Way Down East. Le città di pianura
Mentre scrivo sto ascoltando alcune tracce musicali firmate da Krano estratte dalla colonna sonora di Le città di pianura: le stonature folk, ovviamente volute, mi riportano alla dimensione di un film che invita al viaggio. Il cammino tracciato dall’opera seconda di Francesco Sossai è malinconico, sornione, comico; è certamente nostalgico, ma in una misura che ho trovato piacevole. È in questo modo che, sulla soglia del film, partiamo insieme a Doriano, “Dori” (Pierpaolo Capovilla), e Carlobianchi o Charlie White, sorta di brand (Sergio Romano), il Gatto e la Volpe collodiani reincarnati a Nordest perciò caratterizzati dalla tipica parlata cantilenante, ibridata di dialettalismi e infarcita di colorature blasfeme corrette in extremis, con la divinità che degrada a zio. Il film diviene via via invitante come un fritto misto da bacaro: dentro vi troviamo sia i fallimenti che la gioia di essere (ancora) vivi, condizione essenziale per berne un altro: l’ennesimo ultimo.

Dori e Carlo, inseparabili compagni di zingarate, vivono dentro il Veneto come all’interno di un terrario, tra rovine e ricordi poco lucidi, in cui l’unica frontiera praticabile è quella della sfida con la propria capacità alcolemica. Non solo tenuta a piombo, ma pure tenuta a galla. Lo scopo quotidiano, coazione a ripetere rituale, è ritrovarsi in un fondo di bicchiere prima di coricarsi, per sopportare il vuoto materiale lasciato da una fortuna che li ha baciati e viziati nei lontani Nineties e poi abbandonati. Ribaltando ruoli e illusioni, il Gatto e al Volpe veneti, si sono arciconvinti che il loro amico Genio (Andrea Pennacchi), nomen omen, già mitico vincitore del Caliera Trophy, abbia sotterrato una fetta del bottino (di zecchini d'oro?) ricavato dai traffici illeciti legati alla produzione di occhiali, espressione della florida piccola e media impresa nordestina. Mentre assaporano un secondo tempo di fasti partono per accoglierlo al suo ritorno dall’Argentina, dove si era rifugiato in attesa della prescrizione. Ma i due sbagliano aeroporto, traditi da un’ambiguità motivata da interessi turistici che intitola a Venezia anche il piccolo aeroporto di Treviso. Finiti tra le calli della città lagunare, incontrano per caso il loro Pinocchio, Giulio (Filippo Scotti), studente d’architettura: ragazzo meridionale, timido e smarrito, che si unisce al viaggio, trovandosi senza saperlo dentro una favola moderna, della quale diverrà, infine, protagonista inatteso.
Le città di pianura, scritto e diretto da Sossai con Adriano Candiago, è un road movie malinconico quanto ironico, ambientato in un Veneto che, pur ferito dagli eccessi perpetrati in nome dello sviluppo economico, pare resistere con disincanto, non senza effetti collaterali. Di tappa in tappa, a bordo di una Jaguar ripezzata alla meglio, ci muoviamo assieme ai tre uomini, tra la polvere del passato e alcolici di ogni tipologia e grado, udendo il linguaggio bleso delle osterie ma pure quello dei poeti, persi tra il cemento delle tangenziali e la nebbia che tramuta l’orizzonte in infinito. Non importa, dunque, chiedersi se la regia di Sossai sia guidata dalla memoria dell’opera di Collodi o, per quanto riguarda le immagini in movimento, ispirata alla maniera del conterraneo Carlo Mazzacurati e di Aki Kaurismäki, veneto de facto, affine per tematiche e ambientazioni. Ciò che conta è che Le città di pianura si ostina a presentarsi come una mappa. Una mappa del tesoro che diviene una mappa sentimentale di un territorio sospeso tra mito e rovina, falsi ricordi e nuove sfide epatiche.
Il filo del rasoio su cui camminano i due perdigiorno diventa una corda per funamboli, sospesa fra l’antica civiltà di villa, tra colonne palladiane, affreschi raffiguranti divinità crapulone, vuote barchesse un tempo destinate al ricovero di bestie e attrezzi, al centro di acri verdi che si estendono a perdita d’occhio e che rischiano di essere limitati dalla costruenda autostrada Lisbona-Treviso-Budapest; e il non-finito, denunciato da costruzioni in laterizio forato, accanto all’eredità della modernità sincretica di Carlo Scarpa, nume tutelare del film, a ricordarci che i manufatti architettonici, così come chi li commissiona, sono rovine in fieri.
In questo Veneto labirintico trovano posto sia la sublime tomba Brion (più volte divenuta set hollywoodiano, come nell’ultimo Dune), sia le edicole votive kitsch, contenenti statuine di santi prodotte in serie, coloratissime, sovraccariche di lucine e ornate di fiori di plastica sbiaditi, che presidiano scaramanticamente i bordi delle strade. Fra tali totem e luoghi dismessi si sviluppa il viaggio picaresco condotto da due compagni troppo vecchi per crescere e al tempo stesso troppo disincantati per fermarsi a fare un qualsivoglia bilancio di vita. Ogni sbornia severa di Dori e Carlo è sottolineata dalle inquadrature sghembe, punto di vista obbligatorio che contagia anche chi osserva: nessuno si senta escluso dal baccanale, né dal romanzo di formazione di Pinocchio.

Giulio è sperso in un Nordest che tenta di decifrare, tracciando una mappa che lui stesso compone foglio per foglio: un modo per radicare i ricordi di quell’avventura, a futura memoria. Indeciso, fragile, spaventato, incline alla resistenza, eppure curioso e complice. Dori e Carlobianchi lo accolgono come due maestri di scorribande imprevisti, mentori rovesciati: alter ego di Lucignolo, per proseguire la metafora collodiana. Il loro non è un inganno, anzi è una pedagogia dell’esperienza, fatta di pessimo esempio ma anche di improvvise rivelazioni. Gli insegnano, senza volerlo, che si può continuare a vivere in pace anche nella sconfitta, che la libertà è un esercizio di perdita, che non c’è bugia più grande di quella della reputazione. All’interno del loro veicolo rattoppato, seppure di nobili origini, tra una sigaretta e una bestemmia appena mascherata, Giulio può così accogliere il suo apprendistato morale. Ogni tappa del viaggio è una piccola prova: la fame, il bisogno, la menzogna, la paura, l’iniziazione sessuale e il valore assoluto dell’amicizia.
L’amicizia virile, ricalco maldestro di quella dei cowboy, fatta di ambiguità e simbiosi. Se Collodi tratteggiava per il burattino un’educazione attraverso la disobbedienza, Sossai la filma attraverso la deriva gioiosa. Dori e Carlobianchi non promettono un futuro, ma un presente condiviso; non insegnano la via del bene, ma quella di un coraggio spogliato dalla prosopopea. Il loro Veneto, dalle contrade di montagna, alle città di pianura e di laguna, è un Paese dei Balocchi dismesso, ma vivo nelle parole dei superstiti. Giulio, embrione di architetto e di uomo, in questo spazio desolato impara a ridere, a darsi alla pratica epicurea e a riconoscere la bellezza della perdita.
Nella galleria di modelli per questo Far North-East si possono riconoscere lampi di Easy Rider e Paura e delirio al Las Vegas, oltre a un omaggio a La lingua del santo di Mazzacurati (cui è legato Paolo Cottignola, montatore del film). Non c’è posto per il moralismo né per il giudizio: vecchi e giovani custodiscono vizi privati e disdegnano le pubbliche virtù, tracciando una separazione dal Veneto mitico e stereotipo abbozzato in film come Signore e signori (Pietro Germi, 1966) e Il commissario Pepe (Ettore Scola, 1969). Non c’è bisogno, dunque, di ricorrere all’immagine delle “bronse coerte”, le braci soffocate dalla cenere sempre pronte a divampare: l’esplicito qui sostituisce le maschere consuete senza bisogno di spiegazioni.
Il Veneto di Sossai è una terra che sembra essere senza padroni né contadini, in cui il progresso è passato a bordo delle ruspe lasciando cantieri e nuovi stravolgimenti. È il Nordest nutrito di miti imprenditoriali che si riconoscono nel rolex regalato dal padrone al proprio operaio pensionando, con sottotesto legato alla preziosità del tempo, ma che è il preludio di un annichilimento ludopatico vittima delle slot machine. Un Veneto di fughe all’estero, di furbizie italiche e di esilio senza gloria. Un luogo dove le mete contano più delle mappe, dove l’eldorado, forse, non è mai esistito se non nella memoria alcolica dei cantori di una gioventù spensierata. Un mondo divenuto inespresso, lasciato a metà, dove le vecchie osterie superstiti resistono accanto ai centri commerciali tutti uguali.
In questo contesto caleidoscopico, dove passato e futuro galleggiano dentro l’ennesima ombra de vin, Giulio è un figlio che nessuno aspettava, ma che i suoi strambi mentori riconoscono come tale e adottano. La visita delle città di pianura è parte della pratica educativa: Giulio alla fine del viaggio non diventa un eroe, così come non lo diventa Pinocchio, ma si emancipa dalle proprie idiosincrasie. E i suoi maestri irregolari, il Gatto e la Volpe, non vengono puniti, anzi: continuano a bere, a filosofare a farsi beffe delle morali e del tempo che passa. Ma è in questo paradosso che sboccia il film: è il dubbio che regala ancora un altro giorno da vivere e con esso un altro bicchiere da consumare.
Anche qui, così come in molto cinema di ambientazione veneta, il paesaggio è personaggio; perciò, la costruenda autostrada diviene il simbolo di un progresso immaginario. Sossai filma tutto ciò con raro pudore disinnescando il rischio della posa indignata con l’ironia, alternando momenti di grottesco a squarci lirici che conquistano. I suoi personaggi nordestini sembrano rassegnati, ma conservano inconsapevolmente l’eco dello sguardo critico di Andrea Zanzotto e il disincanto corrosivo di Vitaliano Trevisan. La loro è la testimonianza di un paesaggio interiore che talvolta genera aforismi da conservare a futura memoria. Giulio osserva e ascolta. Anche lui, con noi, è spettatore del film: latore di uno sguardo che studia la disillusione incarnata dai due mentori bislacchi, nonostante le bravate, anche rischiose. Nella sua timidezza si può riflettere la nostra, nell’indecisione lo stallo di una generazione in cerca di miti.

Deve imparare a distinguere le voci: quella del Grillo parlante (la coscienza, il dovere) e quella del Gatto e della Volpe (la libertà, l’errore). Solo perdendosi nella menzogna divertente il ragazzo capirà una possibile verità: che la vita non redime, ma consola. È allora che la favola si trasforma improvvisamente in elegia. Al contempo i due ulissidi scoprono che le tappe del loro viaggio di gioventù si presentano oggi sottoforma di macerie, di osterie chiuse, di capannoni vuoti, insomma: un paesaggio cimiteriale. Ed è proprio la tomba Brion che segna il confine tra vita e memoria, tra oriente e occidente, tra arte e rovina. È il punto d’arrivo del viaggio e insieme il suo conclamato fallimento: l’unico luogo dove i tre protagonisti trovano finalmente pace, seduti sul bordo di una vasca, a parlare del nulla come se fosse l’eternità.
Sossai, insomma, non giudica né assolve: osserva e mette in scena. E nel suo sguardo si sente la pietas di chi ama ciò che racconta. Giulio per contro porta in sé l’eco di milioni di ragazzi partiti dal Sud per realizzare il proprio futuro al Nord; Dori e Carlobianchi rappresentano ciò che di quel sogno è rimasto: due figure coscientemente buffe, che tengono in piedi la propria favola con la forza dell’ironia, mentre Giulio impara a guardare il mondo e al proprio futuro con meno paura. Non diventa un uomo perfetto, ma un uomo possibile. E forse è per questo che, in fondo, il film si presenta quale racconto di formazione rovesciato, finanche nei valori, dove i maestri sono perduti e il discepolo sopravvive grazie alla loro imperfezione.
Nel passo svagato e nei silenzi, Le città di pianura, parlando del Veneto, può raccontare anche il profilo di un Paese intero che, come Pinocchio, continua a cercare la strada di casa immaginando che non la troverà mai davvero. Ma è proprio in quel cammino, nel tentativo di superamento della sete ancestrale, che risiede la sua fragile, irriducibile umanità. Come Collodi, Sossai descrive un viaggio iniziatico: Giulio, il burattino che viene dall'altrove, impara a bere da solo grazie – o per colpa – di due adulti rimasti allo stadio larvale all’apparenza falliti che hanno la capacità di guidarlo verso la disillusione racchiusa nel distico “Noi non sappiamo niente. Però sappiamo tutto”.
