La guerra di Alex Garland

18 Settembre 2025

Il britannico Alex Garland sta consolidando un percorso autoriale interessato a rappresentare non tanto la guerra in sé, quanto la sua messa in scena adottando modalità di racconto radicali prive di ornamenti retorici di sorta. Con Civil War (2024) e Warfare – Tempo di guerra (2025) Garland firma due opere complementari che, pur diversissime, condividono un obiettivo comune: sottrarre la narrazione del conflitto armato all’epica tradizionale per restituirlo quale esperienza percettiva e traumatica. Passato e distopia che sono legati agli Stati Uniti: da un lato il racconto di uno ieri storicizzato, quasi forense, relativo a una missione in Iraq, dall’altro un domani ipotetico, nel frattempo tornato a essere probabile con la rielezione di Trump nel novembre scorso. Le due trame si possono riconoscere in un dittico che interroga i media, lo sguardo e la memoria. Al centro resta il ruolo dell’immagine – fotografica e cinematografica – come testimonianza instabile, sospesa tra vero e falso. È in questa tensione aporetica che Garland rilegge e riscrive il tessuto del war movie contemporaneo, trasformandolo in una diagnosi spietata del nostro orizzonte doppio, ossia quello che pertiene al passato e quello che traguarda a un futuro sempre più minaccioso e prossimo alla guerra.

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Civil War.

Distopia che si fa profezia: Civil War

Il film si apre in media res, in un futuro imprecisato nel quale gli Stati Uniti sono dilaniati da una guerra civile che oppone il presidente alle Western Forces guidate da Texas e California. La fotoreporter Lee (Kirsten Dunst) intraprende con l’assistente Joel (Wagner Moura) e la giovane Jessie (Cailee Spaeny) un viaggio verso Washington per immortalare gli ultimi giorni della presidenza. Lungo il percorso il gruppo affronta massacri e lutti che rivelano la brutalità del conflitto e il crollo di ogni certezza etica. L’assalto finale alla Casa Bianca culmina con la morte di Lee e l’esecuzione del presidente, documentata dalla macchina fotografica di Jessie.

A poco più di un anno dall’uscita, Civil War si impone come un saggio di massmediologia che occhieggia da dietro la maschera della distopia. Garland costruisce un dispositivo stratificato che intreccia cinema di guerra e fotoreportage, concentrandosi sullo sguardo femminile come filtro critico contro la violenza maschile e bianca che domina il conflitto. L’assenza di una narrazione manichea – non esistono veri “buoni”, ma solo “cattivi” più riconoscibili – priva lo spettatore di un punto d’appoggio consolatorio. Proprio come in un reportage che tenta di salvaguardare una sorta di equidistanza per quanto possibile, l’immagine non offre vie di fuga né soluzioni ideologiche.

Se da un lato si avvertono echi del primo mandato di Trump nella figura del presidente assediato (e all’epoca dell’uscita in sala non ancora rieletto), dall’altro il film non si limita a un commento sull’attualità, ma diventa una riflessione sulla violenza come forma di linguaggio politico. Garland tenta di evitare la retorica e i didascalismi, mantenendo l’attenzione sulla pratica dello sguardo e sulla sua funzione etica. Lee e Jessie incarnano due modalità opposte: la prima, segnata dall’esperienza e dal trauma, fatica a mantenere distacco; la seconda, giovane e incosciente, fa della fotografia un atto di appropriazione della realtà, fino a immortalare la morte della collega. Il film, dunque, diventa un trattato sulla trasmissione dello sguardo e sulla responsabilità morale che comporta documentare la violenza. In questo senso Civil War si colloca nella tradizione dei film che hanno riflettuto sul rapporto tra media e conflitto, tra i tanti citabili, penso a Sotto tiro (1983) di Roger Spottiswoode e Salvador (1986) di Oliver Stone, ma con un registro distopico che dissolve la cornice geopolitica e colloca la guerra dentro la nazione (militarmente) più potente del mondo.

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Alex Garland (con la T-shirt, al centro) sul set di Warfare.

Warfare – Tempo di guerra: il realismo del re-enactment

Con Warfare, Garland ci riporta a Ramadi, Iraq, nel 2006. Il plotone Alpha One dei Navy SEAL occupa una casa per sostenere un’operazione dei Marines. Una volta scoperti, sono assediati da combattenti insorti e mentre tentano di evacuare sotto il fuoco nemico, a seguito di un’esplosione, i soldati subiscono gravi perdite mentre i feriti versano in condizioni disperate. L’avamposto diviene dunque una trappola per i superstiti, la tensione cresce in una claustrofobia di attese, esplosioni improvvise e procedure ripetute, in cui il nemico resta invisibile. Dopo una difficile estrazione, le famiglie civili rimangono sole tra le macerie, mentre un montaggio di immagini reali e ritratti dei superstiti chiude il film.

Realizzato insieme all’ex Navy SEAL Ray Mendoza – già consulente militare per Civil War e Jurassic World (2015), oltre che interprete di se stesso, in quanto Seal, per il film Act of Valour (2012, McCoy e Waugh) realizzato per la Marina Militare statunitense finalizzato a reclutare nuovi Seals – Warfare è un esperimento di re-enactment che mira a ricostruire con precisione un episodio avvenuto nel 2006. L’assenza di cornici geopolitiche o morali riduce l’esperienza a pura sopravvivenza, dove il nemico rimane, se non invisibile, sfuggente e la tensione nasce dall’attesa e dalla ripetizione resa insopportabile dalle conseguenze dell’attentato.

In tale contesto ai soldati non appartiene una biografia, essi non possiedono spessore psicologico: sono figure immerse in un tempo sospeso. La regia accentua tale dimensione claustrofobica con un uso ossessivo del sonoro: respiri affannosi, spari improvvisi, rumori distorti che avvicinano lo spettatore alla percezione soggettiva dei protagonisti. Il nemico diventa un’assenza che incombe, un fantasma che regola ogni gesto come già visto, per quanto riguarda Garland, in Annientamento (2018) film-matrice per le sue due successive opere di ambientazione guerresca.

In tal senso Warfare può essere messo in dialogo con altri war movies recenti che hanno privilegiato il realismo sensoriale, come The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow o Black Hawk Down (2001) di Ridley Scott. Tuttavia, Garland e Mendoza vanno oltre: la presenza degli stessi reduci sul set, un’operazione che abbiamo visto in 15:17 – Attacco al treno (2018) di Clint Eastwood, in cui i tre protagonisti sono interpretati da chi materialmente ha sventato l’attentato al treno Thalys del 2015. Accanto al re-enactment vi è l’uso del found footage e la ricostruzione meticolosa delle procedure trasformano il film in un ibrido tra fiction e documento, un’installazione cinematografica che rende permeabile la linea di confine tra esperienza e rappresentazione.

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Warfare.

Due sguardi per due guerre

Se Civil War mette in scena il collasso interno della democrazia americana attraverso lo sguardo delle fotoreporter, Warfare riduce il conflitto alla sua dimensione più minimale: attesa, ripetizione, logoramento. In entrambi i casi, lo spettatore è immerso in un dispositivo sensoriale che annulla la distanza critica, costringendolo a condividere la percezione di chi documenta o vive la guerra. La prima prospettiva è mediatica: la fotografia come testimonianza, filtro etico e strumento di potere, incarnata dal female gaze. La seconda è procedurale: la guerra come meccanismo spietato che annulla l’individuo e lo trasforma in parte di una macchina. Ciò che unisce i due film è la convinzione che la guerra non sia leggibile dall’esterno, ma solo attraverso un’immersione traumatica che lascia lo spettatore privo di certezze.

Un elemento decisivo che accomuna le due opere è l’uso del found footage, ancorché declinato in modi diversi. In Civil War le fotografie che chiudono il film – immagini fittizie ma rese con il linguaggio del reportage – si sviluppano in bianco e nero come reliquie di un evento consegnato alla memoria. È il falso conclamato che si traveste da vero, rivelando la costruzione della testimonianza visiva e la fragilità del nostro rapporto con le immagini. In Warfare, al contrario, il found footage è autentico: i reduci partecipano direttamente alla messa in scena e le immagini finali li mostrano accanto agli attori che li hanno interpretati. Qui il vero si sovrappone al falso, annullando la distanza tra memoria, testimonianza e rappresentazione. In entrambi i casi, il dispositivo mette in discussione l’autorità dell’immagine e il suo statuto di verità. Garland sembra suggerire che la guerra, per essere raccontata, ha bisogno di questa oscillazione continua tra documento e messinscena.

Se è vero che Civil War e Warfare dialogano con i generi tradizionali, ne destrutturano però i codici. Il primo si avvicina al racconto distopico per rivelarsi un saggio sulla mediatizzazione del conflitto e sulla trasmissione dello sguardo; il secondo si radica nel war movie per concentrarne esperienza sensoriale e procedurale, trasformandolo in un esperimento di re-enactment unico nel panorama recente. Entrambi, però, convergono su un obiettivo: la guerra non è un racconto di eroi o di valori, ma una condizione percettiva che ci riguarda da vicino. L’uso del materiale di repertorio – finzionale o autentico – sigilla tale prospettiva, trasformando l’immagine in testimonianza instabile, oscillante tra memoria e rappresentazione.

Garland firma così un dittico atipico, per molti versi coerente con il percorso filmografico pregresso, che ridelinea i confini del cinema bellico contemporaneo. Egli offre non un mito consolatorio o celebrativo, ma una diagnosi spietata del nostro tempo dove la guerra è già parte sostanziale del dibattito pubblico. In Civil War e in Warfare la comparazione proposta da Garland è sospesa tra distopia e trauma – già teorizzata in Annullamento – è racchiusa nel rischio di non distinguere tra vero e artificiale – tema presente nel suo Ex-machina (2015) – e quindi nella ineluttabile confusione tra ricordo e fatto storico.

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