, poiché si tratta precisamente del sentimento che il narratore aveva già scorto all’origine della propria acerba scelta di lotta: «Il mio odio per i padroni e le multinazionali era l’odio di mio nonno per gli anarchici e per i bolscevichi, l’odio di mio padre per le ricche potenze straniere e per i preti. Il nostro odio era l’odio di tutte le carneficine in nome delle nuove religioni laiche, l’odio dei genocidi, l’odio dei fanatici religiosi che avevano sgozzato i miei tre colleghi, tutto l’odio del secolo».
La lunga sequenza finale del romanzo si apre con una sintesi delle «battaglie» condotte dal padre lungo tutta l’esistenza; è l’ultimo preludio alla battaglia estrema, e a partire da questo momento la prostrazione crescente causata dalla malattia pone il padre letteralmente in balia della narrazione, permettendo al figlio di istituire un’identificazione («è approdato al mio stadio di fragilità, ha finito per raggiungermi») cui fa seguito l’avvio, legittimato dalla perdita di una coscienza che altrimenti non avrebbe concesso una simile parola, di una serrata “romanzizzazione” della morte paterna. È una trasfigurazione letteraria per cui il processo della morte è presentato come una «liberazione» («Prese la sua prima risoluzione non fascista: decise che era venuto il momento di morire»), il che parrebbe quasi confermare una lettura analogica del fascismo tra natura e cultura: non fosse per una metafora che trasforma la morte, o la sua fine, in un estenuato sussurro della vita nel suo estremo trionfo riproduttivo.
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