Sul soffitto

21 Novembre 2015

Le nuvole più grosse sono grigie, le città più alte ed estese sono grigie, l’elefante, l’ippopotamo, tutti i pachidermi sono grigi, li si vede da più lontano rispetto al colibrì o alla farfalla eccessivamente colorati, ma rimane il pregiudizio secondo cui il grigio sarebbe la più sottile manifestazione del visibile, ciò che si distingue appena dal nulla o se ne avvicina di più, un pregiudizio così tenace, d’altronde, che ha finito con l’accecare per davvero i popoli: quanti uomini e quante donne restano giorni, mesi, anni interi senza vedere un elefante, né un ippopotamo, come se bestie talmente imponenti fossero veramente diventate impercettibili per loro? Oggi, la sensibilità al grigio caratterizza alcuni rari esteti che possiedono un’anima da musicista. Loro lo sanno, esistono tante sfumature di grigio quanti colori schietti, ogni sua sfumatura corrisponde precisamente a uno di quei colori di cui esprime tutti i valori, solo con maggiore delicatezza e finezza, con un’esattezza e una purezza assolute. Esiste così un grigio che vale il rosso, più sottilmente rosso del rosso, malgrado le apparenze, che va oltre nell’idea e nella sensazione suscitate dal rosso il rosso stesso, un grigio più rosso del rosso, più intimamente rosso del rosso, il grigio del rinoceronte per esempio, un grigio più nettamente blu del blu, il grigio dell’elefante, un grigio più profonda mente verde del verde, il grigio dell’ippopotamo, un grigio di un giallo che il giallo non raggiungerà mai, il grigio della pietra. È questo che la sobria eleganza ha compreso.

 

Dalla testa ai piedi, ogni giorno, io mi vesto di grigio, eppure tutti si girano verso di me quando esco, mi osservano con curiosità. Gli stessi sguardi che ignorano l’elefante, che trapassano il rinoceronte e scivolano sull’ippopotamo si soffermano su di me. Mi si nota, vengo individuato subito. Ho un viso molto comune, né bello né brutto, e il mio specchio in effetti non è altro che denaro buttato dalla finestra, dato che i miei simili sfilano sul marciapiede, dietro il vetro trasparente. Del mio naso, se mi toccasse nonostante tutto affinare questo ritratto, direi che è la sede del mio odorato, e dei miei occhi, se non li avessi, che sarei proprio impedito nel vederci. Ho tutte le antenne dei sensi al loro posto io, sono uno che somiglia, mi si potrebbe prendere per un altro, parecchi altri, chiunque. Ma sento mormorare attorno a me quando esco, i passanti mi indicano con il dito. Quando entro in un luogo pubblico, un negozio, un ristorante, abbassandomi leggermente per varcare la soglia – non che sia più alto di chiunque, ma porto permanentemente una sedia rovesciata sulla testa e temo di urtare lo stipite o di mandare in frantumi la vetrina –, le conversazioni si raggelano, poi cedono il posto a quello stesso mormorio che credevo di avere lasciato fuori, che decisamente mi segue, come quei mosconi che sperano di fare un affare con noi, attirati da un non so che, da chissà quali effluvi, e sembrano ricercare la nostra compagnia al solo scopo di soddisfare uno strano bisogno di nuocere.

 

Mi piacerebbe poter dire, significherebbe mentire, che sono nato così, con una sedia rovesciata sulla testa. Ma l’origine della cosa risale a un’epoca così remota che mi ricordo appena degli anni che l’hanno preceduta. Allora, ero un bambino spaventato, già solitario come un vecchio maschio, così poco socievole che il mondo mi sembrava popolato esclusivamente da terze persone – altrui, prima di ogni altra determinazione, designava per me quelle terze persone che sopraggiungono sempre al momento meno opportuno. Quando ero fatto oggetto dell’attenzione generale, mi sentivo strappato a me stesso, aspirato, svuotato di ogni sostanza, appartenevo a quel fascio di sguardi la cui sola convergenza attestava la mia presenza in questo mondo: quegli occhi posati su di me erano tutto ciò che restava della mia carne vivente, la mia stessa coscienza si confondeva esattamente con la somma delle impressioni e dei giudizi che ispiravo in quel momento. Dei lunghi minuti erano successivamente necessari perché ricomponessi un’identità mia nella solitudine, tornavo a me stesso, ma avevo cessato di esistere per tutto il tempo in cui si era prolungato l’esame, avevo vissuto come un morto di fresca data nei ricordi contraddittori delle sue conoscenze prossime e lontane. Detestavo dunque al di sopra di ogni altra cosa essere l’oggetto di quella attenzione a cui mi era comunque impossibile sottrarmi perché la mia discrezione, presa per mitezza, veniva ancora mostrata come esempio agli altri bambini che si nascondevano meglio di me nella confusione. Avrei voluto rimpicciolirmi in quegli anni in cui il midollo monta come una linfa, in cui la tiroide vi squarta dall’interno, io potevo solo rannicchiarmi, crescere in cerchio, a spirale. Un dottore consultato da mia madre mi impose l’esercizio della sedia rovesciata per costringermi a crescere dritto. Mi raddrizzai. Esisteva dunque un posto al sole per me. Meglio ancora: così equipaggiato, ero ovunque al mio posto.

 

In cielo, sono un uomo ben sistemato. Siedo accanto agli dèi leggendari al di sopra delle nubi, tra i lampi, spremo le arance che producono i fulmini arancioni, faccio il bello e il cattivo tempo. Insomma, domino la situazione. Vedo le cose dall’alto. Devo chinarmi per osservare gli uccelli, sono più grandi degli uomini. Gli uomini vivono più in basso, in fondo, li intravedo schiacciati dalla prospettiva mentre i loro piedi giocano con la loro testa come con un pallone, spingendola in avanti – successione rapida di dribbling stretti e cambi di ritmo –, evitando degli avversari che a loro volta pensano esclusivamente a schivarsi, ognuno per sé, ognuno per il proprio goal, assisto a questa partita interminabile senza prendervi parte, spassionatamente, ma non le stacco mai gli occhi di dosso, solo perché godo di una posizione buona, comoda, e di un punto di vista unico. Spero sempre che succeda qualcosa di sorprendente, è raro, e a volte in effetti una testa rotola un po’ troppo lontano.

 

Per quanto ne so, nessuno prima di me ha portato così una sedia rovesciata sopra la testa, o esclusivamente per brevi distanze – ma, a un tratto, sembrerebbe che non se ne sfugga, vale a dire che ognuno vi si sia cimentato almeno una volta, che non si saprebbe trovare un solo uomo adulto che non abbia mai portato una sedia rovesciata sulla testa, se ne citi un solo esempio, una prova che tale aspirazione esiste in ognuno di noi, profondamente ancorata, la prova anche che non è facile mostrarsi degni di lei e piegarsi a lungo alle esigenze che presuppone, a tal punto che tutti finiscono per rinunciarvi e per riposare la sedia dopo qualche minuto, qualche metro, io sono il primo a resistere.

 

Mi squadrano tra la folla. Ho diritto a fastidiose riflessioni perché non cedo la mia sedia a un’anziana signora in piedi affaticata o che si sente male – le signore anziane in piedi affaticate o che si sentono male rappresentano la maggioranza nel gruppo dei personaggi in cui mi trovo inserito –, devo inventare delle spiegazioni per sfuggire al linciaggio, questa sedia è fragile, rosa dai tarli, pericolosa, la sto giusto portando a fare riparare, la signora rischia meno di vacillare stando così com’è, sulle proprie gambe. E offro i miei servizi, mi propongo per sostenere l’invalida, la riaccompagno a casa sua, aggrappata al mio braccio. Mai che possa assistere fino alla fine a uno spettacolo all’aperto.

 

Ma mi vergogno di queste vili menzogne – devo forse rendere conto al primo venuto che me lo chiedesse? Perché sono tenuto sempre a giustificare il mio comportamento, ad addurre come in questo caso un pretesto qualsiasi affinché venga accettato? Dato che non esiterei a cedere la mia sedia per qualche momento a un’anziana signora che desiderasse mettersela in testa, che provasse di colpo l’imperioso bisogno di mettersela in testa, ed essendo io il solo allora tra tutta questa gente che mi guarda severamente a poterle venire in soccorso, da nessun altro all’infuori di me, in questa situazione, lei dovrebbe aspettarsi il minimo aiuto, sarebbe giusto non dimenticarselo.

 

Un’altra seccatura è che devo inarcare la schiena per passare dalle porte. Non è stato previsto nulla per noi. Spesso, i soffitti sono troppo bassi. Tutti i vestiti che si infilano dalla testa hanno delle scollature ridicolmente strette. Per gli architetti e i sarti, è come se noi non esistessimo. A loro non verrebbe in mente di lavorare pensando alla nostra singolarità, di tenerne conto, ma destinano le loro creazioni alla maggioranza e poco importa che non passiamo da queste gattaiole, essi mirano a un successo di massa, noi siamo una quantità trascurabile. Risento duramente di questo disprezzo. E se io stesso, con uno spirito di rivalsa, ovvero di giustizia, decidessi di interessarmi unicamente alla gente della mia specie, come verrei giudicato? Smettendo di rivolgermi a tutti, di operare per la comunità, se mi dessi come obiettivo di soddisfare coloro che portano una sedia rovesciata sulla testa, solamente quelli, cosa si direbbe di me? Che faccio gruppo a parte, che favorisco gli iniziati, che attribuisco più valore all’approvazione di un’élite che alla riconoscenza popolare, e i miei lavori sarebbero definiti esoterici, sarebbero visti nella migliore delle ipotesi come piccole curiosità decadenti, nella peggiore alla stregua delle più oscure e pretenziose parabole.

 

Non sono uno che serba rancore. Mi asterrò da queste vendette subdole. D’altronde, si ritorcerebbero contro di me, l’ho detto, non ho nemmeno la possibilità di rispondere colpo su colpo: si tollererebbe a mala pena che mi lagnassi, e non aspettano altro che questo, in realtà, hanno delle riserve di compassione sempre pronte, se almeno acconsentissi a lamentarmi della mia situazione – senza per questo rivendicare nulla, attenzione, soprattutto non reclamare nulla, lasciare loro l’iniziativa. Quello che vogliono è un’occasione per mostrarsi caritatevoli. Potrei procurare loro questa intima e dolce soddisfazione di scoprirsi più generosi di quanto non si immaginavano, più sensibili allo sconforto, meno aridi di quel che credevano, e questa bontà l’eserciterebbero subito su di me, senza un filo di gratitudine, perché altrimenti non avrebbero altro modo di goderne. Essa sarebbe inopportuna, di certo, mi riempirebbero di doni inutili – un cappello, un pettine –, ma cosa importa, ci mancherebbe solo che pretendessi di resisterle, che rifiutassi i suoi presenti, che osassi suggerirle di portare i suoi soccorsi qui piuttosto che là – non somiglierei così forse a quei malati che chiedono al dottore di confermare la loro stessa diagnosi e gli spiegano come deve aprire loro il ventre per curare le loro emicranie? Come la si vedrebbe raffreddare allora, questa bontà insperata. Il bello slancio di generosità verrebbe stroncato di netto.

 

C’è un malinteso, comunque. Non sono scontento della mia condizione. La pietà non è mai altro che una maniera di credersi al riparo dalla pietà o, in modo ancor più vizioso, è una forma deviata dell’invidia – dopo tutto, gli aerei a lunga percorrenza sono colmi di uomini senza gambe che si pagano il viaggio con i risparmi realizzati sui costi delle scarpe, e invece noi restiamo qui, non abbiamo più abbastanza denaro, e nemmeno abbastanza gambe per andare a passare le nostre vacanze sul Sole con loro, riceviamo le loro cartoline insieme alle esorbitanti fatture dei calzolai. Ci sono anche dei vantaggi nella mia situazione. Non li sottovaluto. Non mi è dovuta alcuna pietà – e se fosse il caso, saprei bene impietosirmi per me stesso, sono diventato sveglio, un vero Robinson Crusoe –, ma ritengo di avere il diritto di esigere alcune migliorie: voglio potere indossare qualcosa di diverso da felpe o da vestiti che si abbottonano sul davanti, voglio poter entrare in auto che non siano decappottabili o approfittare dei mezzi di trasporto collettivi. Non chiedo altro che di dissolvermi, ma me lo impediscono. Poi mi indicano con il dito, guardatelo, ancora uno di quei poveracci capaci di tutto pur di attirare l’attenzione. Ecco cosa sento dire. Sappiatelo dunque, ne ricavo più umiliazione che gloria, devo chinare la testa nei palazzi pubblici, nelle amministrazioni, dove il mio aspetto riflessivo conforta nel sentimento della loro onnipotenza i più infimi, inefficaci e rachitici sportellisti già troppo inclini a credere che la gente faccia la coda per contemplarli, se anche è vero che tra loro ci sono le ultime donne barbute e dei vitelloni a due teste davvero notevoli. Le mie esigenze sono modeste. Si tratterebbe solamente di rialzare un po’ i soffitti.

 

 

Traduzione di Gianmaria Finardi

 

 

Il libro: Éric Chevillard, Sul soffitto, Del Vecchio editore, dal 22 novembre 2015, pp. 144, 14,00 €

 

In uscita il 22 novembre 2015, il libro sarà presentato il 24 a Venezia presso Cultural Flow Zone/Biblioteca Zattere, il 25 a Roma presso l'Institut français centre Saint-Louis, e il 26 a Palermo presso la libreria Feltrinelli,  nell’ambito del Festival della Narrativa Francese promosso dall’Ambasciata di Francia in Italia e l’Institut Français Italia.

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