Speciale Fenoglio | Questo non è un romanzo

19 Febbraio 2013

Per i cinquant'anni dalla morte di Beppe Fenoglio avvenuta la notte tra il 18 e il 19 febbraio 1963 pubblichiamo un estratto dal libro di Nunzia Palmieri, Beppe Fenoglio. La scrittura il corpo.

 

 

La presenza del canone verista in Fenoglio è stata data per lungo tempo come fatto acquisito, al punto che, nel numero di febbraio del 1956, la rivista “umoristico-letteraria” «Il Caffè» pubblicò un divertente apocrifo fenogliano, Alla Langa, parodiando le soluzioni stilistiche e linguistiche adottate nella Malora.

 

Se i lettori di professione denunciano un eccesso di letterarietà e di artificio, i lettori comuni sembrano viceversa schierarsi su posizioni opposte: nella percezione di alcuni cittadini albesi, invitati, nei primi anni Settanta, a partecipare a gruppi di lettura, La malora non era un romanzo, ma una collana di storie vere che tutti loro conoscevano. Non si trattava di un apprezzamento, ma di una condanna per malafede: chiunque di loro poteva, allora, spacciarsi per scrittore. Diverso il caso di Pavese, nei cui romanzi il filtro letterario era più scoperto: trame solide, approfondimento psicologico dei personaggi, considerazioni sulla vita che potevano essere assunte a Weltanschauung.


 

La malora, dunque, non è un romanzo: i racconti e gli aneddoti che vi sono contenuti circolano da tempo in quei paesi, si possono ascoltare nei luoghi pubblici, nei bar, nelle riunioni di famiglia, e riguardano persone realmente esistite. Si ha l’impressione, nonostante la coerenza della voce unica di un narratore in prima persona, che Fenoglio abbia voluto metterci sotto gli occhi un intreccio di storie che hanno una loro parziale autonomia. L’opinione è condivisa anche dai “ricercatori” coinvolti in un esperimento tentato da Cesare Segre, che affida a un gruppo di lettori il compito di riassumere le vicende del romanzo attraverso una singolare procedura di scomposizione: «Il testo è stato diviso idealmente in tranches, e affidato a cinque ricercatori con le seguenti istruzioni: dopo la lettura di ogni tranche registrare il contenuto narrativo assorbito partendo ogni volta dal principio, e perciò riassumendo una parte sempre più ampia del testo letto [...]. Si è suggerito che le letture delle successive tranches, e la registrazione dei loro risultati, avvenissero con una successione settimanale». L’esito della prova pone l’accento sulle difficoltà di restituzione della fabula seguendo l’ordine biografico: il racconto procede generando sempre nuove storie, in una proliferazione potenzialmente inesauribile. A proposito del rapporto fabula-intreccio, i ricercatori «si accorgono presto della difficoltà di tenere a memoria i vari salti temporali. Essi cercano pertanto una disposizione dei contenuti mnemonici più lineare [...]. Va detto che, e qualche ricercatore lo dichiara esplicitamente, il romanzo è costruito come una collana di episodi che, almeno nella prima parte, si succedono più che connettersi. I ricercatori si sentono dunque autorizzati a manomettere l’ordine originario».

 

L’organizzazione del tempo nel secondo romanzo di Fenoglio si presenta infatti come una complessa orchestrazione di episodi appartenenti a diverse epoche della vita di Agostino. I salti temporali sono tuttavia ricostruibili e i segnali indicatori non mancano, se Cesare Segre ha potuto disporre su un grafico i movimenti dell’intreccio rispetto alla linea orizzontale della fabula dividendo il romanzo in sequenze: la distribuzione degli avvenimenti segue un ordine che prevede scarti notevoli rispetto alla cronologia “naturale”: il funerale del padre, con cui La malora si apre, rappresenta un ipotetico punto T1 in base al quale individuare un tempo T-1 (Agostino è condotto dal padre a conoscere Tobia Rabino), T-2 (l’incontro e il fidanzamento fra Giovanni Braida e la futura moglie...), poi ancora T1 (Agostino torna al «Pavaglione» dopo il funerale), T+1 (l’incontro con Mario Bernasca e con Fede), fino al ritorno di Agostino alla casa dei genitori. Resta da chiedersi per quale motivo Fenoglio abbia deciso di conferire proprio quella forma alle «memorie di un “servitore di campagna”» che arriva faticosamente al riscatto dopo un lungo periodo di stenti.

 

 

Torniamo, per un momento, alla sequenza del funerale: Agostino si presenta sulla scena del romanzo in un momento della sua esistenza in cui deve fare i conti con la morte del padre, l’avvenimento più importante – sosteneva Sigmund Freud – nella vita di un uomo. L’archetipo dell’orfano, ascritto da Jung tra le figure dell’inconscio collettivo, si trova declinato, secondo prospettive diverse, in due dei romanzi maggiori di Pavese, La casa in collina e La luna e i falò: come Agostino, anche Anguilla e il suo “doppio” Cinto non hanno altro che il corpo per affrontare le difficoltà della vita, braccia gracili da trasformare con il lavoro duro in strumenti “prodigiosi” in grado di garantire sopravvivenza e benessere. È una delle situazioni canoniche di apertura che troviamo in tante fiabe “realistiche”, le fiabe contadine «da principio alla fine, con l’eroe zappatore, coi poteri magici che restano appena un precario aiuto alla forza delle braccia e alla virtù ostinata». In questa prospettiva, piuttosto che nell’ottica di un verismo in ritardo, sembra opportuno gettare uno sguardo sulle figure a cui Fenoglio dà forma: la distribuzione degli episodi in un ordine che prevede scarti notevoli rispetto alla fabula permette di disporre in una sequenza significativa gli accenti ritmici dei singoli avvenimenti raccontati e delle figure che si muovono al loro interno.

 

Spostiamoci allora a poche pagine dalla chiusa del romanzo, quel finale che Calvino trovava poco convincente perché Fenoglio non era riuscito, a suo parere, a dare alla storia una tonalità di disperazione assoluta né di speranza, dove troviamo un colloquio fra Agostino e Mario Bernasca sulle possibilità di lasciare le Langhe e andare a cercar fortuna altrove. Agostino rifiuta la proposta di «aggiustarsi» in Alba come panettiere o come garzone di macellaio, perché avverte le forze che lo legano alla terra: «qui c’entra il mio naturale», spiega a Mario, e poi «il giorno che non sapessi dove dormirò la sera io sono un uomo perso», anche se le ragioni profonde della rinuncia le confessa solo a se stesso:



Per forza che a Bernasca montava la rabbia; io me ne stavo lì con una faccia mezzo e mezzo e a parlare più da bambino che da uomo, mentre lui aveva il fuoco sotto e il bisogno di sentire da me una parola ferma. Ma non potevo mica dirgli a un originale come Mario che, a parte il coraggio e il naturale, conservare il posto da Tobia era per me una maniera come un’altra di tener la memoria di mio padre che mi ci aveva aggiustato prima di morire, e di salvare il rispetto della mia famiglia, che almeno avrebbe sempre saputo dove ero il giorno e la notte.



A questo punto, dopo la confessione di appartenere alla categoria di chi parla «ancora da bambino», Agostino avvia uno di quei racconti che potrebbero stare a sé, in cui si narra la storia di un impiccato. L’episodio si apre con una premessa sulla quale dovremo tornare: «Se da quelle parti là si ricordano ancora di me è solo perché sono stato io che trovai Costantino del Boscaccio».

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