Digital Dishumanities / Tradurre l’errore

13 Aprile 2021

Giochi di parole e pratica pedagogica

La traduzione di giochi di parole non è solo una pratica didattica utile e motivante, che può permettere agli studenti di migliorare, magari divertendosi, la propria competenza linguistica. Credo che questa attività abbia una valenza pedagogica e, indirettamente, politica più alta. Oggi, forse più che mai, è necessaria nella formazione, e non solo dei giovani, la presenza di esperienze che sollecitino il pensiero critico, in cui accanto al rigore e alla “cattiveria” dell’analisi sia richiesto allo studente di mettere in gioco la propria “creatività” (sull’anagramma creatività/cattiveria si veda Stefano Bartezzaghi, L’elmo di Don Chisciotte, Laterza, 2009, p. 15), nel tentativo di trovare soluzioni a problemi che sembrano impossibili da risolvere, o che non prevedono una e solo una risposta corretta.

 

La traduzione dei giochi di parole, come la traduzione degli errori intenzionali o non intenzionali, implica un confronto con testi ambigui e insoliti; obbliga a un lavoro di analisi complesso; costringe a comprendere i modi divergenti e non standard in cui la lingua straniera è utilizzata e i meccanismi che permettono a quel sistema linguistico e culturale di essere sfuggente e sorprendente; ma nello stesso tempo stimola a cercare formulazioni creative e non omologate nella lingua in cui si traduce. Può essere una palestra per esercitare quel thinking outside the box così richiesto oggi anche nel mondo imprenditoriale. 

In un saggio del 1963, di recente tradotto in italiano con il titolo Della traduzione come creazione e come critica (Oedipus, 2016), lo scrittore e semiotico brasiliano Haroldo de Campos sottolinea l’importanza pedagogica dell’atto del tradurre:

 

Le prime armi del traduttore, che sia anche poeta o prosatore, sono la configurazione di una tradizione attiva […]; un esercizio di intellezione e, attraverso di esso, un’operazione di critica in diretta. Che da tutto ciò nasca una pedagogia, non morta e obsoleta, in posa di contrizione e nell’atto di defunzione, ma feconda e stimolante, in azione, è una delle più importanti conseguenze. (p. 46)

 

Tradurre giochi di parole è un “esercizio” che ha molto a che fare con la vivacità e l’operare attivo, e poco o nulla con l’automatismo e la passività. […] Che il gioco non sia un “parassita” che si “accomoda su uno dei molti anfratti del grande corpo della lingua”, ma che sia piuttosto “inerente” alla lingua, è ricordato anche da Bartezzaghi in Parole in gioco. Per una semiotica del gioco linguistico (Bompiani, 2017, p. 8). Se guardata con curiosità attiva, la lingua offre continuamente occasioni per scoprire (nel senso di invenire, di togliere la coltre a ciò che è lì, davanti agli occhi di tutti, ma spesso non si vede) feconde ambiguità. 

 

Analizzando, ad esempio, i protagonisti di La lettera scarlatta di Hawthorne non si può non constatare che i loro nomi sono parlanti: Dimmesdale (che rimanda a una valletta, dale, offuscata, vaga, non definita, dim,) dà una chiara idea della psicologia del pastore malinconico, insicuro, incapace di confessare la propria colpa; Chillingworth (capace di far rabbrividire) è il nome adatto per il gelido e mefistofelico marito vendicatore; lo stesso Pearl, per la figlia nata dalla relazione extraconiugale fra Hester e Dimmesdale, segnala la preziosità della bambina, ma anche la evidente affinità con il modo particolare, intrusivo,  con cui le perle si formano nell’ostrica. Guardando con attenzione, o ingenuità, anche il titolo del romanzo, si può restare sopresi da altre strane coincidenze verbali. La lettera A, simbolo dell’adulterio, che Hester Prynn è condannata a portare cucita sull’abito, è scarlatta. In inglese Scarlet porta in sé, nel nome stesso, una cicatrice, Scar. E, forse non casualmente, un “mark” o “stigma”, una cicatrice a forma di lettera A, rossa, simile a quella di Hester, viene vista, alla fine del romanzo, sul petto del pastore protestante, padre illegittimo di Pearl. Da nessuna parte nel romanzo si dice che Scarlet Letter può indicare la cicatrice sul petto di Dimmesdale, ma sta di fatto che il titolo contiene entrambe le lettere (di tela e di sangue) che accomunano gli amanti:  sono lì, in potenza, verrebbe da dire. Va da sé che una traduzione dei nomi “parlanti” dei protagonisti e del titolo, diventato così d’improvviso molto più sfaccettato e connotativo, si trasforma in una sfida non facile. 

 

Essere in grado di stabilire dei collegamenti fra i significati secondari, potenziali, nascosti di più segni richiede un’abilità di rielaborazione critica, non meccanica e soprattutto una mente non “sclerotizzata”, ovvero abituata a percepire le parole non in modo rigido. I bambini sono maestri in questo e si divertono a montare e smontare. John Pollack, che ha scritto un piacevolissimo volumetto divulgativo sui giochi di parole, dal titolo che è già di per sé un bel gioco di parole e nello stesso tempo un bel grattacapo per chi volesse tradurlo (The Pun Also Rises, Gotham Books, 2012), scrive:

 

I bambini, mentre, divertendosi, imparano a individuare e valutare i significati secondari di parole e frasi comuni, di fatto imparano anche a pensare in modo critico. Per capire la barzelletta devono guardare oltre l’ovvio per esplorare altre possibili interpretazioni di quanto hanno appena sentito, e devono farlo in fretta. (p. XXIII)

 

Forse è proprio per questa sollecitazione a “ricercare” ciò che non è ovvio nel linguaggio che i giochi di parole, così come la vitale ambiguità su cui si fondano,  non sono molto tollerati nelle società dogmatiche o totalitarie, dove possibili errori e fraintendimenti devono essere limitati e dove è bene che nessuno pensi in modo divergente da quanto deciso dall’autorità scientifica e dal potere. 

 

Lingue dispotiche

Di questo si accorge Gulliver, durante il suo terzo avventuroso viaggio nei mari d’Oriente, quando giunge nella città di Lagado, capitale del continente di Balnibarbi e sede della grande Accademia. Qui viene informato dei mille progetti strampalati e innovativi messi a punto dagli scienziati di Lagado, ispirati soprattutto dalla razionalità della matematica e della musica, sulle quali si fondava il loro modo di pensare, al punto che, come scrive Swift nella versione di Gianni Celati: “L’immaginazione, la fantasia, l’invenzione sono per costoro cose affatto estranee, né si trovano nel loro idioma parole per esprimere tali concetti, essendo l’intiero campo dei lor pensieri e del loro intelletto limitato alle due discipline sopraddette" (Feltrinelli, 1997, p. 156). Alcuni dei progetti di questi scienziati riguardano il miglioramento delle lingue. Un primo progetto intende rendere più economico il linguaggio riducendo tutte le parole polisillabiche in monosillabiche e togliendo verbi e participi.

 

 

Siccome però è noto che i polmoni a forza di essere sollecitati per parlare si corrodono, contribuendo in questo modo ad abbreviare la vita, gli illustri professori linguisti dell’Accademia di Lagado si convincono che è necessario intervenire in modo più radicale, evitando del tutto l’uso delle parole. Come? Beh, sostituendole con gli oggetti. In fondo, come affermano, “essendo le parole soltanto nomi delle cose, sarebbe più conveniente se tutti gli uomini recassero seco le cose necessarie a esprimere una certa faccenda di cui debbono discorrere” (p. 179). Le donne e gli uomini meno colti di Lagado non condividono questo progetto e preferiscono continuare ad avvalersi della vecchia lingua, rinunciando ai vantaggi di chiarezza e mancanza di ambiguità della nuova lingua oggettuale e oggettiva. Ma i veri intellettuali si avvalgono del nuovo linguaggio, e vanno in giro con un sacco pieno di oggetti che estraggono alla bisogna. Quando gli affari sono complicati, si muovono accompagnati da un paio di servi che portano altri sacchi pieni di oggetti, arricchendo così il loro lessico.

 

L’obiettivo di giungere a una lingua “economica” e non soggetta a fraintendimenti ispira anche i riformatori dell’Oldspeak nel superstato di Oceania, come ci informa George Orwell nell’appendice di 1984 dedicata alla neolingua (Newspeak). Fine specifico della neolingua non era solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente  impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole.

La preoccupazione principale di questa società dispotica e distopica (tra perentesi: aggettivi legati anche dal gioco di parole dell’anagramma) è quindi quella di formare una lingua che non sia ambigua, che non permetta deviazione o modi di “pensiero eretici” o erratici, non consenta “errori”; in definitiva non consenta di pensare: “La neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta” (George Orwell, 1984, tr. S. Manferlotti, Mondadori, 1989, p. 308). […]

Il progetto di normalizzazione della neolingua nello Stato di Oceania è talmente radicale che renderà impossibile la traduzione di testi complessi dell’archelingua, in particolare quelli letterari. Il passo dell’appendice che riguarda la traduzione è illuminante e vale la pena riportarlo per intero:

 

Soppiantata una volta e per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame col passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta, ma qua e là ancora sopravvivevano, purgati alla meglio, frammenti della letteratura trascorsa e, finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell’archelingua, era possibile leggerli. In futuro tali frammenti, ammesso che fossero riusciti a sopravvivere, sarebbero stati incomprensibili e intraducibili. Era impossibile tradurre in neolingua un qualsiasi passo in archelingua, a meno che non si riferisse a un qualche procedimento tecnico o a semplici azioni quotidiane, o non fosse già intrinsecamente ortodosso o, volendo usare la parola in neolingua, buonpensante. Ciò significava, in pratica, che nessun libro scritto prima del 1960 poteva essere tradotto nella sua integrità. La letteratura del periodo antecedente la Rivoluzione poteva essere soggetta solo a una traduzione ideologica, che è come dire a un’alterazione completa del senso e del linguaggio. (Ivi, pp. 318-9)

 

Solo i testi che descrivono procedimenti tecnici o semplici azioni quotidiane sarebbero dunque traducibili nella nuova lingua. Tutto il resto, a partire dai testi letterari, è spedito sulla luna, accatastato accanto alle cose smarrite di cui ci racconta Ariosto. La nuova lingua avrebbe così ritrascritto la storia. Mossa dalla determinazione di giungere a una lingua tecnica, denotativa, che farebbe gola a chi dovesse programmare software per la traduzione automatica e, immagino, semplificherebbe il lavoro dei compilatori di corpora linguistici, la riforma linguistica commette un assassinio, e rispedisce al creatore, all’umanità, la sua creatura più proteiforme e dinamica, il linguaggio, fatto anche di sfumature, di giochi, di ambiguità, di sovrapposizioni, di capitomboli e di errori. Parodiando uno slogan nazionalistico oggi di moda, il motivetto ispiratore della Newspeak potrebbe essere “Meaning first!”, con le forme estetiche, le allusioni, le ambiguità, i remainders (come li chiama Jean-Jacques Lecercle, The Violence of Language, Routledge, 1990) o gli scarti (per dirla con François Jullien, L’apparizione dell’altro, Feltrinelli, 2020) tutti esclusi, come migranti senza speranza e senza terra.

 

Ci piace pensare che la lingua non sia solo meaning; che sia possibile usare una espressione come “Digital Dishumanities”, che non esiste nella lingua inglese dove disumano si dice inhuman o, con un senso diverso, unhuman, semplicemente perché cinque parole del titolo di questo capitolo cominciano con la ripetizione dello stesso suono, perché si crea un legame fonetico fra dire distopico e digital dishumanities, e perché forse qualcuno non si farà spaventare dall’errore, né storcerà il naso di fronte a una irregolarità della lingua.

Ci piace pensare anche che la traduzione non sia solo un’attività tecnica, funzionale a far transitare un meaning da una lingua a un’altra, ma sia una palestra di pensiero critico e creativo, in cui l’essere umano possa provare a fare scelte non completamente prevedibili, così come la lingua, nella sua più profonda natura, è compresenza di regola e arbitrio, vincolo e libero gioco. E se si è fortunati, pur dovendo necessariamente rinunciare a qualcosa, si potrà contribuire a tenere in vita un testo. 

 

Questo testo è estratto dal volume di Franco Nasi, Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo, edito da Quodlibet (2021) che ringraziamo per averci concesso di riprodurlo.

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