Ta Pum: con Leo Ortolani sull'Ortigara

22 Dicembre 2025

In quanto veneto e figlio di un alpino purosangue, da bambino ho partecipato almeno a un paio dei cosiddetti “Pellegrinaggi Nazionali all’Ortigara”. Verso la fine degli anni Ottanta mi trovavo a essere parte attiva di un campionario umano composito e multigenerazionale, animato dal desiderio di appartenere a una storia terribile quanto familiare che affonda le sue radici nella Grande guerra. Tali radici trovano, tra altri, riscontro vivido nelle note pagine di Emilio Lussu e di Mario Rigoni Stern, mappa di ricordi che ricompone – letteralmente – i pezzi di un Altipiano dei Sette Comuni messo a ferro e fuoco dal furore del tiro incrociato. L’Ortigara corrisponde al Golgota: una calotta petrosa, le cui pendici fanno da sponda alla valle scavata dal Brenta, la Valsugana, che si apre come una ferita tra Veneto e Trentino.

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Tutto intorno si estende a perdita d’occhio il vasto cimitero di guerra, attraversato in ogni periodo dell’anno da viandanti che tra queste cicatrici rocciose si avventurano per i motivi più diversi. Ma l’acme di presenze corrisponde al citato ritrovo annuale. Il pellegrinaggio, organizzato ogni luglio dall’Associazione Nazionale Alpini, raggiunge infine la quota 2.105 metri, vertice del teatro delle sanguinose battaglie dell’estate 1917. È uno dei momenti più solenni della memoria alpina: rito laico e spirituale insieme. Nella fatica della salita, nel silenzio austero dei luoghi e nella coralità della cerimonia si rinnova la memoria del sanguinoso sacrificio, calcolabile tra i 25 e 28mila morti tra le fila degli italiani e i quasi novemila caduti austroungarici.

L’evento di aggregazione non è una emanazione dell’Onorcaduti, ossia delle istituzioni ministeriali, ma nasce, come si suol dire, dal basso, per iniziativa dei reduci e dei familiari delle vittime. Non a caso, il rituale viene interrotto durante il fascismo, ostile al culto luttuoso considerato sintomo di debolezza, per riprendere nel Dopoguerra fino a diventare un appuntamento tra i più noti dell’ANA. Il centro simbolico del rito corrisponde al Cippo della colonna mozza posata nel settembre 1920 durante la prima adunata alpina.

Centocinque anni più tardi la memoria della tragedia passa, letteralmente, nelle mani di Leo Ortolani che la ricompone, striscia dopo striscia, in una recente pubblicazione a fumetti, Tapum (Feltrinelli Comics), titolo che rimanda al celebre canto alpino legato in modo indissolubile all’Ortigara. Prima di ogni altra speculazione sull’opera, da appassionato lettore del fumettista parmense, mi permetto un passo di lato. Chi conosce la Decalogia della Fine, il crepuscolo apocalittico-comico di Rat-Man, il suo personaggio più celebre, sa bene che Ortolani riesce a fondere un registro drammatico, per quanto inatteso, a un umorismo fulminante, capace di strappare d’impulso il riso dal petto. Una ispirazione che trae rispecchiamenti più o meno deformanti quanto dichiarati dalla storia del cinema generando ambientazioni di particolare cupezza e riuscendo, infine, a calarle dentro un fumetto nato come parodia degli universi superomistici DC e Marvel. Non temo, dunque, di sbagliare troppo se, nel dialogo asimmetrico d’impronta leopardiana tra il tenente Vincenzo Mariani, protagonista del racconto, e la Morte, che abita le spoglie decomposte di un soldato, avverto un déjà vu riferibile al duello, altrettanto sbilanciato nei rapporti di forza, tra Rat-Man e la mortifera Ombra.

Tornando al racconto ambientato sull’Ortigara – senza volerne svelare troppo il plotTapum si presenta a chi legge come un viluppo che rielabora in modo intimistico un sanguinoso capitolo della Prima guerra mondiale, tra i tanti possibili. I segni distintivi del linguaggio umoristico di Ortolani sono sempre filtrati da un’empatia profonda verso chi tra quel deserto di pietre ha lasciato la propria vita; sagome senza nome sacrificabili guidate da una cieca, quanto fallimentare, azione condotta dai baffuti vertici militari. Nel dialoghi spicca l’uso sapido del dialetto veneto, la madrelingua dei soldati semplici che li sottrae a qualsiasi tentativo di retorica, anche involontario, seguendo la falsariga poliglotta di La grande guerra (1959) di Mario Monicelli. A ciò si somma la diffusa consuetudine di consegnare le proprie generalità agli ufficiali anteponendo il cognome al nome, abitudine da prosa questurina, che qui diviene tratto identitario popolare. Una identità che si impasta col noto culto nordestino del vino e della blasfemia – ibrido tra imprecazione e preghiera che diviene richiesta estrema di attenzione a una divinità indifferente – che restituisce una parte genuina di quella umanità che fu mandata al massacro senza scrupoli.

Inoltre, Ortolani dà ampio conto della dimensione del canto, che diviene coro, così importante per la cultura alpina, come ebbe a sottolineare Lussu notando la mancanza della dimensione canora e ricreativa in Uomini contro (1970) di Francesco Rosi. Liberamente ispirato a Un anno sull’Altipiano (1938), il film con protagonista Gian Maria Volontè è perlopiù pervaso da una dimensione di severo contegno, influenzato dal clima scaturito dalla contestazione sessantottina, metafora che si può leggere in filigrana. Quel canto negato da Rosi echeggerà tra le montagne di Asiago in Torneranno i prati (2014) di Ermanno Olmi, quale sorta di risarcimento, diventando pratica terapeutica per tutti, nemici compresi.

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Nel contesto magmatico della battaglia, suggerito dalla suggestiva metafora della montagna tramutata in vulcano dalla furia piroclastica dell’uomo – come testimoniato da un maggiore del Battaglione “Stelvio” – Ortolani si cala nella vicenda ritraendosi nel protagonista Mariani, aiutante del capitano Dolon cui, invece, corrispondono le sembianze di Andrea Pennacchi, tra gli ispiratori del fumetto col suo La guerra dei Bepi (2020). Il romanzo, infatti, contempla una parte ambientata durante la Grande guerra, il cui protagonista è Bepi, nonno di Pennacchi, che parte per il fronte con l’entusiasmo ingenuo di un ragazzo nutrito da miti patriottici, come tanti altri coetanei. Giunto sull’Altipiano scopre l’impreparazione, la fame e l’assurdità degli ordini. L’Ortigara diviene l’Inferno: assalti impossibili tra reticolati intatti, compagni falciati mentre i generali comandano a distanza di sicurezza. Bepi invecchia rapidamente vedendo il battaglione sterminato e perde ogni fede in quei miti originari restando legato solo alla memoria dei compagni.

Nel Dopoguerra, mentre raccoglie pietosamente le ossa dei caduti, egli osserva quei morti che tornano in processione: un corteo muto che rimanda alla visionaria parata dei caduti di J’accuse (1919) di Abel Gance. Il Dolon/Pennacchi di Ortolani però va oltre il semplice ritratto, corrispondendo ad alcuni stereotipi veneti, veicolo di una cifra critico-ironica che mai surclassa la gravitas del contesto evocato. Così come l’autoritratto di Ortolani affiora tra le vignette non per rubare la scena, ma per collocarsi in una genealogia affettiva che riconosce la memoria di quei veci come parte integrante del proprio sguardo, reso finalmente consapevole dallo studio degli eventi. A differenza di molti film del secondo Dopoguerra, che dipingono la figura dell’ufficiale quale carnefice ottuso – si pensi al generale Leone di Uomini contro, conferma incarnata che il vero nemico si trova alle spalle dei soldati –, Ortolani lavora su un’ironia più laterale, che non rinuncia alla denuncia, ma la sfuma nella deformazione e nella trasfigurazione. Tra le strisce pare di riconoscere il tenente Gallina di La grande guerra che si stempera nel rapporto paterno con il soldato analfabeta: caratteri mantenuti nei tratti essenziali, ma calibrati quel tanto che basta per trasformarli in figure universali, quasi archetipiche, rese infine marionette di una guerra assurda. La caricatura non toglie verità, la amplifica.

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Il fumetto viene contrappuntato da strofe di canzoni, così come accade nel film di Monicelli, recuperando una tradizione narrativa che si traduce in una canzone, la quale viene a costruirsi pagina dopo pagina, strofa dopo strofa, rima dopo rima. E ancora: la figura del portaordini, presenza frequente nei film sulla guerra mondiale, ritorna qui non come citazione della vittima fine a sé stessa, ma come dispositivo narrativo che diviene occasione per fare satira nei confronti di un potere dispotico e dispatico. L’immaginario visivo è in ogni caso stratificato. Ortolani include nel suo percorso i manifesti d’epoca e le celebri tavole di Achille Beltrame, le cui illustrazioni per “La Domenica del Corriere” hanno plasmato per decenni l’iconografia popolare del conflitto. In Tapum tali immagini non sono riprodotte sterilmente: è come se l’autore volesse ricordarci che la memoria della guerra è fatta anche di visioni sedimentate che continuano a risuonare, riverberando messaggi propagandistici apparentemente innocui, perché ufficialmente disinnescati. Il risultato è un fumetto che non elude la morte, sorella gemella della guerra, ma la affronta con equilibrio tra rispetto e ironia, tra tragedia e sorriso, tra documento e invenzione. In tale spazio sospeso Ortolani costruisce un’opera che rievoca il passato per parlare del presente, ricordandoci che la memoria non si conserva soltanto nei monumenti o negli anniversari, ma anche nella capacità di rinarrare, con intelligenza e pietas, la fragilità umana travolta dal cupio dissolvi bellico, tracciando al contempo il sottile filo che ancora ci conserva tra i vivi, e perciò destinatari di quella testimonianza.

La guerra sull’Altipiano di Asiago restituisce di continuo i suoi fossili sottoforma di frammenti di shrapnel, di bossoli, di pezzi di ordigno, di paletti per reticolati a coda di porco, di scatolame arrugginito, di lamiere ondulate. Relitti nei quali chi, come me, ha la fortuna di trascorrere parte dell’anno da quelle parti, s’imbatte quotidianamente. È assai semplice trovarli: basta andare per boschi e guardare a terra. E se si ha con sé un figlio appassionato di quella storia si rischia di dover negoziare di volta in volta che cosa portare a casa e cosa lasciare agli altri tra i tanti “pezzi di guerra sporgenti da terra”, parafrasando Andrea Zanzotto. Tali oggetti sono testimoni di una storia crudele che si ibrida con altre più intime, di generazione in generazione, che, nel mio caso, si trova a metà tra mio padre – le cui ceneri per suo stesso desiderio abbiamo sparse proprio sulla vetta dell’Ortigara – e mio figlio, storia e luoghi che mi hanno visto più volte intrecciato a essi.

Assai piacevole è, dunque, ritrovare un riflesso di quella vicenda e di quei posti nell’opera a fumetti di Leo Ortolani, in un omaggio profondo che rinnova la memoria e il senso umano della colonna spezzata, posata dalla pietà di chi è rimasto poco più di un secolo fa. Ma senza concedere un passo di marcia alla retorica tonitruante che per lungo tempo ne ha eclissato il senso genuino, nascosto dietro la favola macabra della bella morte, mito che periodicamente torna ad adombrare il mondo. Nel mentre, non molto lontano da qui, si sente cadenzare ancora il tapum, tapum, tapum.

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