5 per mille

Learning from Ravenna

30 Maggio 2025

All’estetica tradizionale incentrata su oggetti d’arte di ogni genere si è aggiunta, negli ultimi decenni, una teoria che va oltre l’identificazione di un mero epifenomeno, un approccio che, anzi, ingloba l’estetica tutta: l’estetica dell’atmosfera. Il filosofo tedesco Gernot Böhme (1937-2022) fu l’artefice principale di questa scuola di pensiero che intende ricordare come, anche nelle circostanze in cui ci focalizziamo su dei veri e propri oggetti, la relazione con essi (e non soltanto quella iniziale) avvenga in un contesto al di là della pura materialità. Il “contatto” con un dipinto, con una scultura, con un edificio o con un brano musicale nasce sempre in una situazione spaziale che rende difficile identificare il solo oggetto o, al contrario, il solo soggetto quale fonte primaria del piacere estetico, l’atmosfera rappresentando proprio, in ultima analisi, la sintesi concreta fra i due poli. La teoria di Böhme, ripresa e amplificata in Italia da Tonino Griffero, ha come base sia la presa in considerazione della ricezione da parte di un soggetto – e questo dall’epoca romantica in poi (ognuno di noi, in quanto soggetto esposto all’arte, è co-autore delle opere esperite) –, sia la smaterializzazione dell’arte moderna in seguito ai ben noti atti decostruttivi di Marcel Duchamp, Yves Klein, nonché di una miriade di artisti “concettuali”.

j

Per motivi evidenti (ma anche perché Böhme insegnava a Darmstadt in una istituzione dedita alle discipline costruttive), la teoria dell’atmosfera si è trovata sin dall’inizio ad analizzare il terreno dell’architettura. Secondo Böhme, prima ancora di individuare dei dettagli e prima di orientarci in merito, noi “sentiamo” uno spazio architettonico. L’essere “toccati” (berührt) da un edificio rimanda al dato essenziale che l’architettura altro non faccia se non produrre atmosfere “quasi oggettive”. Questa tonalità dello spazio architettonico si manifesta in modo esemplare in Coleridge, il quale, scoprendo l’interno di una cattedrale, osservava: “I am filled with devotion […] I am lost […] I am nothing.” Al pari del poeta romantico inglese, anche Böhme ha scelto una cattedrale gotica (in questo caso quella di Colonia) come esempio paradigmatico, sottolineando sia la qualità del silenzio (in contrasto con il rumore urbano), sia quella dello spettacolo della luce che inonda lo spazio consacrato. Nel suo tematizzare – in modo piuttosto generale – l’architettura sacra occidentale, Böhme ha rilevato alcuni problemi-chiave, come quello del diktat, espresso intenzionalmente attraverso questi edifici, sulla modalità da utilizzare per esperirli. Esposti all’atmosfera di alcune architetture sacre, i visitatori (ma il termine è forse troppo moderno e tipico di un’epoca in cui tali edifici sono vissuti in maniera profana, turistica) subiscono una riduzione del campo conoscitivo. Questo tipo di costruzione rivendica, in altri termini, una forma di monopolio interpretativo per quel che concerne le esperienze insolite rese possibili proprio da un’architettura altra.

Assai sorprendentemente Böhme (ciò vale anche per i suoi discepoli) tralasciò un caso esemplare, cioè il “caso Ravenna”. Benché l’applicazione dell’estetica dell’atmosfera in chiave architettonica possa essere riferita alla maggior parte del patrimonio ravennate, vorrei concentrarmi (per ragioni che diventeranno palesi) su due oggetti: il Mausoleo di Galla Placidia e il Battistero Neoniano, detto anche ‘degli Ortodossi’.

j

Pur concepito come un monumento funerario, il cosiddetto Mausoleo di Galla Placidia non ha mai contenuto i resti della reggente (in nome e per conto del figlio Valentiano III) dell’Impero romano d’Occidente, tra il 425 e il 437. L’edificio a croce latina, costruito intorno al 425-426, era in origine collegato alla Chiesa di Santa Croce. Vista da fuori, la struttura in laterizio appare grezza, in ovvio contrasto con l’esuberanza formale e cromatica degli interni. Lo spazio, di apparente semplicità e ricoperto in toto da mosaici, si presenta agli occhi del visitatore stupito come un luogo incantato. L’effetto più dirompente (Böhme lo esprime nei suoi scritti) è quello della luce, e più precisamente il contrasto tra gli elementi luccicanti e il magnifico sfondo blu. Purtroppo, il fenomeno originale può essere soltanto immaginato, poiché dai primi del Novecento lastre di alabastro, donate da Vittorio Emanuele III, coprono le finestre a feritoia. Nell’impianto iniziale il percorso dei raggi solari faceva parte di un sistema calcolato con estrema esattezza invece la luce filtrata dall’alabastro conferisce all’insieme odierno una Stimmung romantica.

j

Tralasciamo volentieri l’iconografia delle volte e delle lunette, ben studiata da frotte di specialisti, e occupiamoci della parte centrale, la cupola. Qui la rappresentazione del cielo culmina nella croce (latina) simbolo di Gesù. Questo centro del centro è costellato da 567 stelle a otto punte di grandezza decrescente se si parte dal fulcro. La cupola è contenuta in un tiburio, che funge da involucro profano per la sacra raffigurazione. Nei quattro angoli, oltre alle stelle, si vedono i simboli degli evangelisti. Il programma religioso tradotto in segni è improntato a una totalità palpabile che avvolge completamente gli spettatori-lettori, al punto che si potrebbe parlare, in questo caso, di una teologia materializzata. Se aggiungiamo a tutto ciò il fatto che lo spazio sarebbe da esperire da un punto di vista in origine più basso di un metro e mezzo e che sia l’edificio sia il suo contenuto iconico fanno parte di un progetto di grande raffinatezza, allora il punto centrale sotto la cupola assume un ruolo primordiale. Gli studi recenti di Manuela Incerti et al. (The Mausoleum of Galla Placidia in Ravenna […], 2019) hanno dimostrato che tutti i cerchi formati dalle stelle si allineano soltanto a partire dal centro assoluto in una composizione perfettamente circolare. Il Mausoleo di Galla Placidia è quindi il risultato di una vera e propria scienza della costruzione al servizio del programma teologico (anche la pianta e l’orientamento corrispondono, secondo Incerti, a un progetto astronomico inequivocabile). Chi si sofferma in quell’esatto punto pivotale si espone alla massima potenza della macchina scenografica, realizzata solo in apparenza con mezzi semplici. Qui lo spettatore viene “ricompensato” dalla prodigiosa epifania di un sistema celeste che ruota intorno a Gesù-Dio. Qui, dove lo sguardo estatico svela l’eternità invisibile, il soggetto è però pure dolcemente risucchiato dal sistema stesso. L’effetto somatico di questa “camera di Dio” sul visitatore è quindi perlomeno doppio: si tratta di un dispositivo che coinvolge il soggetto in senso sloterdijkiano (una sfera onnipotente contenente il tutto), ma anche di una macchina ideologico-teologica capace di indurre ad arte una forma di vertigine.

j

Il breve e intenso itinerario dall’esterno all’interno del Mausoleo converge sulla figura di Gesù: l’edificio, che ha come base la croce latina, si rispecchia nella croce latina interna che corona il cielo stellato, due presenze simboliche di Cristo alle quali si può aggiungere il celebre mosaico del Buon Pastore. Le implicazioni semiologiche sono altrettanto notevoli: la pianta formale dell’edificio (la croce che fonda la costruzione) e quella del cielo interno sono ambedue simboliche, mentre il Pastore è un segno iconico. I quattro evangelisti ai lati del cielo appaiono attraverso i loro simboli, che rimandano al verbo (il racconto biblico), a ciò che sta oltre l’immagine. Un ulteriore elemento complica tutto, poiché la traduzione del dogma in messaggio iconico possiede un supporto ibrido: il mosaico è pittura, ma in parte è scultoreo, rappresentazione materica.

Il secondo edificio-chiave è il non meno celebre Battistero Neoniano dalla forma ottagonale (Sant’Ambrogio impose questa struttura topica dei battisteri, il numero otto ricorda la resurrezione di Cristo avvenuta l’ottavo giorno). Nel suo stato originale il livello del pavimento era ben tre metri più basso, ciò che permetteva una prospettiva più vertiginosa. Tre ordini si succedono all’interno in una successione visiva di grande impatto, le arcate prima, le finestre poi, e infine la cupola a mosaici. Il fonte battesimale stava direttamente sotto il mosaico posto in alto e raffigurante il battesimo di Gesù. Poiché l’edificio era utilizzato soltanto una volta all’anno (il Sabato Santo, giorno della resurrezione), esso funzionava come un dispositivo specifico per il rito collettivo del battesimo. Grazie alla disposizione verticale, sia il vescovo, sia la persona battezzata entravano idealmente in contatto con il Cristo dipinto. Il battesimo dei novelli cristiani reiterava il battesimo di Gesù, e avveniva per così dire sotto la sorveglianza diretta di quest’ultimo che, nel mosaico apicale, non guarda né San Giovanni, né il fiume Giordano personificato, ma quanto accade in basso, la folla riunita ai suoi piedi. In questo luogo semi-pubblico, il battezzato esperiva quindi una specie di “battesimo degli occhi”, una relazione visiva con Gesù. La verticale è in tale contesto il vettore principale: il battezzato entrava in acqua scendendo nel fonte battesimale, che ricorda una tomba, per risollevarsi in seguito come il Cristo risorto.

h

Insieme, il Mausoleo e il Battistero illustrano a tutt’oggi l’effetto subitaneo di una architettura dell’atmosfera creata ad hoc. Mentre il primo celebra la morte, il secondo celebra la vita. All’interno del Mausoleo, il visitatore è passivo, come se la magica cupola stellata si abbassasse a mo’ di cappa per abbracciarlo, per contenerlo nella totalità cosmico-teologica. All’interno del Battistero (nella forma voluta da Neone, che rimpiazzò il soffitto iniziale con il mosaico del battesimo di Gesù), al contrario, tutto è movimento e l’occhio del battezzato nonché degli altri astanti è indirizzato con forza, tappa dopo tappa, verso l’alto. Diversamente dal Mausoleo, dove l’io è confrontato con l’immensità del cielo, nel Battistero conosce una situazione di elevazione dinamica.

Esiste beninteso una letteratura sterminata su questi due edifici. Più rilevante per il nostro contesto è una testimonianza d’eccezione. Carl Gustav Jung visitò infatti Ravenna per ben due volte (1913, 1933), e i suoi passi lo portarono soprattutto al Mausoleo di Galla Placidia e al Battistero Neoniano. Nei ricordi dello psichiatra e analista svizzero, le due visite e i due luoghi si confondono in modo bizzarro. Ciò che conta nel primo caso, è la soffice luce blu (“ein sanftes blaues Licht”), che riempie tutto lo spazio, e l’effetto generale, ossia il fatto di essere immersi in una atmosfera emozionante (“eine eigentümlich ergriffene Stimmung”). Di seguito, Jung contempla stupito, non si sa dove, quattro grandi mosaici di assoluta bellezza (“von unendlicher Schönheit”); in uno di questi, Gesù tende in extremis la mano a San Pietro, mentre l’altro rappresenta il battesimo di Cristo. Nella sua immaginazione, Jung pretende di “vedere”, ancora dopo svariati anni, i dettagli ma ogni tentativo di ritrovare i mosaici, parto della sua mente, fallirà. Più tardi, cercherà delle fotografie presso “Alinari” (che non aveva però nessun punto di vendita a Ravenna), incaricherà alcuni amici di scovargli delle riproduzioni, ma senza successo: le immagini erano frutto di un miscuglio di fantasia e di elementi iconico-semantici esperiti. La strana avventura di un medico di solito così preciso e razionale si collega con l’idea del battesimo come iniziazione attraverso un atto che include il pericolo di morte (è risaputo che Galla Placidia si salvò dall’annegamento). Jung tenta invano di razionalizzare l’episodio ravennate: “L’esperienza di Ravenna è una delle cose più strane che mi siano capitate. La credo praticamente inspiegabile.” L’impronta del mistero ravennate ha un grande impatto e diventa un evento assoluto nella biografia intellettuale di Jung. Al contrario di Freud, che visitò Ravenna nel 1896 e la definì con poco rispetto un “misero buco” (“elendes Nest”) sintetizzandola nella formula seguente: “Teodorico, Dante, mandorle, fichi […] vecchie chiese, mosaico”, il suo successore e futuro antagonista si identifica, attraverso una specie di battesimo profano, in un novello San Pietro.

Jung ritornerà sull’argomento (e più che il rendiconto di un episodio di inizio secolo sembrerebbe un discorso del Gernot Böhme degli anni 1980): “L’esperienza nel Battistero di Ravenna mi ha lasciato una profonda impressione. Da allora ho capito che un interno può sembrare un esterno e allo stesso modo un esterno può sembrare un interno. Le pareti reali del battistero, che i miei occhi fisici dovevano vedere, erano coperte e trasformate da una visione altrettanto reale quanto l’immutato fonte battesimale. Cosa vi era di reale in quell’attimo?” (Lo stato confusionale di Jung è stato certamente motivato anche dal fatto che il viaggio a Ravenna fu intrapreso con la giovane assistente Toni Wolff, che forse proprio durante quei giorni diventò sua amante.)

j

Per valutare meglio l’episodio junghiano e per giustificare allo stesso tempo l’applicabilità dell’estetica dell’atmosfera ai due monumenti in questione manca ancora un fattore fondamentale. L’impatto violento e la confusione che ne segue, nonché il mito junghiano di Ravenna, appaiono come il risultato di una instabilità dell’io dovuta innanzitutto a una costellazione spaziale specifica. Il dottor Jung, ma anche chi scopre nel modo più turistico questi due edifici, è esposto con forza alla prospettiva di sotto in su. Quest’ultima mette in crisi l’habitus antropologico della frontalità nel nome di una elevazione straordinaria. Lo sguardo eterodiretto con forza verso l’alto (grazie a un sofisticato meccanismo architettonico e iconico) si distacca per la durata della visita dalla modalità di lettura del mondo faccia a faccia. A differenza di altri spazi che provocano una mirabile elevazione visiva (vedi il Panteon), qui l’elevazione ha una base sia formal-fenomenologica, sia semantico-ideologica. La croce centrale della cupola del Mausoleo e il Gesù battezzato, che controlla dall’alto con lo sguardo chiunque lo contempli in una posizione di sotto in su nel Battistero, mostrano come la deviazione scopica sia letteralmente l’espressione di un messaggio religioso. Basti ricordare in proposito il battesimo di Gesù nella versione di Marco: “In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato da Giovanni nel Giordano. E a un tratto, come egli usciva dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito scendere su di lui come una colomba. E una voce venne dai cieli: Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto.” Non è quindi soltanto chi sta sotto lo sguardo di Gesù nel Battistero Neoniano a occupare una posizione di sotto in su, ma lo è Gesù stesso che, proprio esposto al medesimo punto di vista inferiore, è riconosciuto in quanto figlio di Dio in modalità video (“vide”) e audio (“una voce venne”).

j

La Ravenna del quinto secolo rappresenta perciò un punto di partenza da studiare con grande attenzione. Esattamente un millennio prima del Mantegna della Camera degli sposi, il Battistero Neoniano installa al centro esatto della cupola un “occhio” che assorbe tutto. Lassù, l’occhio-oculus guarda le persone che si trovano in basso, con la specificità che attraverso il rito del battesimo questi ultimi possono entrare in relazione con Gesù.

È precisamente qui che comincia una storia dello sguardo di sotto in su che conoscerà dal Quattrocento in poi una enorme fortuna. L’originalità dell’esempio ravennate sta nell’aver sviluppato un dispositivo architettonico, a sua volta collegato con un programma religioso, incentrato sull’immagine del battesimo e della croce. Visto che quest’esperienza si concretizzava nella performance collettiva del battesimo, la fusione tra l’io e Dio andava ben oltre la sola rappresentazione. Anche per chi, oggi, non condivide più il programma teologico e il suo carattere iniziatico, l’atmosfera presente in loco non ha perso nulla della sua forza grazie, per l’appunto, alla prospettiva “di sotto in su”.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO